«Se il nazismo avesse trionfato, l'Europa sarebbe scomparsa […]
non come realtà geografica ma spirituale […]
essenzialmente determinata dalla figura di Cristo […]
la vera fonte della cultura europea»
(Romano Guardini di Giuliano Riva).
Scrivevo nel mio articolo «25 aprile. Si fa presto a dire “Libertà”. E la “Giustizia?» comparso su POL.IT. Psychiatry on line Italia il giorno successivo (26 aprile, 2021) per commemorare la fine della seconda guerra mondiale: «Sono passati 76 anni, sono in attesa della seconda dose del vaccino anti-Covid e ancora non ho compreso le ragioni profonde (psicopatologiche e storiche) di quella immensa follia che generò tanto odio (individuale, collettivo, pregiudiziale, razziale) ad appena 20 anni dalla Conferenza di Pace di Versailles» (29 giugno 1919). Una follia prevalentemente stupida, quella che una volta gli alienisti chiamavano “frenastenia”, e che ancora oggi si manifesta in Italia. Del tutto recentemente hanno guadagnato la scena mediatica alcuni imbecilli cooptati in movimenti sedicenti politici che giocano la più stupida delle gare: togliere un “Falcone e Borsellino”, dalla toponomastica delle strade, per metterci un “Mussolini” e un “Hitler”
Riprendo l’argomento, per aggiungere che questo fatto della “Liberazione del 1945”, coincide col mio periodo bolognese, il primo della mia esistenza. Tempus fugit, vola il tempo e, col passar dei giorni, ho fatto anche la seconda – ed ultima – dose di richiamo anti-Covid senza problema. Ho pure terminato di ascoltare e vedere la Conferenza di Alessandro Barbero su “Cause e dinamiche dello scoppio della 2° Guerra Mondiale” [01], trovata in rete. Con l’ascolto (attento e ripetuto) della sua lezione non è che sia riuscito a capire le ragioni di quella colossale pazzia che fu la seconda guerra mondiale, ma alcuni degli interrogativi mi sono apparsi più chiari. Se non altro, contestualizzati in ordine cronologico da uno storico abituato a lavorare sul medioevo.
Anch’io, ragionando sulla “Liberazione” del ‘45, pensavo si dovesse prendere la rincorsa da Versailles, ovvero dall’armistizio separato imposto all’impero tedesco dai francesi, dentro un vagone ferroviario a Compiègne, nei boschi della Piccardia. Immagine divenuta famosa e brandita da Hitler come giustificazione della sua ideologia pangermanista. In effetti, mi son sempre chiesto fin da bambino, come sia stato possibile per la Germania hitleriana seminare odio e usare uno sterminio selettivamente mirato (“ebrei”, “mentali” e “diversi”) per oltre 20 anni, senza forti complicità collettive di tutti i popoli liberi del resto del mondo. I “Tedeschi” non furono soli nell’impresa di morte. Dalla “Notte dei cristalli”, un pogrom nazionale antisemita, all’invasione della Polonia e della Russia fino alla disfatta del bunker berlinese, epilogo della “soluzione finale” – la Vernichtungsplan [02] – della questione ebraica C’erano altri fascismi e anche “Italiani e “giapponesi” nella follia dell’ "Asse Roma-Berlino-Tokyo", siglata in un sordido autunno di esaltazione berlinese. Ma questo, non sposta il quesito di fondo, né assolve chicchessia. Neppure ironizzando il tutto, “Asse di Ro.ber.to” [03], come si disse a suo tempo, non fa ridere.
Ho sempre avuto una passione per la storia, che poi ho approfondito ulteriormente quando, da medico, raccoglievo le anamnesi. Ho anche molto bisticciato coi miei amici (numerosi) docenti di Storia (con la esse maiuscola e tanto di cattedra universitaria). Essi negavano validità documentale alle mie “storie dei pazienti”. Peraltro, tutti sanno dei pregiudizi di Benedetto Croce verso la “psicologia” e la “sociologia” e non sono certo ignorate le rigide posizioni di Ernesto de Martino nei riguardi della follia, perché “non fa storia” [04]. Le mie – secondo gli storici – erano semplici opinioni soggettive, “de relata”; impressioni, pertinenti alla «doxa» non all’«epistemai», il livello superiore della conoscenza a fondamento della “verità scientifica” [05]. Io naturalmente non mi zittivo e ribattevo polemicamente: ”Ma il documento che voi esibite come prova storica chi lo ha confezionato?” Questo, però, è un altro discorso, e non è escluso che possa essere eventualmente ripreso. Volevo solo ribadire che io mi ci sono trovato in quell’epoca. La storia di quel tempo, mi ha attraversato. Nella “Grande Storia”, ci ho nuotato dentro e me la sono cavata, nel senso che ho avuto fortuna. E poiché sono sopravissuto, vivendo quel tempo, al quale ho prestato la massima attenzione, sono in grado di raccontare non la Storia, ma quello che ho vissuto, come lo rammento. Come se inconsciamente dovessi rendere testimonianza ai miei figli e ai nipoti, nel caso fossero interessati a sapere com’erano andate le cose, da uno spettatore (un antenato diretto), quando aveva più o meno la loro età (8-16 anni), senza pandemia, senza mascherina e con la libertà di girare per le macerie delle case bombardate.
