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Comprendere la sfiducia pubblica per migliorare la campagna vaccinale

25 Lug 21

A cura di luigidelia

Un panorama variegato di diffidenze

Pochi giorni fa, cercando di individuare e circoscrivere l’essenziale funzione dei saperi psicologici nella governabilità delle questioni politiche all’ordine del giorno, a proposito del variegato fenomeno no-vax mi auguravo l’entrata in campo di competenze psicologico-sociali non comuni.

Ci troviamo, infatti, di fronte, quando parliamo delle recenti e riottose resistenze pubbliche al piano vaccinale e alle conseguenti norme pubbliche relative alle certificazioni di accesso, a qualcosa di estremamente complesso che sarebbe inesatto ed ingiusto ridurre a semplici meccanismi connessi a ignoranza, disinformazione, pregiudizio, paura, psicopatologia, o comunque ad atteggiamenti meramente reazionari ed emotivi.

Si tratta di una galassia di posizioni il cui studio dal vertice psico-sociale è stato fino ad oggi piuttosto insufficiente per poterne trarre conclusioni sensate, nonché per poter operare contromosse ragionate per il bene comune. Dentro questa galassia troviamo veramente di tutto e di più, persino insospettabili pareri ed opinioni rispettabili che non possiamo semplicemente derubricare in termini di irrazionalità o di posizioni irricevibili.

La tentazione di appiattire questo arcipelago variegato di posizioni contrarie in semplice ciarpame reazionario è davvero alta per gli addetti ai lavori: la preoccupazione di portare a casa l’agognata immunità di gregge nei tempi più brevi, nella corsa contro il tempo verso il virus e le sue continue mutazioni, porta molti fautori pubblici della campagna vaccinale a fallire completamente i toni della comunicazione pubblica e a rinforzare di fatto la polarizzazione in corso. Alla data odierna (fine Luglio 2021) risultano irraggiungibili ben 5 milioni di persone over 50, col realistico rischio che a causa loro saltino totalmente i piani vaccinali e si rientri nell’incubo di ulteriori lockdown.

In un articolo dell’American Psychological Association (APA) del Marzo 2021 a firma Stephane Pappas, Social science and the COVID-19 vaccines. As COVID-19 vaccines become available to wider segments of the population, psychological science will play a key role in ensuring everyone can benefit, si sottolineava esattamente questa consapevolezza nel distinguere e poi individuare le diverse e stratificate posizioni in funzione delle migliori strategie di comunicazione e persuasione. Tutto questo, naturalmente, a partire dalle ricerche e dai sondaggi effettuati per fotografare il fenomeno. Impensabile, a partire da queste premesse, affidare la comunicazione pubblica all’estemporaneità del politico o dell’esperto di turno.  "Non dovrebbe essere l’ora del dilettante con la posta in gioco così alta", afferma Baruch Fischhoff, PhD, psicologo alla Carnegie Mellon University e membro del comitato che ha scritto il rapporto. "Dovremmo fare affidamento sulla scienza psicologica, non all'intuizione su ciò che pensa la gente".

Lo studio americano in questione evidenziava ad esempio, nella realtà degli USA, una varietà di posizioni sia ideologiche che non ideologiche le cui matrici interne, sociali e motivazionali, sono del tutto differenti e che corrispondono a una parallela stratificazione anche di tipo sociologico e politico.

