IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Freud, la storia, la scienza

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25 febbraio, 2021 - 10:35
di Antonello Sciacchitano
 Una verosimiglianza, per quanto elevata, non coincide con la verità. La verità è spesso molto inverosimile e solo in misura esigua deduzioni e congetture possono sostituire le prove dei dati di fatto.
Sigmund Freud, L’uomo Mosè. Un romanzo storico, 1934
 

Rileggendolo per ritradurre il romanzo storico di Freud L’uomo Mosè e la religione monoteista (per il primo saggio v. http://www.psychiatryonline.it/node/9058), si sono affollate nella mia testa numerose congetture su Freud come persona, sull’origine della psicanalisi, sui rapporti di Freud con la cultura dell’epoca e sui rapporti che il movimento psicanalitico ha stabilito con la cultura contemporanea. È difficile mettervi ordine, ma ci provo, ben sapendo che non potrò sistemare tutto il materiale.

Mi sembra che ci siano due estremi entro cui collocare l’impresa culturale freudiana nel suo complesso, pur essendo fin dall’inizio chiaro che non ricade esattamente in nessuno dei due: né sul versante storico né su quello scientifico. Da una parte c’è il polo della singolarità storica, intorno a cui Freud fece ruotare i suoi casi clinici, dall’altro c’è l’ambito della variabilità scientifica, diciamo l’ampio campo aperto da Galilei tra le “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie” e il calcolo delle probabilità, dove Freud non si affacciò mai. Il punto interessante è che i due estremi – il singolare e il plurale – non ricorrono come tali nell’opera di Freud neppure come significanti; furono fuorclusi o espulsi dal simbolico, direbbe il lacaniano; caddero nel reale della pratica clinica, dove fomentano deliri psicoterapeutici, lasciando nel simbolico elucubrazioni teoriche come quelle romanzesche di Freud sulla religione monoteistica di Mosè. In Freud manca all’appello sia la singolarità storica – die Einzigartigkeit – sia la variabilità scientifica­ – die Variabilität; nelle Sigmund Freud gesammelte Werke i due termini non ricorrono.

Allora mi chiedo dove collocare Freud sull’asse uno-molti, individuale e collettivo.
 
Non scienza
Avvio l’analisi dal polo più lontano da Freud: quello scientifico moderno. Freud non citò mai né Galilei né Cartesio, dei quali non aveva le opere in biblioteca. L’unico riferimento freudiano a Cartesio è ai suoi sogni “dall’alto” (Träume von oben), a lui sottoposti da Maxime Leroy e di cui Freud tratteggiò malvolentieri un’analisi molto schematica. Nell’ultima lezione d’introduzione alla psicanalisi sulla concezione scientifica del mondo – già il titolo è inquietante – Freud citò en passantpochi nomi di uomini di scienza: Keplero, scopritore delle orbite ellittiche dei pianeti, Newton, scompositore della luce, e Madame Curie, scopritrice del radio e due volte premio Nobel. Di scienziati a lui contemporanei convocò solo Einstein nel carteggio su Perché laguerra?Non citò Heisenberg, scopritore del principio d’indeterminazione, antitetico alla sua metapsicologia sovradeterministica. Ignorò Mendel, del quale furono riscoperti i contributi fondanti della genetica moderna, scienza per eccellenza probabilistica, all’epoca in cui scriveva i Tre saggi sulla teoria sessuale. Per lui la genetica rimase sempre e solo la psicogenesi dell’Io. I riferimenti espliciti di Freud a uomini della scienza moderna – vedremo subito quanto fossero impropri – comprendono solo due nomi: Copernico e Darwin.

Copernico e Darwin furono da Freud accomunati in un discutibile riferimento metascientifico, da responsabili di due “offese” narcisistiche (Kränkungen) arrecate all’umanità dalla loro scienza. Con la dottrina eliocentrica Copernico avrebbe spodestato l’uomo dal centro dell’universo. Darwin avrebbe fatto di peggio, espellendo l’uomo dal centro del creato. Secondo Jay Gould, sono risibili e presuntuose considerazioni, a loro volta narcisistiche alla seconda potenza, volte a giustificare la terza offesa, quella psicanalitica da lui stesso apportata, che espelle l’Io da casa propria. Sarei poco meno cattivo di Gould nel giudizio, affermando che Freud condivise il comune vizio intellettuale, che diffida della scienza come pratica anti-umanista.