Codesti nipoti, quando fanno storia contemporanea, si mettono da parte le domande “per sentire dal nonno che c’era”. Mi chiedono spesso della mia vita alla loro età. Della radio, per esempio. La scoperta dell’epoca mia. I primi esperimenti di Marconi, tra le colline di Pontecchio, col maggiordomo Mignani. Vogliono sapere dell’EIAR, delle orchestre, la “musica sincopata” di Natalino Otto, Rabagliati, i discorsi del “Duce”… Difficile sottrarsi quando vieni adoperato come nonno-libro-di-storia. Racconto loro che io nascevo giusto l’anno in cui veniva presentato alla “Mostra di Venezia” un film comico-sentimentale senza telefoni bianchi – "Gli uomini che mascalzoni" (1932) – il primo girato completamente in esterni da Mario Camerini. “Bruno” (Vittorio De Sica, magrissimo, col cotone in bocca per stender le gote), è un giovane autista, che sottrae l’automobile al padrone per condurre la “Mariuccia” a pranzo in una trattoriola sul Lago Maggiore. Ma, novità clamorosa per il cinema di allora, il protagonista canta in diretta “Parlami d’amore Mariù” e si sente in sala! Ecco, dopo tutto, dovevo solo ripensare come avevo vissuto gli anni Trenta e Quaranta, un po’ defilato, a Bologna, una provincia vivace, violenta dove abbondavano i primi “Ras” del “fascismo agrario”, della “bassa padana”, disprezzati da D’annunzio come “straccioni”, ma sfruttati da Mussolini contro gli “Arditi” della “Grande Guerra”, gente pericolosa, avanzi di galera. Mia madre mi disse di averne sentito uno, a Valstagna, prima di Caporetto, dire che non vedeva l’ora di andare all’assalto col pugnale per “cavare il cuore dal petto di un Austriaco e mangiarlo”. Ecco, ai nipoti, avrei potuto colorire le mie storie come mi tornavano in mente, come mi erano state riferite. Come la “mia” guerra si allacciasse a “quella” dei miei genitori, la “Seconda” con la “Prima”. Poi, eventualmente, avrei potuto scriverlo, questo racconto, per maggior precisione. Insomma, una narrazione dell’esperienza vissuta – da bambino – scritta molti anni dopo.
Dei fenomeni storico-sociali dei miei ‘30 e ‘40, bolognesi, rammento i fatti salienti e le esperienze dirette. Intanto comincio col dire che mentre io ero nato “in casa”, in Via San Giuliano, (“entro le mura” etrusche, anche se c’erano già le “Circonvallazioni”) con la levatrice e la Zia Gaetana, la sorella maggiore di mia madre, venuta da Padova per assisterla. Mio fratello Lucio, invece, era nato in una “Clinica Moderna” a Piazza Otto Agosto, perchè dopo la proclamazione dell’Impero, bisognava adeguarsi al progresso, secondo i dettami dell’O.N.M.I. [06]. Inizialmente avevo abitato a Via Leandro Alberti, superata la grande Piazza Trento e Trieste, in uno dei tanti villini padronali bifamiliari,. Era della Signora Monzani a cui pagavamo l’affitto. Aveva esercitato il mestiere di ostetrica a Detroit ed era tornata giusto in tempo, con un bel gruzzoletto, prima del “botto” del ventinove. Possedeva e guidava una automobile nera che teneva parcheggiata in giardino. Andavo già all’asilo alle “Carducci” in Via Dante. Ero molto vivace e la maestra Baccani – che mi riprendeva spesso – diceva a mia madre “Cosa vuole, signora? Lei è veneta ma suo marito è siciliano. Ci vuole pazienza!”. Questa non l’ho mai capita, neanche mia madre, ma lei, la battuta, l’ha sempre ricordata così. Finito l’anno scolastico, andavamo un mese al mare sulla riviera romagnola a Rimini, ma poteva essere anche Riccione, Cervia, Bellaria … poi a Palermo dai nonni paterni e infine a Valstagna de quelli materni.
