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La prospettiva junghiana come fondamento della attuale teoria psicoanalitica

19 Feb 21

A cura di raggi

Gli autori Raggi e Di Costanzo, con questo articolo intendono comparare alcuni fondamentali concetti della psicologia analitica junghiana con le attuali concezioni della Psicoanalisi Relazionale. In particolar modo, vengono discusse le analogie tra il concetto junghiano di “complesso” e il concetto di “stati del Sé molteplici” di Bromberg, il concetto di “Ombra” e il concetto di “non-me” di Sullivan, la concezione terapeutica della psicologia analitica e della Psicoanalisi Relazionale. Vengono esposte anche alcune criticità e peculiarità del modello junghiano. Lo scopo generale dell’articolo è quello di dimostrare come Jung possa essere considerato uno dei pionieri del modello relazionale-intersoggettivo affermatosi recentemente in psicoanalisi.
 
La prospettiva junghiana
come fondamento per l'attuale teoria psicoanalitica

(di Alessandro Raggi e Salvatore di Costanzo)

 
Introduzione
 
La svolta relazionale in psicoanalisi ha cambiato profondamente il modo in cui vediamo la relazione terapeutica e i fattori dinamici che contribuiscono allo sviluppo delle diverse forme di disagio psichico. Concetti come intersoggettività, inconscio relazionale, auto-svelamento dell’analista, mentalizzazione e Sé multipli, hanno modificato radicalmente la pratica terapeutica a orientamento dinamico. A ben vedere molte delle innovazioni introdotte dagli autori relazionali trovano la propria origine nel pensiero junghiano, che a differenza di quello freudiano, aveva già liquidato l’eccessiva enfasi posta alle pulsioni sessuali come elemento centrale della vita psichica individuale.
Infatti, secondo Jung (1928), la sessualità non rappresenta l’unica spinta motivazionale dell’uomo, quest’ultimo per l’autore è caratterizzato da una complessa rete di immagini simboliche, associazioni, che trovano la loro forma compiuta nel concetto di inconscio collettivo. Contrariamente a Freud che ha indagato esclusivamente l’inconscio personale, Jung teorizza la presenza di un inconscio collettivo caratterizzato da archetipi, forme apriori di conoscenza che prendono forma attraverso i simboli nei sogni e nei miti.
La psicoanalisi moderna, in particolar modo quella vicina al movimento relazionale, ha cominciato ad indagare i fenomeni psichici oltre il solo punto di vista intrapsichico, come invece la psicoanalisi classica ha sempre fatto, indagando le relazioni interpersonali e intersoggettive radicate all’interno di una specifica matrice culturale, avvicinandosi così ad alcune intuizioni e teorizzazioni già promosse dal pensiero junghiano.
Troppo spesso Jung è stato “dimenticato” da autori contemporanei che si sono avvicinati ad alcuni suoi concetti chiave come quello di “complesso”, non rendendo giustizia al suo enorme lavoro di ricerca e teorizzazione che per la sua attualità supera di gran lunga quello freudiano.
In questo articolo si cercherà quindi di mettere in relazione tra loro alcuni concetti nati all’interno del paradigma relazionale con i classici concetti elaborati da Jung, mantenendone le corrispettive differenze e peculiarità.
 
