OLTRE IL SENTIERO DORATO
Cronache dai vicoli dell'invisibilità
di Dolores Celona

Leone codardo

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22 febbraio, 2021 - 09:55
di Dolores Celona

“E il mio coraggio?” domandò il Leone preoccupato.

“Io sono certo che tu sei un animale coraggiosissimo” Oz rispose. 

“Quel che ti manca è la fiducia in te stesso. 

Non c’è creatura al mondo che non provi paura nel trovarsi di fronte al pericolo. 

Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo proprio quando si ha paura, e questo genere di coraggio a te non manca certo.”

(Mago di Oz, L Frank Baum)

And you could have it all,

my empire of dirt,

I will let you down,

I will make you hurt

(Johnny Cash, Hurt)

Il leone codardo è l’ultimo ad apparire lungo il sentiero dorato e lo fa con un gran ruggito.

Il primo approccio che ha nei confronti dell’altro, che sia persona o animale, è quello di gonfiare il petto e ruggire più forte che può mostrando zanne enormi, artigli e zampe grosse e dall’aria minacciosa. 

È così che crede di essersi procurato il titolo di Re degli animali, non con il rispetto ma con la paura.

Gli altri lo temono, lui lo sa.

Sa anche di non potersi rapportare altrimenti. Non sa farlo. 

Gli è stato insegnato che è con la violenza e incutendo timore che si va avanti nella vita e che non bisogna mai sottostare al prossimo, altrimenti si dimostra solo la propria debolezza.

Se gli chiedi perché ti risponde che in effetti non ne ha idea, per lui è così e basta.

Sente dentro di sé, tuttavia, che quella che sta vivendo non è una vita che gli piace. 

Nella sua mente inizia a trapelare un dubbio… e se ci fosse un altro modo, magari meno amaro, di affrontare le relazioni?

Tenere a distanza tutti, covare rabbia perennemente, in realtà lo distrugge giorno per giorno.

Desidera ardentemente delle relazioni autentiche e affettive, non fondate sulla paura. 

Non conosce però alternative. Per lui il “prendersi a botte” è tutto sommato un’interazione umana da ricercare. “ A me piacciono le risse! Mi piace dare botte, mi piace riceverle. L’adrenalina che si prova quando ci si picchia mi fa sentire vivo”.

D’altronde la principale forma di comunicazione di un leone passa per le sue zampe. Puro istinto, si affida alla fisicità per esprimere le proprie emozioni.

Sa di avere un cuore perché lo sente, così come è consapevole di avere un cervello perché lo usa per sopravvivere alla vita di strada.

Ma dalla strada ha imparato che per andare avanti deve essere “furbo”, nascondendo le sue fragilità, la sua codardia, e che deve imparare ad indossare la maschera che l'occasione richiede.

Quella del duro è molto facile perché la sente scritta nel suo DNA. 

"È una questione di stirpe; perciò non torno al mio paese, sennò potrei diventare ancora più criminale".

Dai 14 anni vive lontano da casa, scappato via da dinamiche relazionali che, nonostante rifugga, poi ripropone a chi lo circonda. Per anni ha vissuto per strada e da alcuni anni entra ed esce di prigione.

Viaggia da solo, accampandosi nelle strade di Bologna con suo sacco a pelo. L’aria da duro, la faccia accigliata, passando il tempo tra rapine, sostanze ed escamotages vari per sopravvivere senza dare agli altri la sensazione di essere debole. 

Ma il comportamento che ha finisce col pagarlo. Dopo il primo periodo di detenzione si è reso conto che la scarcerazione lo aveva riportato alla sua vita di prima. Si è sentito fragile, aveva la sensazione di essere accerchiato da persone che lo potevano “sovrastare”. 

I suoi “amici”, chi superstite e chi debilitato dalla vita in strada, non potevano essergli d’aiuto.

Cosa fare allora, se non quello che ha sempre saputo fare bene?  

Così nel giro di una settimana è rientrato in carcere, più allegro che mai.

"Alla fine il carcere mi contiene". La triste consapevolezza di non conoscere alternative all’istituzione.