Siccome la famiglia era cresciuta con Lucio, cambiammo casa per andare in un altro Villino a 3 piani esa-familiare, in Via Ernesto Masi, 7, poco distante dal precedente. Accanto abitavano i Vancini [07], una famiglia conosciuta. In giardino tenevano l’automobile. Tra la rete, vedevo scorrazzare un paio di bambini, ma erano controllati dalla Tata. C’era grande dimestichezza tra le sei famiglie, tutte della media borghesia e il portinaio signor Manzoni che aveva la sua abitazione nel seminterrato. Ciascun nucleo familiare aveva delle caratteristiche interscambiabili con gli altri. Per esempio, la signora Sibini del secondo piano, che non aveva figli, ci faceva scendere dal terzo per ascoltare la radio. I notiziari importanti, da Roma, e i discorsi del Duce. Un po’ come negli anni Cinquanta si andava da quelli che avevano la televisione per vedere “Lascia o raddoppia?”. Di fronte a lei c’erano i Camilli che avevano una gioielleria in Via delle Clavature, dove facevamo gli acquisti (fidati) per battesimi, cresime, comunioni. Al primo piano, però, abitava una famiglia di origine toscana che aveva un bel giardino. C’erano due bambini, per giocare, Nanni e Carluccio. Il loro babbo faceva il rappresentante del lievito Bertolini. Io Fabbricavo burattini, scrivevo copioni, avevo fatto un teatrino. Mi esibivo come “Sganapino” e “Fagiolino”, maschere brillanti del teatro petroniano, col “Dottor Balanzone”[08]. Nanni e Carluccio, furono i miei primi spettatori, si divertivano. Anche la loro mamma era contenta e ci portava una colazione straordinaria, la “brioche montasù” fatta col lievito madre. Al terzo piano, davanti a noi abitava una coppia ebraica di origini austriache i Tolmino, coi quali mia madre era in amicizia. Nel 1938, scapparono in Svizzera e ci vendettero un apparecchio radio “Telefunken", che ancor oggi conservo in una teca. I miei ricordi pre-adolescenziali delle vicende dell’epoca praticamente iniziano da qui.
Ricordo perfettamente di aver ascoltato la voce roca di Mussolini che giungeva da Roma una mattina di primavera del trentasei: « Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! […] Ascoltate! Il maresciallo Badoglio telegrafa: Oggi 5 maggio alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba …». Il fatto mi sembrava eccezionale non per Addis Abeba, ma perché tre giorni più tardi dell’anno successivo (1937) – come ho detto – avremmo preso a festeggiare la nascita di Lucio, l’ultimo dei fratelli. Degli anni trenta, la cosa che terrorizzava maggiormente, i miei, era la “paralisi infantile”, la malattia di Heine-Medin. Ricordo la grande paura della poliomielite, il micidiale virus che colpiva all’improvviso e a tradimento i bambini, come oggi succede, agli anziani con la SARS-Covid-2. Ricordo mio padre, una estate del 1938, che ci aspettava alla stazione di Bologna di rientro da Gabicce, per dire a mia madre di saltare sul treno per Padova e condurci seduta stante a Valstagna, in Canal di Brenta, dov’era nata. Proprio nel villino accanto al nostro, in Via Masi, si era verificato un caso di poliomielite.
– Portali immediatamente dal dottore appena arrivi su! –
Mia madre, infatti, ci portò subito da “Toni Postin”, dove il medico condotto teneva l’ambulatorio per i pazienti della “Contrada Londa”. Sfortunatamente il paziente che il dottore aveva visitato prima di noi era un bambino con la “paralisi infantile”. Tornammo a Bologna e il panico da virus di Heine-Medin si acquietò.
Il sig. Terzi gestiva il chioschetto dei gelati allo sbocco di Via Masi in Via Mazzini. Aveva un figlio che giocava in promozione nel Faenza ed era una piccola celebrità, ma ce n’era un’altra ben maggiore. Cesarino Cervellati alias “cagaro” classe 1930 da Baricella. Nel ‘40, prima della guerra, frequentava con altri ragazzini – e io tra loro – un campetto di fortuna ricavato in un angolo sterrato al “Pontevecchio”, quando la Via Mazzini, ormai fuori porta, costeggiando il “Savena”, un torrentello senza pretese, diventava la via Emilia di Levante. Di abili nel calcio me ne ricordo un altro che non raggiunse la celebrità. Era robusto come una quercia, giocava scalzo e tirava delle bombe micidiali, sui palloni dell’epoca che parevano di legno. Lo chiamavano “il ragazzo del Savena” forse perchè militava nella squadra locale, che gli scarpini glieli dava solo la domenica. Tutti, ad ogni leva”, andammo a fare il “provino” al “Bologna F.C.” Presero solo “cagaro”. Fu campione d’Italia (di football) nel memorabile spareggio di Roma del 1964, con l’allenatore romano Fulvio Bernardini, inteso “Fuffo”. Giocò in “Nazionale”, restò fedele alla società felsinea, anche da allenatore. Andando sui necrologi ho scoperto che se n’è andato tre anni fa (13/04/2018), a Pontecchio Marconi.