1. La teoria dei complessi e la molteplicità degli stati del sé
 
Gli studi sulle associazioni verbali nei pazienti gravi affetti da schizofrenia hanno permesso a Jung (1907) di elaborare il costrutto teorico di “complesso”. A seguito degli studi sui nessi associativi, Jung teorizzo che la psiche fosse composta da elementi disgiunti, insiemi emozionali-affettivi che si aggregano attorno a nuclei di disposizioni formali innate (archetipi): questi insiemi prendono appunto il nome di “complesso”.
Nella concezione dell’autore la mente è caratterizzata dalla integrazione di diversi “frammenti”, più o meno grandi, densi o coscienti, che la popolano.
Secondo Jung un complesso è caratterizzato da una qualità percettiva, affettività e mnemonica, a sua volta caratterizzato dall’insieme di rappresentazioni connesse tra di loro da una specifica tonalità affettiva. Secondo lo psicoanalista svizzero la mente è strutturata come una rete: composta da una molteplicità di complessi in relazione tra loro. Per questo motivo, la salute mentale può essere valutata sia in base al livello d’integrazione tra i diversi complessi, sia in base alla quantità di coscienza con cui ciascuno di essi emerge dall’inconscio
In modo del tutto analogo alla concezione junghiana di personalità, la moderna psicoanalisi relazionale, e in particolare lo psicoanalista Philip Bromberg (2012), considera la mente come un insieme di “stati del sé molteplici”, caratterizzati da una specifica tonalità affettiva. Bromberg definisce uno stato del sé come l’insieme di affetto, percezione, credenze, relative al Sé e all’altro.
Il concetto di stato del sé, caratterizzato al suo interno da altri micro-processi, è straordinariamente vicino al concetto junghiano di complesso. Entrambi gli autori enfatizzano l’idea che la psiche umana sia composta da una molteplicità di elementi in relazione tra loro. Specificamente per Bromberg la personalità è caratterizzata da innumerevoli configurazioni sé-altro che attraverso un processo di maturazione sviluppano un senso di coerenza e di continuità che viene esperito in modo illusorio come un coesivo senso d’identità personale.
In analogia con Bromberg, anche Jung aveva già considerato l’integrità dei complessi nella psiche soggettiva come frutto di un processo illusorio di unitarietà. Entrambi gli autori considerano gli stati del sé, o i complessi, come elementi autonomi all’interno della mente individuale, “particelle” che godono di vita propria e che in modo flessibile possono manifestarsi nella coscienza dell’individuo.
Jung (1912) afferma: «penso ai complessi come a una massa di rappresentazioni relativamente indipendente (perché autonoma) dal governo centrale della coscienza e in grado per così dire in ogni stante di deviare o interferire con le intenzioni dell’individuo.». La psiche è così formata da una gran quantità di complessi, o stati del sé, che in un’ottica dinamica possono incontrarsi o scontrarsi tra loro.
Dal punto di vista psicopatologico, secondo Jung, uno stato morboso si caratterizza da una scissione, più o meno estesa, tra i diversi elementi che vanno a comporre la psiche individuale. In modo analogo secondo Bromberg gli stati patologici sarebbero caratterizzati dalla presenza di una dissociazione rigida tra diversi stati del sé, che non essendo integrabili si manifestano attraverso sintomi. Secondo Bromberg la dissociazione è la condizione stessa della mente, infatti non sempre essa risulta patologica, è il conflitto tra i diversi stati del Sé che rende questo meccanismo rigido e inflessibile. Il paziente che struttura la propria immagine del Sé in maniera rigida rifiuta, disconosce, tutti gli altri aspetti del Sé che considera come non-me. La dissociazione quando è flessibile permette agli stati del Sé di non escludersi a vicenda, di garantirne un’autonomia che regola l’espressione di determinati comportamenti e affetti in base al contesto.
Per Jung l’Io non è altro che un complesso in relazione con gli altri elementi che vanno a comporre la psiche. Per l’autore la nevrosi è frutto di una situazione conflittuale tra la molteplicità complessuale e il complesso dell’Io, che a differenza di ciò che accade nelle psicosi, conserverebbe la sua integrità. Dal punto di vista relazionale, invece, la nevrosi, prendendo spunto dal pensiero di Fairbarin, è il frutto di un conflitto tra diversi stati dell’Io incompatibili tra loro. Secondo Mitchell (2002) l’individuo, attraverso complessi processi identificatori, sviluppa molteplici stati del Io la cui integrità, in specifiche circostanze, può risultare intollerabile. In quest’ultimo caso attraverso la scissione e la dissociazione l’individuo si protegge da quegli stati dell’Io conflittuali. Per Jung (1928) l’Io è l’istanza psichica che permette l’integrazione e la coesione degli elementi molteplici che formano il Sé.
