SPAZIO JUNG
Psicoanalisi e Psicologia Analitica
di Alessandro Raggi

Una mappa junghiana della psiche: tra complessi e archetipi

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6 aprile, 2021 - 14:00
di Alessandro Raggi
(immagine: disegno di Alice Lazzari)
 
L'autore di questo articolo ci ricorda della sostanziale differenza tra la topica freudiana - sostanzialmente gerarchica - e l'intuizione junghiana di una dimensione psichica raffigurabile come un insieme complesso e multistrato, tridimensionale. La coscienza è, in tal senso, intesa fin da subito da Jung come una proprietà, posseduta in misura differente, dei contenuti psichici. La rappresentazione freudiana della psiche, più semplice e intuitiva di quella junghiana, è stata utilizzata per decenni con la sua immagine metaforica dell'iceberg, ma non corrisponde più all'idea di psiche formulata dalla psicoanalisi contemporanea. Jung rientra, come spesso accade, dalla finestra con la sua immagine dell'arcipelago: la psiche come arcipelago di complessi a tonalità affettiva più o meno dotati, di qualità come la coscienza. 

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Una mappa junghiana della psiche: tra complessi e archetipi

di Dott. Benedetto Tangocci (Firenze)
psicologo e specializzando in psicoterapia analitica

«It is not down on any map;
true places never are.
»

Herman Melville

Partiamo da alcune precisazioni implicite al titolo, ma che per chiarezza ritengo utile esplicitare. L’articolo è indeterminativo giacché sono consapevole che sto presentando una delle possibili interpretazioni del pensiero junghiano. Nella fattispecie la mia, quella appunto di uno junghiano, benché sia chiaro, nell’accezione di studioso di Jung, non certo di seguace di una qualche ortodossia (giacché Jung stesso sembrava discostarsene affermando sovente: «Grazie a Dio sono Jung, non sono uno junghiano»). Sul termine “psiche” specifico che non dovrà essere inteso né come sinonimo di mente né come sinonimo di anima, bensì per dirla con Jung (1921), «per psiche io intendo la totalità dei processi psichici, tanto coscienti, quanto inconsci» (p. 450). Quanto al termine “mappa”, evoluto dal suo originario significato di “tovaglia”, tramite l’abitudine di disegnarvi l’ubicazione di luoghi, fino all’accezione figurata di mezzo per raggiungere una meta, occorrerà dilungarsi nel prossimo paragrafo

Premesse geometriche

Ogni tentativo di rappresentare, ovvero di rendere nuovamente presente (dal latino re-praesentare), qualsivoglia aspetto della realtà, lo riduce ai limiti del mezzo utilizzato. Così uno spazio tridimensionale è appiattito nel disegno (una geo-grafia) su una cartina o una mappa. Si può, sì, tentare una rappresentazione grafica tridimensionale ma inevitabilmente a discapito dei dettagli di una qualche dimensione. Nel caso di un edificio, ad esempio, si disegnano le planimetrie di ogni piano, o gli elaborati grafici della facciata, delle scale o di altri elementi; tentare di raffigurare ogni aspetto in un unico disegno lo renderebbe inintelligibile, sarebbe al più possibile rendere un’idea generale. Così che un elemento verticale, poniamo un ascensore, relativamente al piano in cui si trova al momento, può essere correttamente rappresentato in una sezione verticale dell’edifico, malamente approssimato in un disegno tridimensionale, completamente appiattito in una planimetria.

Limiti generalmente ben presenti a chi intende rappresentare uno spazio fisico, ma cosa succede se invece ci si accinge a descrivere la psiche umana? Innanzitutto quante dimensioni ha, e quali, e come si intersecano tra loro? E cosa succederebbe ad un “ascensore psichico” in una “planimetria psichica”? Esso perderebbe ogni distinzione relativa al piano in cui si trova, alto e basso diventerebbero sinonimi. D’altro canto se viceversa vi ci si riferisse da una prospettiva esclusivamente “verticale” sarebbero altri aspetti ad essere appiattiti in un’unica dimensione. Un po’ come se, visti da una specifica angolazione, dei concetti come “Bene” e “Male” fossero due estremi incompatibili, ma se visti da un punto di osservazione “perpendicolare” apparissero invece come un unico indistinguibile, si dissolvessero in due aspetti di un unico principio. Ciò naturalmente se anche la psiche consta di più dimensioni. Il che non può dirsi certo, ma neppure è appurato che così non sia e la presente riflessione mostra a quali rischi si esporrebbe una teoria che a priori assumesse che così non è.

