Il dibattito sull’ipotesi che il virus provenga dal laboratorio cinese di Wuhan ha, curiosamente, offuscato una realtà allarmante: l’esistenza di laboratori dedicati allo studio di armi batteriologiche, molto più pericolosi, per il rischio di “fuga” di materiale dannoso, delle centrali nucleari. Nel libro la pandemia è collocata nel contesto della guerra non dichiarata tra le superpotenze per il controllo del pianeta (in cui le armi batteriologiche sono lo strumento da non nominare e da non usare, a causa dell’attuale impossibilità di circoscriverne gli effetti, ma che bisogna possedere) e della supremazia nel mercato mondiale delle grandi aziende informatiche o legate al commercio online (che dettano i processi e ritmi della globalizzazione). Mentre si aspira a costruire un “nuovo mondo”, si resta prigionieri di un vecchio mondo che annaspa, sempre più impigliato nelle sue contraddizioni irrisolte.
Lo sviluppo tecnologico ha ridotto in modo impressionante le distanze temporali e ha aumentato, in modo altrettanto impressionante, le distanze relazionali. Possiamo raggiungere in modo estremamente rapido gli altri, ma questo avvicinamento ha prodotto una lontananza psichica siderale. Più si espande lo spazio virtuale (incluso l’interno di un aereo che cancella in poche ore migliaia di chilometri di spazio reale), più ci ammaliamo di mutismo affettivo. L’avanzare dell’automazione/digitalizzazione non ha prodotto tempo libero, ma una grande disoccupazione strutturale, un’infinità di lavori precari e una mancanza insopportabile di spazio e di tempo.
La tecnologia fa parte dell’apparato logistico della nostra vita, può essere molto utile e non è affatto un mostro. Se la società tecnologica si è dimostrata, nei fatti, precaria su tutti i piani, poverissima sul piano della qualità, grandemente ingiusta e infelice, è perché l’umanità si è mossa sempre di più nella direzione di una divinizzazione della necessità, diventata la merce principale sul mercato e lo strumento elettivo di accumulazione di ricchezza. Se confrontiamo la vita di oggi con il modo di vivere trent’anni fa, senza computer e cellulari, ci rendiamo conto che la tecnologia ci ha aiutato molto sul piano della necessità, ma non della qualità che, invece, è molto peggiorata. Il trionfo improprio della necessità ha reso impossibile il suo reale superamento. Viviamo in un perenne stato di emergenza.
Cuniberto coglie con precisione impeccabile il problema essenziale della società digitalizzata: “Se il contatto fisico, il concreto, è l’ultima frontiera dell’umano, l’interattività delle piattaforme è pura e subdola simulazione: l’illusione di comunicare con individui distanti, di trovarsi nello stesso spazio virtuale, non può cancellare l’evidenza inquietante che gli sguardi, sullo schermo, non si incontrano mai. Quel che vi è di più umano in assoluto -l’incontro degli sguardi- è escluso, a priori.” Il culto della necessità, confusa con la libertà, rende virtuale il rapporto con la realtà. Produce cecità, la costruzione artificiale del mondo è suicida.
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