Sia per Jung, che per i teorici relazionali, il conflitto nevrotico è caratterizzato da una contrapposizione tra una tendenza all’unicità e all’integrazione e una opposta tendenza alla molteplicità.
Molto spesso l’individuo nevrotico pur di aggrapparsi a un senso illusorio di coesione e integrità sacrifica la propria molteplicità interiore in favore di una costruzione identitaria rigida che Winnicot (1971) ha definito con il termine di “falso Sé”, costrutto in gran parte sovrapponibile a quello utilizzato da Jung e indicato con il termine latino “Persona”.
In entrambi i casi l’individuo nevrotico rinuncia a parti del sé generative di nuove esperienze e potenzialità. Secondo Jung (1934) tali parti scisse finiscono all’interno di ciò che egli ha definito con il concetto di Ombra personale, mentre per gli autori relazionali gli stati del sé inaccettabili si perdono all’interno dell’abisso creato dalla dissociazione.
Sia per gli autori relazionali che per Jung i diversi stati del sé, o complessi, sono caratterizzati spesso da una tensione contrapposta come nel caso del maschile e del femminile. Per la psicoanalisi relazionale la mente è composta da molteplici paradossi che devono essere elaborati e negoziati dalla psiche individuale; analogamente secondo Jung spesso i complessi hanno tra loro una relazione paradossale, cioè caratterizzata da coppie di opposti. Da questo punto di vista il nevrotico è colui che non riesce a convivere con i molteplici paradossi della psiche: mettendo in atto processi di scissione e proiezione, egli si libera di quei lati paradossali della propria mente. Il nevrotico mette in atto un categorico rifiuto della natura paradossale della vita caratterizzata da stati del sé opposti, arroccandosi dietro difese rigide che gli permettono di vivere una vita “apparentemente” tranquilla.
In modo eloquente Jung (1912) afferma: «la vita psichica normale è un continuo processo di differenziazione e integrazione tra complessi psichici differenti e la patologia della vita psichica è conflitto nascosto tra complessi contraddittori». Il disturbo mentale è dunque, in questa prospettiva, il prodotto di una dissociazione di complessi opposti tra loro o tra elementi scissi e non integrabili dalla coscienza di un medesimo complesso.
La psicoanalisi relazionale, molti anni dopo, è arrivata a conclusioni talmente simili a quelle formulate dal padre della psicologia analitica, da far risultare questo confronto sbalorditivo.
Da un lato però non sorprende la vicinanza teorica tra le due prospettive, infatti, sia Jung che Bromberg traggono spunto dalle intuizioni di Janet (Albasi, 2006) che considerava la psiche formata da molteplici stati della coscienza. Per quest’ultimo negli stati psicopatologici, come la nevrosi ossessiva, o isterica, la funzione sintetica della coscienza viene meno.
Secondo Jung (1939) quindi la crescita personale è legata a un processo in continua evoluzione, da lui chiamato “individuazione”, che permette l’integrazione di complessi psichici differenti e molto spesso in contraddizione tra loro. Durante la psicoterapia l’individuo acquisisce una funzione che gli permette di negoziare ed integrare stati del Sé contraddittori e non voluti: il processo di individuazione, quindi, pur avendo una finalità (l’integrazione), non ha mai una fine prestabilita, ma rappresenta una funzione della mente che va sviluppata e potenziata. Attraverso il processo di individuazione l’individuo trasforma in simboli elementi della personalità che fino ad allora non erano stati codificati, non avevano avuto modo di prendere forma e di essere integrati nell'immagine di sé. In altri termini il processo di individuazione permette di identificare quegli stati dissociati del Sé che la psicoanalisi relazionale definisce non-me e di integrarli attraverso un processo di simbolizzazione all’interno della personalità. Da questo punto di vista il processo di individuazione diventa una funzione molto vicina al moderno concetto di mentalizzazione, o funzione riflessiva, introdotto da Fonagy e colleghi (Bateman & Fonagy, 2019).
In conclusione, la teoria relazionale e la teoria junghiana propongono un modello della mente, nella sua eccezione sana e patologica, molto simile seppur mantenendo le dovute differenze e peculiarità.
 