Alla fine di novembre e all'inizio di dicembre, il 27% degli intervistati a un sondaggio sulla salute della Kaiser Family Foundation sul vaccino COVID-19 ha affermato che probabilmente o sicuramente non sarebbe stato vaccinato. Tra i gruppi più esitanti della media, la percentuale che ha affermato che probabilmente o sicuramente non avrebbe ricevuto il vaccino è stata la seguente:
  • Repubblicani: 42%
  • Età 30-49: 36%
  • Residenti rurali: 35%
  • Adulti neri: 35%
  • Lavoratori essenziali: 33%
  • Indipendenti: 31%
  • Operatori sanitari: 29%
  • Uomini: 29%
  • Età 18-29: 28%
Le principali preoccupazioni tra il 27% che non voleva essere vaccinato erano:
Preoccupazioni per possibili effetti collaterali (59% in totale, ma 71% tra gli adulti neri esitanti)
  1. Sfiducia nel governo per assicurarsi che il vaccino sia sicuro ed efficace (55%)
  1. Vaccino troppo nuovo, voglio aspettare e vedere come funziona per gli altri (53%)
  1. La politica ha giocato un ruolo troppo importante nello sviluppo del vaccino (51%)
  1. Il rischio di COVID-19 è esagerato (43% in totale, ma 57% tra i repubblicani esitanti)
Fonte: KFF COVID-19 Vaccine Monitor (KFF Health Tracking Poll, 30 novembre–8 dicembre 2020).

 

Se vogliamo quindi partire da questo studio-pilota (già datato, risalente a dicembre 2020), già possiamo comprendere come le motivazioni di coloro che sono resistenti al vaccino sono estremamente articolate: vaccino insicuro, vaccino troppo nuovo, vaccino troppo sponsorizzato e politicizzato, il COVID-19 non sembra così pericoloso.

Se vogliamo, questo quadruplice schema potrebbe essere lo scheletro dove si sono poi aggiunte tutte le possibili varianti successive e più recenti.

Quindi, le ragioni della diffidenza e della sfiducia sui vaccini non si esauriscono certo in questo schema, ma si ramificano quasi all’infinito, soprattutto se osserviamo ciò che accade negli ultimi mesi sui social a proposito di queste tematiche divisive. Social che in questo caso si offrono come amplificatori naturali di uno shit-storm di ragioni, quasi tutte fondate su nozioni prescientifiche o su interpretazioni riduttive di dati scientifici, che si vanno a saldare, direi cementificare, alle diffidenze di partenza. Shit-storm di opinioni che dilata ancor più la forbice tra disponibilità di accesso alle informazioni e indisponibilità di “ragione”.

Nello stesso periodo della ricerca americana, nel Dicembre 2020, anche in Italia, Guendalina Graffigna (insieme a Serena Barello, Lorenzo Palamenghi, Mariarosaria Savarese e Greta Castellini: Per i no vax ci vorrebbe un’iniezione di psicologia (di G. Graffigna) hanno svolto una ricerca sugli atteggiamenti della popolazione italiana su un campione di 5000 persone. Ed anche in questo caso le posizioni dei resistenti ai vaccini si sono mostrate differenziate:

 “da coloro che sono poco “ingaggiati” nella prevenzione e fatalisti, a coloro che sono scettici e sfiduciati verso il sistema sanitario e i suoi operatori; a coloro che in preda di spunti più paranoici temono che dietro al processo di sviluppo scientifico (veloce) di questi vaccini ci siano conflitti di interesse; a coloro che sono più egoisti e individualisti nell’approccio alla salute e non ritengono di ricevere dal vaccino un vantaggio sufficiente a superarne il rischio.

Anche qui appare errato mettere nello stesso calderone profili motivazionali così differenziati al proprio interno sotto un’unica categoria “no vax”. Vediamone alcune sfumature (al netto di chi il vaccino non può effettuarlo per documentate ragioni mediche):