Dalla propaganda mi giunse l’alone dei record italiani. La trasvolata atlantica dei “Sorci verdi” comandata da Italo Balbo un ferrarese di Quartesana poi abbattuto a Tobruch da fuoco amico. Nell’estate del ‘33, venticinque idrovolanti Savoia-Marchetti “S.79 Sparviero”, partiti da Orbetello, giunsero in Canada con destinazione finale Stati Uniti d’America. La coloritura romanesca “je famo vede i sorci verdi” è di Attilio Biseo, personaggio incredibile dell’aviazione sorgente. Generale, dell’aeronautica, medaglia d'Oro, istruttore di Bruno Mussolini. Molti anni dopo ho conosciuto un figlio suo, Vittorio, che lavorava nel cinema, compagno di calcetto il sabato ai Cavalieri di Colombo sotto il ponte Duca d’Aosta. Giunse il “Nastro Azzurro” del mitico “Rex”, il transatlantico di felliniana memoria, per la più veloce traversata dell'Atlantico. La sequenza dell’età dell’oro del calcio italiano (1927 – 1938) fu attribuita al regime mussoliniano. Tre Coppe Internazionali, un oro olimpico, due mondiali (“Coppa Rimet”), trenta partite internazionali senza sconfitte. La “Nazionale Italiana” imbattuta nel mondo per oltre quattro anni, non offuscò l’autoritarismo della dittatura che pur tentava col battage pubblicitario di giustificare il potere assoluto nelle mani di “un solo uomo al comando, inviatoci dal destino”. La stessa operazione, anche peggiore, fu compiuta dal “tristo allievo” austriaco di Braunau, meglio organizzato, più paranoico.
Degli appetiti insaziabili di Hitler qualcosa mi giungeva perchè i miei tra loro ne parlavano, mentre il resto della politica lo ascoltavo dal barbiere di Via Savioli angolo Via Mazzini, dove mio padre mi portava per il taglio dei capelli, minacciando di lasciarmici a fare il “ragazzo”, perché ero neghittoso nello studio. La “questione dei Sudeti” non l’avevo mai capita, ma siccome Hitler andava dicendo che la popolazione di Boemia e Moravia, doveva rientrare nella “Grande Germania”, perché parlava tedesco, tutti i Cechi e anche gli Slovacchi erano parte integrante della Großdeutschland. Nessuno alzò un dito per l'” Anschluss”, l’annessione dell'Austria al Terzo Reich, nel ‘38. Più tedeschi dei sudditi di “Cecco-Beppe”! Tutti avevano taciuto, quando assassinarono Dolfuss – per ordine di Hitler, come disse mio padre – il cancelliere austriaco di bassa statura che veniva al mare a Riccione ospite di Benito Mussolini. Noi ogni estate eravamo a Bellaria, Rimini, Cattolica … La “Conferenza” e l’accordo plurilaterale di Monaco (1938) tra Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini era stato come mandare la palla in tribuna e dare tempo a Hitler di completare il riarmo. Nel ‘39, tornò l’annosa faccenda del “corridoio di Danzica” per il ricongiungimento delle Prussie e il diritto di accesso al mare della Germania. Stettino poi, la città baltica di Sczczecin, in Polonia, era tedesca senza discutere. Il Führer, un tignoso glaciale, che urlava solo nei discorsi, aveva una fretta indiavolata e non era solo. Molti furono gli allievi di Mussolini, e ancor più gli alleati e i complici, del periodo in cui proliferarono i “fascismi”. “El Caudillo” spagnolo, Francisco Franco, per citare un esempio clamoroso. Un mio cugino ci era andato a combattere, una opportunità di guadagno. Il generale francese Philippe Pétain si era prestato a riscrivere con la Germania hitleriana la resa senza condizioni di Compiègne a parti invertite, nello stesso vagone ferroviario – trasportato appositamente dal museo – nei boschi della Normandia.