 
2. Ombra e Non-me: concetti simili in paradigmi differenti          
 
L’analogia tra la teoria junghiana e la teoria relazionale non si limita ai complessi e alla molteplicità degli stati del sé, un altro elemento cardine del pensiero junghiano sembra essere centrale anche all’interno della teoria relazionale: il concetto di Ombra.
Definire il concetto di Ombra non è facile, negli scritti di Jung si fa riferimento al concetto di Ombra con diverse specificazioni. Sinteticamente, in accordo con Mario Trevi (1975) e Alessandro Raggi (2006) è possibile far riferimento al concetto di Ombra in tre modi: 1) come elemento della personalità; 2) come archetipo; e 3) come immagine archetipa o simbolo. In questo articolo farò riferimento solo alla prima accezione, cioè all’Ombra come parte della personalità, ovvero alla cosiddetta Ombra individuale, o personale.
Secondo Jung ogni individuo è composto da parti del Sé negative, non riconosciute, che prendono il nome di Ombra. Nelle sue prime formulazioni, per Jung, il concetto di Ombra è più o meno sovrapponibile al concetto di inconscio personale, però esso fa riferimento anche in modo generico a tutto l’insieme degli atteggiamenti dell’individuo non sviluppati: il potenziale.
L’Ombra rappresenta, altresì,tutte le caratteristiche non accettate dalla persona che vengono comunemente proiettate sugli altri. Il meccanismo della proiezione è fondamentale, gli elementi non accettati dall’individuo vengono scissi e proiettati al di fuori, tanto che riconoscere l’Ombra diventa un lavoro complesso per il soggetto. Secondo Jung (Trevi, 1975) molti degli elementi negativi che le persone osservano negli altri non sono altro che parti del Sé rifiutate e proiettate all’esterno. Ognuno di noi si porta dietro di sé la propria Ombra, e così come accade per gli oggetti inanimati la cui ombra è proiettata sul muro, la nostra Ombra è proiettata sul volto dell’altro.
In modo analogo per Sullivan (Greenberg & Mitchell, 1987), padre della psichiatria interpersonale, la personalità di un individuo risulta essere composta da elementi come il “me buono”, il “me cattivo” e il “non-me”. Secondo l’autore il non-me è composto da quelle caratteristiche della personalità che hanno suscitato nel caregiver un’ansia intollerabile e per tale motivo devono essere dissociate e mantenute distanti dalla coscienza.   
Nella teoria sull’angoscia proposta da Sullivan, il bambino suddivide le sue esperienze relazionali in base al grado di angoscia che esse generano. Si riscontrano così esperienze caratterizzate da un’assenza di angoscia (la madre buona) ed esperienze caratterizzate da una forte angoscia (la madre cattiva). Il bambino costruirà il proprio Sé in base alle risposte convalidanti dell’ambiente.
Le esperienze relazionali prive di angoscia danno luogo a ciò che l’autore chiama “me buono”, mentre i comportamenti che generano ansia prima nel caregiver e poi in modo riflesso nel bambino si strutturano nel “me cattivo”. In più, secondo Sullivan, esiste una terza condizione: nei casi in cui un comportamento produce un’angoscia troppo forte nel caregiver (e poi nel bambino) esso viene escluso dalla coscienza, “dissociato”, in quello che viene definito dall’autore come “non-me” (Greenberg & Mitchell, 1987).
Secondo Bromberg la personalità risulta essere composta solo da elementi “me” ed elementi “non-me”. Gli stati del sé inaccettabili sono dissociati dalla psiche, divenendo così inconsci, secondo l’autore l’uso di concetti come il “me” e il “non-me” rendono più fluida la differenza tra ciò che è conscio e ciò che è inconscio.
In parte, dunque, il concetto di Ombra personale presenta quasi specularmente quegli elementi negativi inconsci e dissociati che nella teoria relazionale prendono il nome di non-me. Così come aveva teorizzato Jung, anche per gli autori relazionali gli elementi non-me della personalità vengono agiti e proiettati all’interno delle relazioni interpersonali.
Così come per Jung il concetto di Ombra rappresenta anche gli elementi non sviluppati della personalità, per l’autore relazionale Donnel Stern (Albasi, 2006) gli elementi non-me dissociati della personalità rappresentano nuclei di caratteristiche individuali ancora non espressi pienamente. Secondo Stern la psicoterapia è il luogo in cui analista e paziente danno forma a tutti quegli elementi che non hanno trovato pieno sviluppo all’interno dei contesti relazionali passati. Come per Jung, anche per Stern l’inconscio rappresenta una risorsa, uno spazio potenziale che permette di accrescere la personalità dell’individuo. Secondo Jung attraverso il processo di individuazione il paziente fa esperienza della propria totalità psicologica, che egli chiama Sé, integrando elementi inconsci rimossi o dissociati che permettono un maggior sviluppo della personalità.
 