Le prime volte che entrava in ambulatorio, era un'esplosione di rabbia. Sempre, contro chiunque, da se stesso agli altri. "Lo uccido!" "Mi uccido!" "Mi taglio" etc; i contenuti dei colloqui erano molto forti, spiacevoli, crudi e sempre riguardanti la violenza.

Una volta, mentre era in piedi a ruggire contro il mondo che gli andava contro, gli ho preso le mani, con delicatezza. Si è fermato. È tornato a sedersi. 

Da quel momento non ha più urlato.

Quando è in sezione lo vedo con una faccia cupa.

Quando entra in ambulatorio (non sempre perché ricordiamoci che lui è un leone!) si toglie la maschera del duro. Riprende quella di persona. L'espressione accigliata si scioglie e diventa morbida, pronta ad accettare il momento in cui potrà ridere o abbandonarsi al pianto.

Mi racconta quello che sente cercando di trovare un modo per lenire le sue sofferenze.

La violenza per lui ha lo stesso valore delle droghe se non ancora più importante mezzo per trovare un senso alla sua esistenza. 

Di suo lo sa che è sbagliato, e questo gli provoca non pochi sensi di colpa, ma non riesce a fare altrimenti.

Ha provato a mostrare una faccia diversa ma è subito tornato indietro per paura di essere assoggettato dagli altri.

Allora la vita di strada gli ha regalato la sensazione che la vittoria arriva indossando la maschera che più si confà a quello che l’altro avverte nei tuoi confronti.

È così frustrante per lui dover indossare perennemente una maschera, qualsiasi essa sia, che a questo pensiero lo pervade la rabbia. Quando non riesce più a controllarla, si taglia. Farsi del male gli ricorda di essere vulnerabile. Punirsi per aver procurato dolore dandosi dolore gli pare una punizione adeguata.

Vede se stesso da fuori, pensando che gli sta bene il dolore, necessario e giusto. Come potrebbe non piacergli sotto sotto il carcere, che con la sua privazione della libertà fisica gli restituisce la giustizia della pena?

Una volta in un colloquio gli ho detto che anche lui merita di vivere, mi ha ringraziato ed è scoppiato in lacrime. Non sentiva sua questa possibilità.

Da quel momento ha scoperto e provato a sperimentare delle capacità introspettive che non immaginava nemmeno di possedere.

Il cuore e il cervello, che fino ad ora gli erano sembrati più un fardello che altro, ha scoperto di poterli usare non solo come appendice dell’impulsività. 

Una volta, appena conosciuto, mi chiedeva la lobotomia per non pensare. "Perché di vivere con tutta questa rabbia, dottoressa, non ne posso più".

Ritiene di dover essere maturo per poter affrontare le avversità della vita, eppure dentro di sé sa di essere ancora un bambino nell’anima. 

Desidera ardentemente crescere. Desidera sperimentare la possibilità di essere altro al di fuori del delinquente di cui porta i geni.

Non senza grande fatica, accetta l’ipotesi che ruggire potrebbe non servire per farsi spazio nella società.

L’idea di poter piacere alle persone invece che terrorizzarle lo affascina non poco.

Ci sono e ci saranno delle ricadute che lo porteranno ad avere sfiducia in quanto ha fino ad ora costruito e, soprattutto, a far vacillare la percerzione di se stesso come persona. L’istinto che pulsa dentro di lui lo riconduce al suo temperamento violento e non sempre riesce a resistere a ciò che sente più facile.  

A dire il vero ad oggi non sono sicura di cosa farà. 

La strada può sembrare più facile nella fitta foresta rispetto al sentiero dorato che, nella sua folgorante pienezza, pare sbattergli in faccia di non esserne all’altezza. 

Potrebbe decidere di restare nell’ombra di se stesso, dove l’impulso la fa da padrone e dove il terreno conosciuto lo fa sentire, anche se solo per pochi attimi, “potente”.

Sono però sicura che, qualora decidesse di intraprendere il sentiero dorato, il coraggio per costruire la sua identità consentendosi di vivere la vita che sogna così ardentemente potrà conquistarlo pian piano.

 
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