Lo spirito del tempo, già avvelenato da notizie unilaterali e tendenziose, come la minaccia dei “bolscevichi-senza-dio” che fucilavano i preti (ortodossi), requisivano le loro proprietà e chiudevano le loro scuole, lo aiutarono non poco (Hitler e il suo nazismo) come (presunto) “male minore”. Si dovette passare un agosto al cardiopalma, con le cancellerie europee in fermento prima di arrivare al tragico 1 settembre 1939. Alle 4 del mattino, una corazzata tedesca ancorata nel porto di Danzica prese a cannonate una fortezza polacca alla foce della Vistola. Era il segnale dell’invasione della Polonia con la micidiale “guerra lampo”, la «Blitzkrieg», studiata da tempo. Solo il 2 settembre, Regno Unito e Francia avvertirono formalmente la Germania nazista di non andare oltre! L’ultimatum era comune. Hitler, non chiedeva di meglio per applicare a suo modo la strofa dell’inno “Deutschland über alles”. Io c’ero, compivo otto anni, ma ricordo nitidamente quella tragica estate. Ero a Roma coi miei. Venivamo spesso da amici padovani in Via Ariosto, vicino al Teatro Brancaccio. La signora Bianca (una modista) e la signora Imelda, moglie di un ex ferroviere, commesso in una ditta di ferramenta e casalinghi. Insieme a loro andavamo a vedere l’Opera a "Caracalla" e prendevamo i treni popolari per il mare di Fiumicino. La canzone di moda era “Oh reginella bellaaa… tu sei la viva stellaa…” [09]. C’era anche lo Zio Peppino, un fratello di mio padre, reduce dalla guerra d'Etiopia, in attesa di occupazione stabile. Ci raccontava cose raccapriccianti della campagna coloniale “Ernesto, non ti dico … un massacro!”, oppure amene “Signor tenente… c’è cassa battaglia marinara” era il fedele “Dubat” che lo informava dell’arrivo dell’acqua minerale. Sapevo che aveva una fidanzata romana e quando trovavo spazio entravo nel contesto narrativo cantando a squarciagola “Lasciatela passare / La bella romanina / Che tutti fà incantare Nel mentre che cammina. / Ti fa provare la scossa / Con gli occhi d'assassina, / La bella romanina / Lasciatela passar” [10].
In terza elementare andavo già a scuola da solo, sapevo la strada, avevo otto anni e dovevo compierne nove. Risalivo Via Masi fino a Via Leandro Alberti, attraversavo la circonvallazione, prendevo via Dante, passavo Santo Stefano dove c’era un negozietto di cartoleria che vendeva anche le “lingue di menelik”. Se avevo 10 centesimi ne compravo un paio. Giravo per Via Borgolocchi, poi via Orfeo – li rivedo ancora – finché arrivavo a via Pascoli ed ero a scuola. Cercavo di arrivare un po’ in anticipo, per trovare il tempo di copiare i risultati degli esercizi di aritmetica da fare a casa, che ci aveva dato il Maestro Morselli. Tutto andò liscio finché non fui chiamato alla lavagna. Successe un putiferio! Venne mia madre e affiorò in tutta la sua palese evidenza che non solo non sapevo fare le quattro operazioni e la prova del nove era un oggetto misterioso, ma ignoravo perfino le tabelline e, cosa ancor più incredibile, ero riuscito a nascondere l’imbroglio e la mia carenza fino a quel momento. L’unica persona gentile che ricordo è la bidella Maria. Una persona buona e abbondante. Avete presente la striscia della “Tordella” di “Bibì, Bibò e Capitan Cocoricò”? [11] Bene, entrò in classe, mi prese tra le braccia e disse forte «Dopotutto, cosa ha fatto di male questo povero bimbo?». A parte l’infortunio scolastico, ero soddisfatto della mia autonomia, non mi mancava nulla. Ero arrivato al punto di invidiare gli orfanelli con la mantellina nera che venivano dal brefotrofio. Erano i primi ad andare a mangiare quando suonava la campanella della “mezza”. Scendevano ordinatamente al “Refettorio” con la graticciata che dava sul marciapiede di Via Pascoli. Da lì provenivano incredibili effluvi di pasta e fagioli con la cotenna di maiale (ancorché autarchici) che si spandevano per tutta la scuola e oltre. Al solo pensarci, li sento ancora nelle narici, come fosse ieri. Memoria rinencefalica. Un languorino, anzi, fame vera, mentre io dovevo ancora riprendere la strada di casa. Quell’anno fui rimandato in aritmetica, cosa inconsueta alle elementari. Ma tutto allora era esagerato, sopra le righe, fuori misura. Un ossimoro di avanguardia e arretratezza, allo stesso tempo. Sarebbe diventata confusione e mattanza, a breve, perché, come ho già detto, Hitler aveva fretta di giocarsi tutte le “fiches” su una sorta di “roulette” adleriana, dove fare l’ ”en plein“ significava impadronirsi del mondo.