3. La relazione terapeutica come campo intersoggettivo
 
Uno degli aspetti più innovativi introdotti dalla psicoanalisi relazionale consiste nell’enfasi posta sulla soggettività dell’analista come elemento cardine della tecnica analitica (Aron, 2004). Attraverso l’auto-svelamento del proprio controtransfert all’interno della relazione terapeutica l’analista diventa partecipe della relazione instaurata con il paziente, posizionandosi in una continua tensione tra simmetria e asimmetria. È attraverso questa partecipazione attiva che l’analista può fare esperienza delle parti del Sé del paziente scisse e proiettate. Inoltre, lo svelamento del proprio controtransfert permette al paziente di avere un feedback dei propri processi mentali favorendo la nascita di un processo autoriflessivo che stimola l’integrazione della propria personalità. Per gli autori relazionali la psicoanalisi è un incontro tra due soggettività che formano uno spazio terzo che va al di là dei singoli elementi che formano la relazione (ibidem).
Secondo la Benjamin (2019) la patologia consiste nella difficoltà da parte del paziente di instaurare e restare all’interno di uno spazio intersoggettivo, nel riconoscere l’Altro come differente da me. Riconoscere l’Altro come differente permette al soggetto di diventare consapevole anche di quegli aspetti personali scissi e proiettati.
L’idea di intersoggettività era però già presente nel pensiero junghiano, come testimonia anche il pensiero autorevole di Silvia Montefoschi (1977). L’idea d’inconscio in Jung assume una prospettiva sociale e relazionale così come accade per la psicoanalisi relazionale. Concetti come campo intersoggettivo o Self Disclosure trovano la propria origine già nei testi junghiani (Raggi & Butti, 2018). La stessa scelta di utilizzare un setting vis a vis pone la psicologia analitica all’interno di una matrice relazionale-intersoggettiva. La dialettica tra transfert e controtransfert è un elemento essenziale sia dell’approccio junghiano che del moderno approccio relazionale.
Riconoscere l’analista come elemento differente vuol dire riconoscere la propria Ombra proiettata su quest’ultimo: attraverso un riconoscimento reciproco paziente e analista diventano consapevoli di quegli stati o complessi dissociati che hanno messo in stallo la relazione terapeutica, facendo scivolare entrambi i membri in un enactment.
L’accettazione di un legame intersoggettivo spinge paziente e analista a una riflessione sulla relazione che obbliga entrambi i partecipanti a rendersi consapevoli di quegli aspetti del non-me che hanno portato alla costituzione delle dinamiche transfert-controtransfert. Lo sviluppo di un legame intersoggettivo, e quindi il riconoscimento dell’altro come differente da me e dalle mie proiezioni, comporta una sofferenza poiché il paziente è obbligato a lasciare una posizione di onnipotenza soggettiva che gli permette di costruire una relazione basata sui propri schemi rigidi di comportamento, schemi che inibiscono la presa di coscienza della propria Ombra, del proprio non-me. 
Come osserva la Benjamin (2019) molto spesso il riconoscimento reciproco è inibito a causa del senso di vergogna e di colpa che può inondare sia il paziente che l’analista. In questo caso entrambi si chiedono di chi è la colpa per l’impasse terapeutica, vergognandosi di accettare quei lati dissociati del Sé che hanno “bloccato” la coppia terapeutica in un enactment dove ognuno accusa l’altro, un gioco di proiezioni d’Ombra dove nessuno sembra avere il coraggio di riconoscere il proprio lato negativo, il proprio ruolo attivo nella dinamica relazionale che si è instaurata.
Per l’autrice l’atto dell’analista di soffermarsi esclusivamente sull’interpretazione delle resistenze del paziente rappresenta una difesa nei confronti della presa di coscienza dei propri stati del Sé dissociati che hanno contribuito alla messa in scena relazionale.
L’analista ha, per questi motivi, egli per primo l’obbligo di fare i conti con la propria Ombra che costantemente può interferire con il lavoro terapeutico. L’analisi personale deve quindi focalizzarsi anche sullo sviluppo da parte del terapeuta di una maggior attenzione sulla manifestazione in terapia della propria Ombra e l’analista deve maturare un processo di riflessione che gli permetta di divenire consapevole di quali siano i comportamenti legati alla relazione terapeutica dovuti alla proiezione della propria Ombra, dei propri aspetti non-me.
La relazione terapeutica, quindi, sarebbe caratterizzata da un campo intersoggettivo in cui paziente e analista si sforzano a una riflessione comune, un riconoscimento reciproco che permette al paziente di sviluppare quel processo di individuazione identificato da Jung, che consente l’integrazione degli aspetti del Sé dissociati e poco sviluppati.  


