Le parole pronunciate da una persona affettivamente importante (ed al massimo grado da un parente stretto o da un terapeuta) possono essere portatrici di chiarezza e verità, come pure di disorientamento e confusione; di serenità oppure di angoscia. Umberto Saba, nei pochi versi della poesia “Parole” riassume, con mirabile sintesi, quel che è essenziale nell’uso della comunicazione verbale in un rapporto sano e fecondo e, in particolare, in psicoterapia:
Parole dove il cuore dell'uomo si specchiava nudo e sorpreso alle origini; un angolo cerco nel mondo, l'oasi propizia a detergere voi con il mio pianto dalla menzogna che vi acceca. Insieme delle memorie spaventose il cumulo si scioglierebbe come neve al sole.
Rivediamo “parola per parola” questi versi densi di significato:
“Parole, / dove il cuore dell'uomo si specchiava / nudo e sorpreso alle origini”
Le parole ispirate dall'empatia materna, alle origini della vita colgono il bambino “nudo e sorpreso”, ossia privo della possibilità di mantenere il riserbo e sorpreso di riconoscere sé stesso in quanto viene detto: esse sono uno “specchio” tramite il quale, per la prima volta, l'individuo entra del tutto in contatto con sé stesso e le realtà interiori divengono pienamente pensabili.
“un angolo / cerco nel mondo, l'oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto / dalla menzogna che vi acceca”
Presto le parole escono dall'intimità del primo rapporto madre-bambino, e divengono strumento di difesa e di offesa; non sono più portatrici di verità, ma menzogne al servizio del mantenimento del riserbo oppure del desiderio di sopraffare altri ferendoli, calunniandoli, ingannandoli, ecc.. Solo il “pianto”, espressione del dolore per la perdita dell'intimità originaria e della nostalgia per quell’antico rapporto, può permettere di ritrovare, nelle parole, la loro funzione materna originaria: le parole ritornano ad essere rivelatrici di verità, e non più cieche e accecanti.
“Insieme / delle memorie spaventose il cumulo / si scioglierebbe come neve al sole”
Solo la ritrovata parola materna, affettuosa e veritiera, può consentire di dissolvere la primitiva “angoscia senza nome” da cui traggono vigore tutte le successive angosce che si accumulano nel corso della vita.
Wilfred Bion sosteneva che “il benessere del paziente impone che gli sia costantemente offerta la Verità, esattamente come la sua sopravvivenza corporea impone che gli sia fornito il cibo”. La prima Verità che incontriamo nella vita riguarda noi stessi: quel che siamo come individui unici ed irripetibili. L’assenza della parola materna rivelatrice (frequente nei rapporti malati e talora inevitabile anche in quelli sani) equivale alla perdita di noi stessi. Di qui la forma più maligna di angoscia: quella “senza nome”, non pensabile, non elaborabile mentalmente; un’angoscia che si risveglia al riapparire di ogni nuovo motivo di apprensione
In un mondo di menzogne, di continui tentativi di manipolarci e indottrinarci, l’angoscia (in misura variabile da individuo a individuo) è inevitabile. Allora ci rendiamo conto che è più che mai importante trovare un’“oasi propizia” dove il pianto per la perdita di un’intimità originaria, che non tornerà mai più, venga lenito dalla comprensione empatica di qualcuno, e dove, attraverso questa stessa empatia, ci venga di nuovo offerto qualcosa che riproduca quell’originario nutrimento vitale che ci riporti alla realtà del mondo e di noi stessi.
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