In questo senso Freud non riconobbe e non accolse il vero e innovativo contributo scientifico di Darwin in biologia: la variabilità, completamente assente nella non a caso detta “storia naturale” fino a Linneo. In biblioteca Freud ebbe di Darwin solo The Descent of Man (1872); non ebbe né il suo capolavoro, l’Origine delle specie (1859), né le 800 pagine del suo testamento epistemologico: La variazione degli animali allo stato domestico(1868-1875). Si può opporre a Darwin persino la dottrina del progetto intelligente, purché si rispetti la variabilità del reale, concetto nuovo rispetto all’antico polimorfismo.
Il riferimento diretto di Freud a Darwin è una falsa citazione tendenziosa, mirante ad avallare con l’autorità di Darwin la propria mitologia. Secondo Freud, in L’origine dell’uomoDarwin avrebbe anticipato la teoria dell’orda primitiva (Urhorde), esposta da Freud in Totem e Tabù (1912) e ripresa in Psicologia delle masse (1921). In verità, Darwin non parlò mai di orde primitive, ma solo di piccole comunità (small communities) di uomini primitivi. Jones racconta che entro la ristretta cerchia dei suoi adepti Freud si dichiarava lamarckiano. Gli sembrava che Lamarck trattasse meglio di Darwin la trasmissione dell’eredità arcaica (die archaische Erbschaft) dei caratteri acquisiti. Si sbagliava. Oggi l’epigenetica rivaluta sostanzialmente Lamarck. Anche la contestata struggle for life darwiniana è vista meno antropomorficamente (meno vitalisticamente) come variabilità di complessi equilibri multifattoriali, sostanzialmente caotici.

Non ho molto altro da aggiungere a proposito della miseria scientifica di Freud. Passo allora al suo approccio storico, dove la storia si fa più complicata.
 
Non storia

Già all’inizio del suo percorso intellettuale, negli Studi sull’isteria (1895), Freud si lamentava che i propri casi clinici si leggessero come novelle, carenti com’erano del marchio autentico della scientificità. Ma quale “scientificità” intendeva? Per quanto detto sopra non intendeva certo la scientificità galileiana. La mia ipotesi, intorno a cui organizzo l’argomentazione seguente, è che la scientificità di riferimento fosse per Freud l’aristotelica; intendo loscire per causas, cioè la conoscenza storica degli effetti attraverso le cause che li determinano. Non voglio dire che Freud fosse uno specialista di Aristotele, tutt’altro. Freud di Aristotele aveva in biblioteca solo la Poetica, il testo dove lo Stagirita parla di catarsi, forse dono di Breuer. Freud ereditò l’aristotelismo, in particolare l’attaccamento al principio di ragion sufficiente, in via indiretta attraverso Ippocrate, che per “comprendere” le malattie parlava di agenti morbosi, in genere le diete e le condizioni ambientali. Freud non fu positivista, come si ama dire; fu ippocratico.

Questo è il mio punto fermo (Anhaltspunkt): l’impresa culturale di Freud non fu scientifica, forse non fu neppure storica, come dimostro più avanti. Di certo fu medica e addirittura di un’Antica medicina, come già Ippocrate scrisse contro Empedocle, cioèmedica all’antica, precisamente medica in senso ippocratico. Estraneo a Freud fu il ragionamento probabilistico abduttivo (secondo Peirce) della diagnosi, che implica il passaggio dalla verosimiglianza dei sintomi, date le malattie, alla probabilità delle malattie, dati i sintomi, su cui si basa la moderna diagnosi medica, assistita dal calcolatore. Ancora mio padre, bravo medico dell’Ottocento, faceva diagnosi di certezza all’antica e borbottava contro i colleghi più giovani che formulavano diagnosi di probabilità. Probabili per lui significava false.

Le due paginette scritte da Freud, intitolate “L’uomo Mosè, romanzo storico”, da preporre come introduzione ai suoi tre saggi su L’uomo Mosè e il monoteismo, ma mai pubblicate e ritrovate da Pier Cesare Bori, che le ha pubblicate per l’edizione OSF delle opere di Freud, inquadrano bene il fatto, che il complesso dei tre saggi su Mosè sia più romanzesco che storico. Lo storico, mi si dice, opera su fonti, da cui estrae alcune congetture che tenta di verificare su altre fonti. Il rischio del lavoro storico è noto come “bias di conferma”. Confermare – sarebbe meglio dire “corroborare” – una congettura con dati a suo favore non vuol dire dimostrarla. A furia di confermare una congettura si formano false credenze, oggi note come fake news, tipiche quelle negazioniste, che “affermano” la patogenicità dei vaccini sulla base dei pochi e inevitabili effetti collaterali.