Nondimeno, per ragionare di qualsivoglia questione dobbiamo averne una rappresentazione semplificata, ovvero uno schema, che forte dei suoi significati etimologici di “forma”, “aspetto”, “configurazione” non sembrerebbe rischiare di appiattire o offuscare i significati. Purché naturalmente lo schema non sia troppo lineare, visto che una linea, per definizione, si sviluppa su un unico piano che per quanto possa essere inclinato a piacere inevitabilmente appiattisce degli aspetti. Pertanto, se il discorso deve seguire un qualche filo logico meglio forse che abbia la forma di spirale tridimensionale, così che nel suo svolgersi intersechi più piani. Eppure uno schema può solo descrive o prescrivere, può dirci cosa, come e talvolta perfino perché qualcosa è, accadrà o debba essere fatto; ma non è sufficiente ad orientarsi. Per orientarsi, occorre riconoscere dove si è, avere una destinazione, e disporre di un mezzo per individuare un percorso atto a raggiungerla. Diremmo che serve una mappa, nella sua accezione più figurata beninteso e – per le argomentazioni suddette – una mappa non piana o al più stropicciata, come nelle mappe 3D, bensì (superandone con la mente i limiti fisici) una mappa densa, profonda e realmente pluridimensionale.

Legenda

Notoriamente Jung ha introdotto in psicologia numerosi concetti, curandosi poco di definirli univocamente. Tutt’altro. L’unico tentativo strutturato risale al 1921, in appendice a Psychologische Typen, nondimeno tale glossario è incompleto e lungi dall’essere definitivo poiché sue successive affermazioni o definizioni degli stessi concetti sembreranno contraddirlo. Quantomeno così appare se i concetti sono confrontati sullo stesso piano. In alcuni casi si è probabilmente trattato di approfondimenti o ripensamenti. In altri, tuttavia, ritengo che la contraddizione sia solo apparente, dovuta a prospettive talvolta parallele, talaltra perpendicolari o trasversali, dalle quali uno stesso concetto assume forme e caratteristiche diverse. Anche lo stile narrativo tutt'altro che lineare di Jung si adatta a questa “geometria” che, a mio avviso, potrebbe consapevolmente o meno essere stata per lui implicita. L’invito pertanto è innanzitutto a leggere la seguente mappa in uno spazio mentale pluridimensionale, consapevoli che ogni qual volta un elemento è descritto in modo lineare aumenta la nitidezza del piano discorsivo al costo però di un collasso prospettico, che è pertanto solo apparente, fenomenico.

Simboli, archetipi e complessi

Un discorso a parte lo richiedono alcuni concetti-categoria, come “simbolo”, “archetipo”, “immagine archetipica”, “complesso”; poiché spesso trasversali a, o inclusivi di, alcuni “luoghi psichici” junghiani.

Nel linguaggio junghiano ricorrono frequentemente i termini “simbolo” o “simbolico”. Nelle già citate definizioni, Jung (1921) specifica la diversa natura tra segno, sintomo e simbolo, attribuendo a quest’ultimo un’esistenza riconosciuta o considerata necessaria e una natura intrinsecamente sconosciuta. Quando la sua natura è nota non è un simbolo, o al massimo si tratta di un simbolo che è stato vivo prima di essere conosciuto, o che lo è per chi ancora non lo conosce, ma che è morto per chi l’ha conosciuto. Nessuna definizione mi risulta Jung abbia invece mai dato di “mito” o “mitologia”, campo di studi per Jung di estrema importanza, col quale si è confrontato per tutta la vita. Sappiamo però dalle sue memorie (1961) che nel 1909 «[gli] capitò fra le mani l’opera di Friedrich Creuzer Symbolìk und Mythologie der alt en Volker, che [lo] accese d’entusiasmo» (p. 204). Nella visione di Creuzer del rapporto tra simbolico e mitologico, il simbolo è elemento trascendente, irriducibile, divino detentore della verità; mentre il mito lo comunica, ne è una delle possibili manifestazioni.

La digressione sul pensiero di Creuzer e sull’entusiasmo provato da Jung leggendolo non è peregrina, poiché  la gerarchia ipotizzata dal primo tra simbolo e mito appare analoga a quella teorizzata dal secondo tra i concetti di archetipo e di immagine archetipica. Scrive Infatti Jung: «“Archetipo” è un termine che si trova già nell’antichità ed è sinonimo di “idea” in senso platonico.» (1938, p.77); «Gli archetipi sono elementi strutturali numinosi della psiche» (1912, p. 231). «Non bisogna mai dimenticare che ciò che noi intendiamo col termine “archetipo” è di per sé irrappresentabile, ma ha effetti – le rappresentazioni archetipiche – che rendono possibili dimostrazioni verificabili.» (1946, p. 231). Per Jung (1949a) la manifestazione archetipica, che appare come schema di comportamento (pattern of behaviour) da una prospettiva biologica, si mostra nel suo aspetto numinoso nello spazio della psiche soggettiva; inoltre «Queste “immagini originarie” о “archetipi’”, come le ho chiamate, appartengono al nucleo della psiche inconscia [...]. Il loro insieme forma quello strato psichico che ho definito inconscio collettivo.» (1929, p. 129). Riassumendo, gli archetipi costituiscono l’inconscio collettivo, si manifestano sotto forma di immagini archetipiche ed agiscono, a seconda della prospettiva da cui si osservano, sia come schemi di comportamento che nel loro aspetto numinoso.

