Morire al tempo del CoViD-19: addio mamma!

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28 marzo, 2021 - 06:36
E se capisce ‘a mamma quann’ è morta,

quanno nun ce sta cchiù sta scucciantona:

ca pare ca t’accide ogne mumento e,

doppo nu minuto, te perdona.

Raffaele Viviani

 

Era di sabato il 28 marzo 2020, un sabato che in questa situazione surreale si presentava bene. Rivedevo mia madre dopo 12 giorni, giorni lunghissimi in cui mi ero vietato di andare a trovare i miei genitori in quanto impegnato in ospedale, temendo di poter portare il virus a casa: gli anziani sono quelli più a rischio. Era riuscita a portare a termine l’iter diagnostico per quel melanoma asportato all’inizio dell’anno, un maledetto “pT3b sec. AJCC VIII ed.”, con l’intervento di radicalizzazione e linfonodo sentinella. La Tac Total Body e l’ecografia linfonodale ci aveva fatto ben sperare. Ero passato a casa nel primo pomeriggio, non avevo le chiavi del portone, era scesa per venirmi ad aprire. Aveva anche telefonato ai nipoti.

Un incontro intenso, aveva esordito con “sei uscito da galera?”. Era il suo modo di fare ironia proiettando i suoi più intimi vissuti. Sì, lei era imprigionata da quasi un mese in casa, l’unica uscita era stata questa per poter eseguire l’intervento. Sola con mio padre, era diventata la sua badante, dopo che un’ascite indotta dalla cirrosi epatica lo aveva portato ad accumulare oltre 25 kg di liquidi; solo una recente paracentesi era riuscita a ridurre. Quel sabato ero uscito per andarla a trovare e mi aveva affidato il compito di comprare i farmaci che gli avevano prescritto per il post-intervento. Glieli avevo riportati, per vivermi, solo oggi lo posso dire, quegli ultimi momenti con lei. Volevo restare ma avevo fretta di andarmene, la fottuta paura di poter essere un asintomatico mi pervadeva.

L’ho lasciata a casa, ero contento e speravo che anche i risultati dell’ultimo intervento potessero darci qualche buona notizia. Lei appariva scaricata da quella tensione del pre-intervento, posticipato per ben tre volte; ormai è divenuta consuetudine rinviare in questa atmosfera emergenziale anche in quei presidi in cui non sono trattati i CoViD-19.

Anch’io mi sentivo sollevato, si era riusciti a portare a termine questo estenuante processo diagnostico, avevo rivisto mia madre e mio padre, lei pur consapevole della dura costrizione di stare a casa e badare a mio padre appariva serena come non mai. Con i suoi quasi settantott’anni negli ultimi giorni si era molto affaticata per accudire mio padre.

Ma poi, la chiamata che ti segna la vita, quella che non vuoi mai ricevere, quella che in questo clima di sospensione immagini sospenda tutto come la vita stessa. La voce straziata di mio fratello al telefono che diceva: “corri corri mamma non sta bene”. Mi precipito, giacca, mascherina, chiavi dell’auto, giù di corsa per le scale. In auto non riuscivo a pensare, quei due minuti che ci volevano per raggiungere la casa di mia madre sembravano interminabili, nonostante il deserto per strada. Le scale di corsa, la porta aperta e mia madre lì di fronte seduta sulla poltrona, con gli occhi e bocca chiusa; sembrava che dormisse. Dormiva per sempre.

Ero scioccato, ero un bimbo che chiedeva a gran voce alla mamma di risollevarlo dal dolore che stava provando. Il cuore non batteva, nemmeno dallo stetoscopio si sentiva nulla. Non l’avevo mai chiamata “mammina”, lo stavo facendo. Guardavo la faccia di mia sorella e mio fratello, distrutti. Bestemmiavo. Ero furioso contro la mia impotenza. Non potevo fare nulla. L’abbracciavo, la scuotevo, ma niente.

Ero rimasto senza più la mamma, abbracciavo mio fratello che tratteneva le lacrime che uscivano, abbracciavo mia sorella che era un torrente in piena, incuranti delle regole del distanziamento sociale e senza presidi di protezione. Mio padre sul letto, in uno stato di totale stupore. I vicini presenti, con le loro mascherine, che cercavano di risollevarci. Avevano già chiamato il 118.

Nel mondo a quel punto si apre una voragine, in cui un altro vuoto si aggiunge ai nostri soggettivi vissuti. Un vuoto pesante da portare che mai nessuno, che mai nessuna cosa potrà colmare.

L’arrivo del 118 diviene il momento della costatazione del decesso: arresto cardiaco. Avviso mia moglie, mio cognato accompagnato da un infermiere del suo palazzo e mia cognata ci avevano già raggiunti. Noi soli, come solo in questa particolare situazione può accadere. Mia cugina sempre presente, con il marito, nei momenti del bisogno ci raggiunge incurante dei divieti, anche la zia e qualche altra cugina da clandestine ci raggiungono per dare un saluto a volo; non possono restare, le leggi dell’uomo nell’emergenza indotta dalla protezione della vita biologica, impongono l’assenza di fronte alla morte. Sono le 20:00 di un sabato di marzo.