Freud opera sulle fonti bibliche, non per trarne congetture, ma per confermare la congettura che si porta dietro da una vita; è la congettura legata alla propria singolare vita – l’evento edipico – che ha il coraggio di generalizzare e applicare a tutti i suoi pazienti. In questo testo parla proprio di “coraggio della generalizzazione” (Mut von Allgemeinheit), come se fosse la base del suo approccio scientifico. Dice testualmente: “Avendo il coraggio di riconoscere questa tesi come una generalità, cui assoggettiamo anche la leggenda mosaica, di colpo vediamo le cose in modo chiaro: Mosè è un Egizio, verosimilmente aristocratico, che grazie alla leggenda viene fatto (o “deve”) diventare ebreo”.
Per quanto ne so, lo storico non generalizza, neppure per stabilire un fatto particolare. Non generalizza per il semplice motivo che non opera con la variabilità ma sempre e solo con eventi singolari, cioè con le singole emergenze storiche. Chi ha fatto il classico sa che “storia” deriva dal greco “istemi” (sistemo) quel che vedo, “orao”. Qui si vede la natura ibrida dell’approccio freudiano; mutua dalla scienza moderna la spinta alla generalizzazione, per esempio il teorema galileiano: tutti i corpi cadono nel vuoto allo stesso modo, ma applica impropriamente l’approccio galileiano al singolo caso storico, “Mosè egizio”, cercando consensi alla sua ricostruzione storica.

(Qui si dovrebbe aprire una parentesi, psicologicamente interessante. Tanti matematici non pubblicano i loro teoremi, affidandoli alla trasmissione orale. Non hanno bisogno del consenso altrui per essere certi della loro dimostrazione, la quale basta a sé stessa. Il caso tipico fu Fermat, famoso congetturologo, che lasciò le sue congetture come esercizio dimostrativo per i posteri, scritte in margine all’Aritmeticadi Diofanto, tradotta da Bachet. Invece, Freud e Lacan, con i loro scritti e i loro seminari, erano alla spasmodica ricerca del consenso pubblico, l’uno dei colleghi, l’altro degli allievi, ben consapevoli della fondamentale incertezza delle loro elucubrazioni dottrinarie.

Nel secondo saggio sull’Uomo Mosè Freud dichiara la propria fobia per l’incertezza, che lo porta a rigettare a priori “congetture senza appoggio”. Rifiutandole non si fa scienza, però. Si pensi alla congettura di Riemann, da lui formulata sulla verifica di un paio di casi; è una congettura centrale nella teoria dei numeri per la distribuzione dei numeri primi, ma dal 1859 è ancora in attesa di dimostrazione. Afferma che gli zeri della funzione zeta hanno parte reale ½. È tuttora “senza appoggio”, essendo verificata “solo” per qualche milione di casi, ma nessun matematico ammetterebbe come non vera la simmetria che essa presuppone, pur non conoscendo la dimostrazione rigorosa.)

Non vado contro Freud dicendo che la gabbia intellettuale del pensiero freudiano fu il determinismo. Lo dico per liberare la psicanalisi da schematismi che la paralizzano tuttora come ai tempi della metapsicologia pulsionale, la strega che affascinò Freud. Freud credeva di salvare la psicanalisi schierandola sotto la bandiera delle discipline storiche, che determinano gli effetti a partire dalle cause. Allora paragonò la psicanalisi all’archeologia, in Costruzioniinpsicanalisi, o applicò le tecniche dell’interpretazione psicanalitica per estrarre la verità storica da testi deformati da successive rielaborazioni tendenziose, in L’uomo Mosè e la religione monoteista.

Su questo punto va fatta definitiva chiarezza. La psicanalisi non è una disciplina storica per una ragione elementare molto semplice. La storia studia eventi del passato che non si modificano più. La psicanalisi studia eventi del passato che si ripetono nel setting analitico sotto la falsa luce del transfert odioamoroso, dove si possono con qualche difficoltà modificare, operando contro l’innata volontà d’ignoranza. La psicanalisi si conclude con un atto etico, che stabilisce ciò che è stato vero e ciò che è stato falso nella storia personale del soggetto. Nella storia gli atti sono già passati agli atti e non si possono più modificare ma al massimo interpretare.