 
4. Conclusioni         
 
Come si è potuto osservare da questa breve analisi comparativa tra i concetti elaborati dagli autori relazionali e i classici concetti formulati da Jung, la psicoanalisi moderna ha molti elementi in comune con la psicologia analitica. Entrambe le epistemologie pongono enfasi su una molteplicità della vita psichica concettualizzando il Sé come elemento sovraordinato composto da molteplici elementi tenuti integrati dall’Io. Ed è proprio il rapporto tra molteplicità e integrazione/unicità che caratterizza la clinica sia in senso relazionale che junghiano. In entrambi i casi l’inconscio non è più solo il luogo in cui la mente deposita elementi angoscianti che possono rompere l’equilibrio psichico, ma è anche il luogo di potenzialità inespresse, di germogli stroncati sul nascere, germogli che trovano la propria fioritura all’interno della relazione terapeutica.
Sia Jung che gli autori relazionali pongono una grande enfasi sui processi interpersonali e intersoggettivi che popolano la stanza d’analisi, differenziandosi così nettamente dalle classiche indicazioni sul setting apportate da Freud e da buona parte della psicoanalisi
Il concetto di Ombra permette di integrare attuali concezioni sulla relazione terapeutica con le classiche intuizioni sviluppate da Jung sul processo di individuazione.
Una critica deve essere mossa alle attuali concezioni relazionali che non hanno appieno riconosciuto e integrato l’importante opera di Jung che ha apportato un’innovazione nella pratica psicoanalitica, concettualizzando l’idea di una realtà psichica collettiva, radicata all’interno del contesto socioculturale.
Alcune similitudini tra le prospettive teoriche esaminate non appaiono come semplici analogie tra teorie psicologiche, pur sempre derivanti da studiosi che si trovano al cospetto di un medesimo oggetto (la mente) da analizzare e che pertanto possono vederne aspetti somiglianti. In certi casi si ha l’impressione di sovrapposizioni così radicali tra le descrizioni junghiane e alcune ipotesi relazionali da far sorgere il sospetto che ci si trovi di fronte a contributi di cui non è riconosciuta non solo la fonte d’ispirazione, ma addirittura la paternità (Carotenuto, 1989).
     
La psicologia analitica ha sempre prestato attenzione all’uomo nella sua complessità, caratterizzato da simboli e miti che si tramandano di generazione in generazione attraverso l’inconscio collettivo, la realtà socio-relazionale è sempre stata messa in primo piano da Jung, distanziandosi così radicalmente dal modello freudiano incentrato esclusivamente sul concetto di pulsione.
 
Bibliografia 

  • Albasi, C. (2006). Attaccamenti traumatici. I modelli operativi interni dissociati. UTET Università.
  • Aron, L. (2004). Menti che si incontrano. Raffaello Cortina Editore
  • Bateman, A., & Fonagy, P. (2019). Mentalizzazione e disturbi di personalità. Una guida pratica al trattamento. Raffaello Cortina Editore.
  • Benjamin, J. (2019). Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il terzo. Raffaello Cortina Editore.
  • Bromberg, P. (2012). L'ombra dello Tsunami. Raffaello Cortina Editore.
  • Carotenuto, A., (1989), presentazione e appendice al libro di Andrew Samuels, Jung e i neo-junghiani. Borla.
  • Greenberg, J.R., & Mitchell, S.A. (1987). Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Il Mulino.
  • Jung, C.G. (1907). Psicologia della dementia praecox. Mondadori.
  • Jung, C.G. (1908). Il contenuto delle psicosi. In Opere, vol. 3, Boringhieri, 1999.
  • Jung, C.G. (1912). Trasformazione e simboli della libido. Boringhieri, 1952.
  • Jung, C.G. (1928). L’Io e l’inconscio. In Opere, vol. 7, Boringhieri, 2012.
  • Jung, C.G. (1934). Gli archetipi dell'inconscio collettivo. In Opere, vol.9/1, Boringhieri, 2008.
  • Jung, C.G. (1939). Coscienza, inconscio e individuazione. Bollati Boringhieri 1990.
  • Mitchell, S.A. (2000). Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività. Raffaello Cortina Editore.
  • Montefoschi, S. (1977). L'uno e l'altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico. Feltrinelli.
  • Raggi, A. (2006). L’archetipo dell’Ombra, Il Minotauro problemi e ricerche di psicologia del profondo, 33, Persiani Editore.
  • Raggi, A. & Butti, M.C. (2018). Le nuove sfide della psicoanalisi. OM Edizioni.
  • Trevi, M., & Romano, A. (1975). Studi sull'ombra. Marsilio editore.
  • Winnicott, D. (1971). Gioco e realtà. Armando editore.

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