L’infermiere ed io la spogliamo e gli mettiamo la camicia da notte; non avevo mai visto da adulto il corpo nudo di mia madre. Insieme agli altri la solleviamo e la portiamo nel letto in cui trascorreva le sue notti talvolta insonni.

Onoranze funebri, preparare il funerale che non si farà. La chiamata al suo medico di medicina generale, per fargli firmare il modulo ISTAT e la documentazione per la cremazione, che ci comunica di essere fuori Napoli. Cosa alquanto insolita in tempi di impossibilità di movimento, ma forse lui poteva o ha scelto la scusa meno plausibile per evitarsi di entrare in contatto con persone potenzialmente infette; così oggi appaiamo, soprattutto quando si manifestano decessi.

Mia madre non è morta “di” CoViD-19, perché non si muore solo di CoViD-19; però certamente il clima di terrore, l’impossibilità di essere animata dai cari, il dover stare a casa avranno contribuito, facendola, in un certo senso, essere una vittima “da” CoViD-19.

Il medico di guardia ci rimanda all’ASL che in questa situazione di emergenza non sa darci indicazioni su un medico necroscopo. Poi riappare l’umano, un medico di medicina generale, che però non è il suo, si rende disponibile e va anche oltre, non solo ci aiuta nell’adempimento burocratico ma si presta a tenersi le mie piccole per permettere a mia moglie di venire a dare l’ultimo saluto; non se lo sarebbe mai perdonato e questo fa di lei la moglie che mia madre aveva sempre sognato per me.

Nella serata mi raggiungono anche i miei amici di sempre, quelli con cui sono cresciuto, quelli che non ci si vede tanto spesso ma che sono sempre rimasti legati, amici fraterni; non hanno voluto lasciarmi solo, non li posso nominare perché hanno disobbedito alla legge che gli impediva di esserci, ma hanno accolto il richiamo umano, quello che nessuna legge trattiene. Gli sono non solo grato, ma onorato di averli incontrati in questo mondo troppo individualizzante.

Il telefono non smetteva di squillare, inizialmente rispondevo, avevo anch’io bisogno di sentire qualcuno, ma mentre la notte calava la forza diminuiva. I miei suoceri e mio cognato che si disperavano per non poter esserci; non si trovavano nello stesso comune dove eravamo. L’amica del cuore di mia madre che non smetteva di urlare per telefono. I tanti che hanno voluto dare un messaggio di conforto attraverso l’unico mezzo a disposizione. Quel malefico mezzo che fa sembrare tutti in contatto in assenza, diviene l’unica via per poter darci parole di conforto; come pizzini o missive di chi non può far vedersi insieme: ci hanno fatto sentire voluti bene.

La notte avanzava, mio padre a letto in uno stato di coscienza crepuscolare. Io, mio fratello e mia sorella con il marito a vegliare quel corpo che diveniva sempre più freddo; in altri tempi avremmo assistito a quella che si definisce veglia funebre, con i parenti a vegliare e pregare, come quelle descritte da Ernesto De Martino. Non siamo riusciti nemmeno a toglierci le giacche per tutta la notte, un’immagine che non riesco a togliermi dagli occhi; come sé fossimo in un non luogo, in una zona di transito, ma forse è proprio così essenzialmente lo spazio ed il tempo del trapasso dalla vita alla morte o almeno è quello dei nostri vissuti precostituiti dalla tradizione. Il silenzio ci lasciava ognuno presso sé stesso, presso quel vuoto incolmabile che la perdita produce, poche parole rendevano ancor più angosciante l’attesa di un’alba che ci avrebbe consapevolizzati all’assenza. Toccavo mia madre, la fissavo, come a sperare che qualche movimento mi svegliasse da un brutto sogno; non era un sogno.

Una notte in cui il mio pensiero non cessava di processare il ricordo, il momento e la situazione. Mia madre una donna dalle radici contadine, di cui ne vado fiero, nata durante il secondo conflitto mondiale, quello che avrebbe dovuto far cambiare le sorti del mondo, ma che come ogni cosa è nel breve tempo caduto nell’oblio; rimasto nel ricordo solo nelle parventi commemorazioni che annualmente ci accingiamo a fare. Proprio come la pandemia del 1918, che non ci ha permesso di essere più previdenti nel 2020.