A questo punto non posso evitare di stringere il discorso intorno al tic mentale di Freud, al suo “imperativo bisogno di causalità”, da lui stesso ammesso nel terzo saggio sull’Uomo Mosè e la religione monoteistica.La religione eziologica freudiana aveva un punto fisso patologico: il sovradeterminismo. Freud riteneva che più numerose erano le cause determinanti – cioè le pulsioni –, più l’effetto fosse sicuro. Non disponendo dello strumento epistemologico della variabilità, si sbagliava di grosso.
I casi sono due, a seconda che le cause siano tra loro indipendenti o interagenti. Ogni fattore produce un effetto caratterizzato da un valore medio e da una variabilità, misurata da un parametro statistico noto come varianza. L’effetto di più fattori congiunti ha un valore medio che è la somma dei valori medi dei singoli fattori; se i fattori agiscono in modo indipendente l’uno dall’altro, la varianza dell’effetto risultante è la somma delle varianze dei singoli fattori. In altri termini, con più fattori l’effetto risulta più variabile, quindi più incerto, contro l’opinione di Freud.

Se i fattori non sono indipendenti, ma interagiscono tra loro, le cose si complicano: emerge regolarmente il caos. Si chiama giustamente caos deterministico. Un processo deterministico a livello locale, cioè in piccolo, diventa indeterministico a livello globale, cioè in grande. Consiste nel fatto che piccole variazioni nelle condizioni inziali dei fattori in gioco producono risultati finali molto diversi. È il famoso effetto farfalla del meteorologo Edward Lorenz: un battito d’ali di farfalla a Tokio produce un tifone a San Paolo. Non è teoria recente. Le basi del caos deterministico furono gettate da Henry Poincaré, analizzando il problema del moto di tre corpi di masse comparabili, che si attraggono reciprocamente. Poincarè applicò al caso metodi qualitativi, cioè topologici, introducendo l’analysis situs di Leibnitz, e meritò il premio dell’accademia svedese delle scienze, ancor prima che Freud scrivesse gli Studi sull’isteria. Il matematico stabilì che non c’è formula semplice per il moto dei tre corpi. Bisogna accontentarsi di formule approssimate per brevi periodi di tempo. Oggi non sappiamo calcolare come sarà la configurazione del sistema solare tra dieci milioni di anni. I piccoli errori nella determinazione dei dati iniziali, non consentono di determinare con precisione le orbite di un futuro non molto lontano. Dieci milioni di anni sono un battito di ciglia su scala cosmologica.

Ma non c’è traccia di Poincaré negli scritti di Freud. Ancora un’altra carenza di aggiornamento scientifico! Anche l’eterna ripetizione dell’identico fu anticipata da Poincaré: ogni sistema meccanico torna allo stato iniziale dopo un tempo sufficientemente lungo, eventualmente quanto la durata dell’universo. La pulsione di morte, inventata da Freud, ha alla base questo teorema, che ha il merito di essere meccanico e non vitalistico come la metapsicologia freudiana, basata su forze costanti che non sono né biologiche né psicologiche. Ma Freud non era a suo agio con i teoremi. Conosceva solo due assiomi: la castrazione del figlio e l’assassinio del padre. Li chiamava scibboleth, le password della sua psicanalisi, che gli allievi dovevano apprendere – e pronunciare come si deve – per entrare nella sua scuola. Se pronunciavano sibboleth, erano espulsi. Successe a Adler e Jung, che contestarono la falsa scienza di Freud in nome di altre false scienze.
 
Ma tecnica

Non trovando posto né in campo scientifico né in campo storico, dove si sistema la psicanalisi? Freud ebbe l’idea geniale: il posto della psicanalisi era nel campo della tecnica, ovviamente della tecnica terapeutica, cioè nel campo ippocratico della medicina, dove si pratica la restituzione dello stato pre-morboso. Vediamo le conseguenze della mossa freudiana di cui stiamo ancora oggi pagando le conseguenze.

Oggi, in tempi di pandemia, si vanno convocando in più parti del mondo comitati tecnico-scientifici, CTS. È un errore epistemologico equiparare tecnica a scienza. In pratica, la scienza ha bisogno della tecnica, ma la tecnica non ha bisogno della scienza. Ben prima di Homo sapiens, gli scheggiatori di asce acheuleane possedevano una tecnica consolidata per produrre tali strumenti, ma non erano scientifici. La differenza è epistemica. La tecnica ha delle verità pratiche dalla sua; la scienza ha solo congetture teoriche; la prima è certa, la seconda incerta; la prima si insegna in scuole, la seconda dipende da innovazioni aleatorie, che si innestano su paradigmi quasi mai ben definiti.