Il cosiddetto “sabato fascista”, era “sacro” oltre che obbligatorio. Tutti dovevano mettersi in divisa. Ai “Balilla” e “Figli della Lupa”, era comandato di portare anche lo zaino col moschetto finto. Tutto era finto, fra la gente in uniforme che si preparava alle grandi parate. Conoscevo un artigiano in Via de' Coltelli che fabbricava pistole di legno per fondine da cinturone fascista. Il miraggio di tutti i ragazzini era esibirsi nelle esercitazioni ginniche allo “Stadio del Littoriale” con la maestosa “Torre di Maratona”, il “Partenone” fascista. A me non mi chiamarono mai su quel magico manto erboso. Ma conoscevo chi c’era stato e aveva visto da vicino quelli del “salto nel cerchio di fuoco”. Francamente ero indispettito e mi domandavo: perché lui si io no? Eppure ero lontanissimo dalla guerra. Non ho mai posseduto un soldatino di piombo e, quando venne il tempo mio della leva obbligatoria, mi scartarono per ridotte attitudini militari (“RAM”). In casa mia non c’è mai stata un’arma, perché quando è presente, “qualcuno finisce per usarla”, diceva mio padre, e mia madre doveva chiudere a chiave la sciabola dell’alta uniforme da capitano nell’armoir della camera da letto. La cosa più complicata, di quei sabati fascisti bolognesi era “fare la mantellina” sdraiati per terra, a panciasotto, nella sala grande. Un pezzo di stoffa ruvida, tessuto orbace, lana di pecora sarda, tinta di nero, un po’ più grande della metà di un cocomero gigante. Bisognava arrotolarla con cura, molto strettamente, fino a farne un salsicciotto da mettere intorno al perimetro esterno dello zaino, salvo il fondo. L’operazione non era facile e poteva prendere anche mezz’ora. Mia madre, al sabato s’indispettiva fin dall’alba. Ce n’era per tutti.
– «Fate presto con le divise!» –
– «Sbrigatevi! Devo riordinare per la Sara, che poi viene a dare la cera».
– «Guarda che lo diciamo al capo-manipolo …»
– «Ma ditelo a chi a chi vi pare, anche al Duce … »
la Sara era la figlia della Margherita, la lavandaia del lunedì, perché di noi si occupava la “tata”, una ragazza “fissa” di Canal del Brenta che andava a scegliere mia madre per determinati periodi, a “tutto-servizio”. Via Ernesto Masi, in basso, attraversando Via Mazzini, diventava Via Pelagio Pelagi. Ci andavo a trovare le due figlie della Margherita – la Sara e la Mara – che alla festa andavano a ballare. Una volta mi ci portarono … mi fecero anche provare.
I due “regimi” neri dell’epoca, compresero immediatamente che la propaganda era strategica e indispensabile. Chi ne avesse occupato la cabina di regia, avrebbe fatto scopa! Mussolini fu tra i primi ad inventare l’Ufficio Stampa della presidenza del Consiglio (1922) e lo diresse personalmente, poi passò la mano. Si giunse al Ministero della cultura popolare (MINCULPOP) affidato al genero Galeazzo Ciano che s’impadronì di tutto: radio, cinema, teatro, stampa, editoria, scuola ricreazione, educazione fisica, tempo libero, ecc. Hitler, aveva messo Joseph Goebbels – “il diavolo zoppo” – a capo del Ministero del Reich per l'istruzione pubblica e la propaganda della Germania nazista (Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda). Queste le premesse del viaggio di Hitler in Italia, che restituiva la visita dell’anno precedente (1937) a Monaco di Baviera. Sette giorni di feste e tripudi senza precedenti, furono organizzati al passaggio del convoglio ferroviario sul quale viaggiava il Fuhrer entrato trionfalmente dal Brennero il 3 maggio 1938. Inquadrato instancabilmente in pedi, dall’Istituto Luce, slanciava la mano tesa in avanti come un’erezione improvvisa e fletteva pigramente il braccio in alto come a scacciar le mosche. Il saluto, studiato allo specchio, pareva quello di una marionetta sinistra. A quella lunga celebrazione non fui portato. Non vidi, né seppi nulla. Eppure ero “figlio della lupa”, andavo a scuola e avevo un cugino – “Bepi del Brennero” per parte di madre – che lì ci faceva il Capostazione. Da lui fui ospite diverse volte e anche per lunghi periodi. Quella volta, invece, nulla. Una folla della più varia umanità era stata organizzata per accorrere, con gagliardetti vessilli, bandiere, fasci e croci uncinate, al passaggio del treno, col “vagoncino” speciale per le autorità di Stato. Malgrado tutta questa sceneggiata, mio padre, che a Bologna dirigeva la segreteria del Compartimento dell’importante nodo ferroviario, non fiatò. O forse decise con mia madre di tenere alla larga i tre figli maschi. Non seppi mai niente di questa visita, nè della precedente. Spezzoni di quel documentario, li ho visti solo recentemente nelle rievocazioni storiche.