Osservandoli attraverso la complementarietà tra inconscio collettivo e personale emerge che, come «I contenuti dell’inconscio collettivo sono [...] i cosiddetti “archetipi”, [così] “I contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che costituiscono l’intimità personale della vita psichica.» (Jung, 1934a, p.4). Sulla relazione tra archetipo e complesso Jung scrive, ad esempio, che «L’archetipo della madre costituisce il fondamento del cosiddetto complesso materno, [...] in ogni complesso materno maschile, oltre all’archetipo della madre, ha una parte importante anche quello della partner sessuale, l’archetipo cioè dell’Anima.» (1938, pp. 85-86). Scrive inoltre che «L’energia [...] emanata dal complesso paterno deriva dall’archetipo, [...] il padre individuale incarna inevitabilmente l’archetipo, che conferisce alla sua immagine la forza affascinante.» (1949b, p. 342). Mentre alcuni autori junghiani (ad esempio, Hilmann, 1964; Dieckmann, 1991) parlano esplicitamente di “nucleo archetipico del complesso”.

Ma cosa sono i complessi? Jung (1911), negli anni trascorsi al Burghölzli, si accorge del ricorrere di alterazioni nelle risposte ai test di associazione verbale in corrispondenza di parole stimolo riferibili ad un ristretto numero di circostanze personali, ovvero rappresentazioni legate da un tono emotivo comune, da cui “complesso a tonalità affettiva”. In Considerazioni generali sulla teoria dei complessi, Jung (1934b) scrive:

       «[un complesso] È l’immagine d’una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione о atteggiamento della coscienza. Questa immagine possiede una forte compattezza interna, ha una sua propria completezza e dispone inoltre di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza e si comporta perciò, nell’ambito della coscienza, come un corpus alienum animato.» (p. 113).

       «Oggi sappiamo tutti che “abbiamo dei complessi”. Che invece i complessi abbiano noi è cosa meno nota, ma dal punto di vista teorico ancora più importante. L’ingenua premessa dell’unità della coscienza, la quale viene identificata con la “psiche”, e della supremazia della volontà, è infatti posta seriamente in dubbio dall’esistenza del complesso.» (p.112).

       «La via regia per l’inconscio non sono però i sogni, come [Freud] crede, bensì i complessi, che sono la causa dei sogni e dei sintomi.» (p. 118).

       «Dai complessi dipende il bene e il male della vita personale; essi [...] sono il gentle folk che si annuncia con azioni di disturbo nelle nostre notti.» (p. 117).

Alcuni “toponimi”

Jung (1921) si riferisce al Sé (Selbst) come «il volume complessivo di tutti i fenomeni psichici nell’uomo. Esso rappresenta l’unità e la totalità della personalità considerata nel suo insieme.» p. 518). Una mappa completa della psiche sarebbe pertanto una mappa del Sé. All’interno del Sé Jung riscontra anche alcuni “toponimi”, tra cui principalmente: la Persona, l’Anima e l’Animus, l’Io, l’Ombra. Andrebbero inoltre definite molte nozioni (ad esempio quelle di: libido, funzione psicologica, tipo psicologico, enantiodromia, individuazione, funzione trascendente, equazione personale), oltre ai concetti di coscienza, inconscio personale e inconscio collettivo (per il cui approfondimento rimando a un mio precedente lavoro [Tangocci, 2019] che ne confronta la specificità con altre accezioni dei termini presenti nella letteratura psicologica). In questa sede non è tuttavia possibile approfondire tutti i “toponimi” che una mappa junghiana completa dovrebbe riportare, soprattutto considerandone la loro evoluzione nell’arco degli scritti junghiani.

Limitiamoci pertanto a riportare alcune definizioni date da Jung in Tipi Psicologici (1921):

       La Persona, «dal nome della maschera che mettevano gli attori nell’antichità» (p. 452), designa «l’atteggiamento verso l’esterno, il carattere esteriore» (p. 454).

       Mentre Jung designa «con il termine anima l’atteggiamento verso l’interno. Nella misura in cui un atteggiamento è abituale, l’anima è un complesso di funzioni più o meno saldamente costituito, con il quale l’Io può più o meno identificarsi.» (p. 454). «Se per l’uomo parliamo di un’Anima [in latino], dovremmo a rigore parlare per la donna di un Animus» (p. 456). Poiché «essa, nel suo complesso, è complementare al carattere esteriore. L’esperienza ci dice che l’anima suole contenere tutte le qualità genericamente umane che fanno difetto dell'atteggiamento cosciente. […] la complementarità dell’anima riguarda anche il carattere del sesso […]. Una donna molto femminile ha un’anima maschile, un uomo molto virile ha un’anima femminile.» (p. 455).