Carmela, questo è il nome di mia madre, sopravvissuta al dolore per la perdita della prima figlia, quando era ancora molto piccola. Il suo sguardo sempre austero ed alquanto triste non me lo riuscivo a spiegare da piccolo ma poi cresciuto mi sono reso conto del vuoto incolmabile che si portava dentro; quante volte mi sono detto: come gli avrebbe fatto bene una psicoterapia. Lei aveva scelto, si era obbligata a privarsi per poter dare a noi figli, come sé volesse provare a riempire il vuoto; quanto mi faceva incazzare questa cosa, era il Leitmotiv delle nostre liti. Lei mi ha donato con la sua esistenza vissuta un chiaro modo di manifestarsi del resistere, ed in questi tempi è l’unica arma che abbiamo per combattere il virus. La sua morte mi ha reso consapevole che si può resistere fino ad un certo punto, che non è spiegabile attraverso un processo prettamente biologico; in mattinata l’eco-cuore e l’elettrocardiogramma ci diceva che aveva un cuore forte. Oggi l’emergenza richiede di salvaguardare la vita biologica, anche se fino a poco prima ci si muoveva per giustificare la guerra, che non mi sembra per niente proteggere la vita biologica. Mi ripeto continuamente che quello che va protetto è l’umano di cui l’uomo non è che una minima parte, per questo la morte non è altro che una parte della vita stessa.

Intanto le luci dell’alba mostravano il volto di mia madre sempre più bianco, il corpo rigido conservava la mimica del volto. Il prete del paese è venuto a fargli la benedizione, io ed i miei fratelli abbiamo pregato; l’unico momento in cui le mascherine si sono poggiate sul nostro volto. Guardavo il prete che in cuor suo voleva spogliarsi di quell’orpello di cui purtroppo non possiamo privarci.

Arrivano quelli dell’onoranze funebri, con la bara; eravamo abituati a vederli in giacca e cravatta. Invece, in tuta bianca e mascherine, come se la morte stessa fosse diventata un elemento di contagio da cui difendersi. Un momento doloroso, vedere il corpo sollevato, racchiuso in un telo e riposto nel legno. Una delle immagini più crudeli a cui chi resta deve assistere; quello è il momento in cui ti rendi conto che non c’è più nulla da fare. Con lei un disegno a quattro mani delle mie piccole donne, con la scritta “Non ti dimenticheremo Mai”.

Ci è concesso di accompagnare il feretro fino alla macchina che non la porterà in chiesa come lei avrebbe desiderato, per permettere a quelli che l’hanno voluta bene di poterla salutare; sappiamo benissimo per un credente quanto sia importante la funzione in chiesa. Invece, la porterà al crematorio; mentre i vicini la salutano dai balconi. Orribile non poterla seguire lungo il tragitto; l’emergenza ci impone di lasciarcela portare via. Come se la morte non meritasse di essere vissuta, deve sparire velocemente; come quella dei soldati nel campo di battaglia per nascondere il fallimento della guerra stessa. Un’ulteriore morte ci sopraggiunge; quella dell’essere umani.

L’appuntamento per la cremazione è per il giorno successivo; solo due persone possono assistere, io e mio fratello. Rivediamo la bara, ci danno un pezzo di ferro con un numero: A2109. Il tempo della cremazione è il momento per fumare; bruciare qualcosa come il corpo freddo e rigido di mia madre. Un tempo interminabile, in cui si ripiomba a pensare. Quel numero mi fa pensare ai marchi dei deportati nel periodo nazista ed alla scritta “ARBEIT MACHT FREI”: il lavoro rende liberi. In effetti in questo tempo di emergenza solo noi che lavoriamo possiamo uscire. Solo quelli impiegati nei settori per fronteggiare l’emergenza, la sopravvivenza, e la macchina del potere, possiamo viverci il mondo di fuori delle case che diventano prigioni; dove non si può nemmeno provare a resistere. Mia mamma è il mio eroe.

Ci consegnano le ceneri, ci fanno accertare che i numeri del pezzo di ferro corrispondano a quelli dell’altro pezzo di ferro riposto sulla bara nel forno. Vengono riposte nell’urna di legno che avevamo scelto con il volto di Padre Pio. Stringo quell’urna come se fosse un bambino in fasce, la poggio sul sedile posteriore dell’auto come si fa con i bambini piccoli e di corsa al cimitero. Porto quel che resta nell’ultimo viaggio verso la “casa" che avevano comprato più di venti anni fa; perché i miei genitori hanno dato sempre molto importanza alla morte. Avevano compreso che anche la morte fa parte della vita.

Il cimitero è vuoto, l’emergenza ha imposto il divieto di frequentare i morti; a noi familiari ci è concesso il passaggio. Tengo tra le mie braccia l’urna, mentre aprono il marmo della nicchia; la 630 bis. Nemmeno una scritta; sono tutti chiusi quelli che fanno questo lavoro. Nemmeno una foto; anche i fotografi non possono restare aperti. Il tempo di asciugarci le lacrime che la terranno sempre in vita e via.

La sera stampo una foto con la stampante e l’indomani la porto al cimitero facendole attaccare la luce; perché per mia madre i morti devono avere sempre la luce accesa.

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