  • un conto è il fatalismo, magari un po’ ignorante, di chi non si curerebbe in nessun caso;
  • un conto chi è stato travolto dalle grossolane modalità di comunicazione istituzionale sul caso Astrazeneca ed è rimasto nella confusione;
  • un conto ancora chi non aspetta l’ora di poter esprimere disgusto e dissenso verso ogni genere di posizione paternalistica del governo;
  • un conto ancora chi dietro l’incertezza della situazione in itinere della pandemia vi intravede piani segreti persecutori e liberticidi;
  • un conto chi si limita nei propri bilanci a tener conto esclusivamente del piano individualistico e opportunistico;
  • oppure chi nel fare i propri conti egoistici non sa fare semplicemente di conto e pensa che i danni da vaccino siano incommensurabilmente maggiori dei danni da Covid;
  • infine, chi con un semplice movimento di spostamento assume una o più qualunque di queste posizioni per giustificare una semplicissima posizione fobica non riconosciuta (a mio parere caso molto più numeroso di quanto si pensi): fobie dell’ago, fobie di contaminazione, fobie di danneggiamento, etc…
Si riuscirà un bel giorno a misurare ognuna di queste micro-categorie e a trovare per ciascuna di loro la giusta comunicazione/informazione?

Insomma, percorsi decisionali e profili psicologici diversi la cui comprensione risulta oggi la chiave più strategica per orientare una campagna comunicativa puntuale e personalizzata, capace di “ascoltare” oltre che di “predicare”. Perché la sfida dell’accettazione del nuovo vaccino non si giocherà (solo) sul piano della quantità delle informazioni scientifiche e della capacità di promuovere alfabetizzazione sanitaria sul vaccino. Bensì si giocherà nella capacità della comunicazione di toccare le leve emozionali più profonde della popolazione: quelle del coinvolgimento (tecnicamente engagement) e della fiducia. Gli Italiani oggi hanno l’aspettativa di essere trattati da “adulti” nel processo educativo e di comunicazione su COVID-19: e sul piano psicologico questo passa per una comunicazione non solo autentica ma anche capace di costruire fiducia. E la fiducia si costruisce attraverso l’ascolto e la comprensione dei dubbi. Solo ascoltando e comprendendo i dubbi (nelle loro diverse configurazioni psicologiche e decisionali) sarà possibile smontarli e sanarli. Proprio come un processo di immunizzazione, ma questa volta sul piano psicologico: si parte dalle argomentazioni a sfavore dei vaccini per aiutare le persone a compiere un “reframing” cognitivo ed emotivo di tali preoccupazioni e infine per controbattere con argomentazioni scientifiche solide capaci di bonificare il processo di ragionamento e sanare le preoccupazioni. Per fare questo però è necessario partire da un processo di analisi (“intelligence”) puntuale che permetta la profilazione psicologica dei diversi target di esitanza”. Guendalina Graffigna (ibidem)

Sbagliato dunque trattare questa galassia nello stesso modo, sbagliato anche dare del matto o solo del nevrotico a tutti i resistenti al vaccino. Molto più produttivo continuare a studiare le stratificazioni, e le differenti posizioni, dialogare con tutti, comprenderne anche i loro riflessi condizionati legati a stanchezza, disincanto, disillusione, nichilismo e quant’altro maturato nei decenni che ci precedono.
 
 

Crisi della delega, crisi delle democrazie

L’ipotesi che qui svolgo è fortemente orientata a intravedere in un intreccio di cause connesse allo sviluppo recente delle nostre società generatrici di una intrinseca ingestibilità a sua volta prodotta dall’irreversibile crisi della rappresentanza e dall’assenza di strutture intermedie comunitarie in grado di veicolare correttamente il senso di un’emergenza sociale come questa. Tutto questo ci appare visibile proprio nello specchiarci con i nostri fratelli africani o asiatici, consentendoci di cogliere proprio quelle differenze sociopsichiche radicate nel differente modello di sviluppo.