Venne la guerra alla Francia e all’Inghilterra. Una decisione sciagurata, alla quale nessun italiano seppe opporsi, pur essendo tutti consapevoli di avere una cronica penuria di “materie prime”, di essere disorganizzati, senza alcuna preparazione, nè tecnica, nè psicologica e neppur la minima voglia di andare alla guerra. Per giunta non ne avremmo tratto alcun tornaconto e, perdere tutto per fare semplicemente da spalla a Hitler, anche malvolentieri, era da grulli! Ma perché? Quella mattina del 10 giugno 1940, nel salotto della Signora Sibini, eravamo tutti raggelati e preoccupati: «Combattenti di terra, di mare e dell'aria. Camicie nere della rivoluzione […] Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente …». Era un Mussolini privo di carisma, all’inizio del declino. Aveva esaurito tutto ciò che entusiasmava e che aveva da dare al dittatore austriaco. Ora ne era a rimorchio. Ripensandoci ora, appaiono evidenti alcuni aspetti della personalità di Hitler. La sua fretta di fare la guerra, la sua ostinata determinazione a cercare ogni pretesto per scatenarla, la sua dottrina della “guerra lampo”, geniale e allo stesso tempo diabolica nella sua malvagità necrofila. Un perverso pifferaio magico con un vorace desiderio di incorporare materia-potere-comando, attuato mediante quel suo singolare passaggio all’atto, assurto alla storia come «Blítzkrieg». Mossa che colse tutti di sorpresa, trascinandosi dietro il mondo intero nell’annientamento totale. La «soluzione finale» per tutti, anche per sé stesso. Quel forsennato istinto di morte (Todestrieb). Quella di Hitler – e lo andava ripetendo sfacciatamente – era semplicemente una “scommessa”. Nessuno in Europa lo avrebbe contrastato, in primo luogo perchè avevano paura di lui, eppoi erano tutti memori del conflitto precedente, la Grande Guerra. Una tragica partita di dadi, quella del “caporale”. Ma non era il “Trionfo della morte”, il romanzo dannunziano del nostro “vate”, grande malato di narcisismo decadentista. No! Era la seconda guerra mondiale, appena vent’anni dopo. Più cattiva della precedente, avremmo scoperto subito, perché basata sul tema frusto della “revanche”, stavolta alla tedesca.
Il ’43, ’44 e ‘45, furono tre anni micidiali. Praticamente successe di tutto, non solo a Bologna ma nel mondo intero. Ricordo che una notte di metà luglio del ‘43 fummo svegliati dalle sirene. Tutti a scrutare in cielo e poi giù per le scale al rifugio antiaereo. Io non intesi alcuna esplosione, ma sentivo dire che erano i “Lancaster”, bombardieri inglesi provenienti dall’Algeria, partiti però dall’Inghilterra. Chiacchiere da “rifugio”. Una buona parte di vita di relazione si svolgeva nei rifugi antiaerei I soliti bene informati dicevano che potevamo stare (relativamente) tranquilli perché per colpirci dovevano fare un lungo giro intorno all’Europa, anche alla Francia, che si era arresa senza colpo ferire. I furbi Tedeschi erano scivolati intorno alla linea Maginot come una carambola di biliardo. Eppoi “i cugini” (che noi avevamo assalito alla schiena) si erano consegnati a un generale “collaborazionista”. La prima volta che ascoltai questa parola mi guardai dal ripeterla, ritenendola una offesa gravissima, una parolaccia. I bombardamenti su Bologna si intensificarono dalla primavera del ‘43. Erano quotidiani e cruenti, specie quelli ”a tappeto” per terrorizzare la popolazione. Gli alleati mostrarono di aver fatto tesoro della lezione tedesca di “Guernica” dipinta da Picasso. Dal canto mio – educando l’udito – ero riuscito a percepire il ronzio del motorino di avvio della sirena. Mi precipitavo sulla tromba delle scale avvertendo tutti di correre al rifugio perchè sarebbe suonato l’allarme. Mi ero guadagnato la considerazione immeritata di “ragazzino medium”. Era facile eludere la vigilanza di mia madre che aveva altro da fare. Giravo per le macerie ancora fumanti per vedere se potevo rendermi utile, ma dovevo stare attento a non farmi beccare da quelli dell’U.N.P.A. (Unione Nazionale per la Protezione Antiaerea), perché era proibito e pericoloso. La cosa che mi impressionava di più, era vedere gli interni delle case sventrate, senza pavimenti, ma con ancora le maioliche della cucina, la sponda di un letto, un termosifone sporgente, un quadro … la vita che c’era fino a poco prima. Avevo imparato che la postazione più sicura per guardare i bombardieri alleati che scaricavano su Bologna, era salire al Colle dell’Osservanza. Da li si potevano distinguere le formazioni dei quadrimotori – le smisurate fortezze volanti – e i caccia di scorta che parevano moscerini. Non ero solo. Piccoli capannelli di persone commentavano manovre strategie e tipo di aeromobili. Vecchietti, potevano essere pensionati che avevano scelto quel tipo d’informazione diretta.