       Con Io (Ich) Jung intende «un complesso di rappresentazioni che per [lui costituiscono] il centro del campo della coscienza e che [gli sembrano] possedere un altro grado di continuità e di identità con sé stesso. Perciò [parla] anche di un complesso dell’Io. Il complesso dell’Io è tanto un contenuto quanto una condizione della coscienza, giacché un elemento psichico per [lui] è cosciente in quanto riferito al complesso dell’Io. Tuttavia, poiché l’Io è solo il centro del campo della coscienza esso non è identico alla totalità della [...] psiche, ma è soltanto un complesso fra altri complessi.» (p. 507).

       In Tipi Psicologici non è presente la voce “Ombra” nel capitolo delle definizioni. Tuttavia si può leggere nel corpo del testo che «sia opportuno, per una migliore comprensione, scindere l’uomo dalla sua ombra, dall’inconscio, per non correre il rischio di una grave confusione di concetti nel corso della discussione.» (p. 177).

Ricordo infine che nel corso degli scritti di Jung questi concetti sono presentati anche da diverse prospettive e pertanto le definizioni riportate non devono essere considerate esaustive. Sono tuttavia sufficienti a rappresentarsi una prima bozza di mappa del Sé.

Una (incompleta) mappa del Sé

Eccoci alla conclusione. Mi piacerebbe rappresentare graficamente l’immagine pluridimensionale del Sé derivante dal riunire insieme tutte le definizioni riportate. Purtroppo, non ne sono capace. Non solo perché a disegnare sono pessimo, ma anche perché forse non vi riuscirebbero neppure persone nel disegno molto più abili di me. Un tentativo di rappresentazione grafica piuttosto noto è riportato in un libro di Jolande Jacobi (1940), allieva e collaboratrice di Jung. Anche esso, tuttavia, per quanto abbia il fascino di un mandala (forma cara allo stesso Jung), non riesce a riprodurre la pluridimensionalità della psiche che emerge dalla lettura degli scritti di Jung. Sembra semmai più una sezione della psiche e come tale, per quanto utile, ne perde la profondità.

(immagine: mappa del Sé di J. Jacobi)
Non resta quindi che sia il lettore a sforzarsi di visualizzare il territorio psichico nella sua complessità. Mi auguro che questo articolo possa aiutare a rappresentarsi al meglio il modo in cui Jung vedeva il Sé.

Bibliografia

  • Dieckmann, H. (1991). I complessi, diagnosi e terapia in psicologia analitica. tr. it. (1993) Roma: Editrice Astrolabio.
  • Hillman, J. (1964). Senex and puer: an aspect of the historical and psychological present. tr. it. (1999) Puer aeternus. Milano: Adelphi.
  • Jacobi, J. (1940) Die Psychologie von C. G. Jung. Eine Einführung in das Gesamtwerk. tr. it. (2014) La psicologia di C. G. Jung. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1911). Sulla dottrina dei complessi. tr. it. (1987) Opere, vol. 2/2. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1912). Simboli della trasformazione. tr. it. (1970) Opere, vol. 5. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1921). Tipi psicologici. tr. it. (1977) Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1929). Il significato della costituzione e dell’eredità in psicologia. tr. it. (1976) Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1934a). Gli archetipi dell’inconscio collettivo. tr. it. (1980) Opere, vol. 9/1. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1934b). Considerazioni generali sulla teoria dei complessi. tr. it. (1976) Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1938). Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre. tr. it. (1980) Opere, vol. 9/1. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1946). Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche. tr. it. (1976) Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1949a). “Prefazione a E. Harding, “I misteri della donna”. tr. it. (1993) Opere, vol. 18. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1949b). “L’importanza del padre nel destino dell’individuo”. tr. it. (1973) Opere, vol. 4. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Jung, C. G. (1961). Ricordi, sogni, riflessioni. tr. it. (1992) Milano: BUR Rizzoli.
  • Tangocci, B. (2019). Inconsci e coscienza: un confronto tra distinte prospettive psicologiche. Il Minotauro, Anno XLVi n°1, 07-23. Bologna: Persiani Editore.

Autore

Il dott. Benedetto Tangocci è laureato con 110 e lode in Psicologia e specializzando della Scuola di Psicoterapia Analitica Aion. Svolge la professione di psicologo a Firenze. Si occupa di consulenza psicologica, psicologia clinica e psicologia della comunicazione. Questo è il suo sito professionale: https://psicologotangocci.it/.

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