Radicando la psicanalisi in ambito tecnico, Freud la pose in terreno sicuro, all’interno di un perimetro scolastico, ben definito e chiuso in sé stesso. La tecnica giustifica il determinismo: si fa così perché, applicando la tecnica, si vuole ottenere con certezza l’effetto cosà. La psicanalisi non è scienza perché è una tecnica da applicare secondo criteri ben definiti, addirittura professionalizzati durante il training del giovane analista. Si forma il tecnico, l’uomo di scienza si inventa.

La lingua tedesca favorisce la deriva deterministica del pensiero: Bestimmtheit significa sia determinazione sia certezza, prevalentemente nel senso soggettivo del prendere una decisione in modo determinante per l’azione. Dopo quella freudiana sorsero tante altre scuole, tutte fondate sullo stesso principio di verità; sono certe in modo deterministico: esistono verità psicanalitiche da trasmettere senza errori da maestro ad allievo, per esempio nella cosiddetta analisi didattica. La trasmissione della psicanalisi fu il cruccio di Lacan, noto maestro e innovatore. Inventò i cosiddetti “matemi”, non perché fosse matematico, ma perché era maestro; affidò a un pacchetto di formule incontrovertibili (e incomprensibili, quindi non interpretabili) la trasmissione del suo insegnamento, anche dopo la sua dipartita.

C’è un’incontestabile affinità teorico-pratica tra tecnica psicologica e religione. Entrambe si reggono su verità dottrinarie, stabilite in modo dogmatico; entrambe richiedono un periodo di formazione intellettuale, alias indottrinamento, per passare dal soggetto collettivo, la scuola o la parrocchia, al soggetto individuale, l’allievo o l’adepto; entrambe mirano alla salvezza dell’anima. Nella postfazione alla Questione dell’analisi laica (1927) Freud auspicava la formazione di weltliche Seelsorger, “curatori d’anime mondani”. Freud si dichiarava ateo ma nell’intimo era profondamente religioso: credeva nella religione delle cause, cioè nella causa religiosa. Il suo romanzo su Mosè esalta il genio religioso, con chiari segni d’identificazione.

C’è poco da fare, ormai. È impossibile sradicare la psicanalisi dal terreno dove Freud l’ha piantata, anche se si vede che sta avvizzendo sempre più; il terreno della tecnica sembra esaurito. La pulsione di morte sta facendo il suo inarrestabile e inesorabile lavoro di appiattimento. La ragione è semplice: la tecnica sorgendo sul terreno della verità acquisita, non evolve verso verità più vere, essendo la verità stabilita per fede sub specie aeternitatis. In campo tecnico non esistono innovazioni. O meglio, esistono, rendendo semplicemente obsolete le tecniche precedenti. Ogni volta la storia ricomincia da capo, da un’altra verità. Nel caso psicanalitico, le sedute brevi di Lacan hanno mandato in soffitta le sedute di 50 minuti di Freud, ma non c’è stato un sostanziale progresso tecnico. Io ho usato indifferentemente sedute lunghe e sedute brevi, a seconda dei casi. Ricordo ancora una seduta di un’ora e tre quarti per riuscire a far confessare a un’analizzante pluri-TS l’inceSTo paterno (sottointendendo il padre), con cui terminò l’analisi, liberandosi dall’incubo e dai TS.

Concludo in proposito con il mio caso personale, ovviamente per me esemplare. Da quando, un quarto di secolo fa, nel 1996, al ritorno da un mio trip newyorchese, imboccai la strada della psicanalisi scientifica, addirittura galileiana, cominciando dall’applicare la logica intuizionista all’inconscio freudiano, ho visto progressivamente calare le domande d’analisi. La gente non ama la scienza, quando apertamente non ne diffida, perché meccanica e antivitalista. Il senso comune pretende la tecnica certificata da un diploma di abilitazione, nel caso in psicoterapia. Oggi, compiuti gli ottant’anni d’età, dopo quaranta di pratica analitica, sono finito senza analizzanti e ho chiuso lo studio. Ha senso che esista l’analista senza analizzanti? Sono ancora analista? Se penso che non ho prodotto allievi… Non è un paradosso? Certo non si chiede un’analisi per ragioni scientifiche ma per ragioni di sofferenza soggettiva. Come la mettiamo, allora, con Galilei? Aveva ragione Freud a non nominarlo mai? Temo di sì.
 

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