Perché i social media riescono a inquinare così tanto i pozzi della minima ragionevolezza (anche in persone ritenute razionali)? Semplice, perché rappresentano per moltissime persone delle società occidentali, deprivate di autentiche fonti autorevoli, o disabilitati ad utilizzare correttamente le fonti attendibili, esattamente quella fonte di prossimità fiduciaria che è venuta a mancare in questi ultimi decenni della nostra storia. Sappiamo perfettamente, ancora una volta dagli studi della psicologia sociale e cognitiva, che i meccanismi emotivi decisionali siano nettamente prevalenti nel momento in cui si debbano prendere decisioni importanti. I fenomeni di framing occasionale sono innumerevoli. Sono moltissime, ad esempio, ancora oggi le persone che scelgono la cura e il medico solo in funzione della posizione di prossimità fiduciaria: un amico/a, un parente, un consigliere ritenuto autorevole, che ci indica quella cura e quel medico. Di converso, conta più l’esperienza vissuta o per sentito dire (magari di terza mano) di un conoscente prossimo che ti racconta di gravissimi danni ricevuti dal vaccino oppure letti su un notiziario qualunque.

Questi meccanismi di diffusione delle notizie, camuffate da “controinformazione”, si sa, viaggiano molto più velocemente e con un impatto assai maggiore rispetto alle informazioni provenienti da fonti attendibili.

Se poi anche le fonti autorevoli toppano completamente forma e stile di comunicazione, allora è fatale che il popolo degli scettici ingrossi le fila.

 
Politica e Scienza: un connubio possibile?

Se dovessi pensare all’aspetto più “rivoluzionario”, paradossalmente in positivo, di questa tragedia globale rappresentata dalla pandemia, sicuramente segnalerei agli storici dei prossimi secoli, il fortunato incontro che si inaugura oggi tra pensiero scientifico e governo di un paese.

Non c’è dubbio che di fronte alla crisi globale di questa portata ogni governo avveduto ha dovuto affidarsi a comitati di esperti che si sono adoperati per prescrivere scenari e rischi legati alla diffusione del virus e all’impatto socioeconomico sul sistema sanitario.

Possiamo però dire che si sia trattato fino ad oggi di un matrimonio sereno e felice? Certamente no.

Da un lato la Scienza ha scoperto, suo malgrado, di non avere tanti seguaci e tante teste pensanti in grado di catturare i propri saggi messaggi e di comprendere i propri calcoli, leggere le proprie tabelle, interpretare i propri dati, tollerare le proprie incertezze. E forse da un altro lato si è accorta che nessuna parcellizzazione dei saperi rappresenta una vera conoscenza spendibile pubblicamente e solo l’integrazione di competenze trasversali (non solo legate alle scienze cosiddette hard) può davvero essere funzionale e spendibile. Essere molto intelligenti come biologi, fisici e medici non corrisponde esattamente a saper comunicare: questo richiede un surplus di intelligenza (emotiva, relazionale) che ci siamo resi conto essere assolutamente non disponibile per moltissimi scienziati.

Dal canto suo la Politica sta toccando con mano quanta intelligenza e razionalità sono necessarie per gestire una crisi del genere e per garantire ad una classe dirigente un minimo di dignità e credibilità. Ma soprattutto sta toccando con mano quanto sideralmente lontani siano tantissimi cittadini dallo sviluppare una parvenza di fiducia verso qualunque istituzione pubblica. Questa sfiducia parte da molto lontano ed è una criticità endemica e strutturale degli stessi sistemi democratici attuali in questa fase decadente del capitalismo occidentale. Non si cura con la seduzione o il carisma del leader (che dura sempre il tempo di un batter d’ali), non si cura nemmeno con l’autoritarismo. Si cura aumentando l’intelligenza emotiva della classe dirigente e la sua capacità di collaborare con la scienza, da un lato. Ma soprattutto si cura rivolgendo la Politica ai veri interessi dei più deboli, assottigliando il più possibile l’iniquità sociale esistente nel mondo.

Oggi, grazie alla gravità di una crisi mondiale, il dialogo tra Politica e Scienza è appena cominciato e qualcuno già comincia ad avere dimestichezza con pensieri più complessi di metodo e razionalità. Ma la Politica per come è programmata in tempi di neoliberismo acefalo, è totalmente tarata su tempi brevi e consensi immediati, quindi questo matrimonio appare somigliare più ad un flirt che ad un vero e proprio connubio sul lungo termine.
 
 

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