Mio padre decise che saremmo stati più sicuri se fossimo sfollati. Fu così che salimmo a piedi – perché le corriere non facevano servizio – per la Bazzanese, da Casalecchio di Reno a Zola Predosa poi a Ponte Ronca e da lì, seguendo la via di San Martino, fin su a San Martino in Casola, comune di Monte San Pietro, sempre nel territorio della città metropolitana di Bologna. La direzione era quella di Vignola, patria delle ciliegie, e di Modena rivale petroniana per la “secchia rapita”. Eravamo isolati e ben nascosti, a meno di 40 chilometri dalla “Dotta”. La tragedia continuava, però, nel resto del mondo. Avevamo saputo che gli Alleati erano sbarcati in Sicilia in quell’estate del ’43, così si allontanò sempre di più la possibilità di andare a Palermo dai nonni. Ignoravamo, invece, di avviarci precipitosamente verso la guerra civile, peggio dei Guelfi e Ghibellini, anche se tutti eravamo consapevoli della fine. A nostra insaputa, il generale Castellano a Cassibile, nel siracusano, il 3 settembre, firmò per conto del re e Badoglio un accordo segreto con Eisenower da rivelarsi 5 giorni dopo. Il Regno d’Italia cessava, le ostilità verso gli Alleate senza condizioni,. Una sequenza impressionante di colpi di scena velocissimi si avvicenda sul palcoscenico della tragedia del ‘43. Dalle ore 17:15 di sabato 24 luglio, convocazione del Gran Consiglio del Fascismo per discutere l'o.d.g. Dino Grandi sulla destituzione di Mussolini. Superata la mezzanotte, la votazione che metteva in minoranza il “Duce”, si svolse alle 2:30 del mattino del giorno successivo, domenica 25 luglio 1943. Mussolini, tornò nella sua residenza di Villa Torlonia, dove trovò la convocazione di Vittorio Emanuele III a Villa Ada per le ore 17:00. Fu arrestato – dopo essere stato informato che il comando supremo era stato trasferito da lui a Badoglio – per ordine del re dai Carabinieri alle ore 17:20 e condotto in ambulanza a Campo Imperatore. In sessantacinque minuti era girata la storia e le gravissime responsabilità di un’intera classe dirigente che aveva governato con competenze e scelte del tutto inconferenti a quel ruolo, per oltre vent’anni, crimini a parte. Non era ancora finita, perché il re non trovò di meglio che abbandonare la scena di soppiatto, mentre noi ce ne stavamo sfollati e tremebondi, a San Martino in Casola, ma sicuri e al riparo dalle grandi operazioni belliche. Almeno così credeva mio padre
Il re, la regina Elena e il principe ereditario col governo post-mussoliniano, bruciarono tutti sul tempo. Ah! Già! Erano loro cha impugnavano la “pistola dello starter” per il segnale di “tutti a casa!”. Me l’hanno raccontato, perchè io ero sfollato tra i calanchi bolognesi. All’alba del 9 settembre i cosiddetti “Reali” italiani, avevano abbandonato precipitosamente il Quirinale senza lasciare disposizione di sorta. Erano scappati a Ortona, vicino Pescara, per la Via “Tiburtina”. Pare che la lunga teoria di macchine contenesse, oltre ai reali e naturalmente Badoglio, Valenzano, d'Acquarone, il generale Puntoni, la contessa Jaccarino (dama di compagnia della regina Elena), anche 50 alti dignitari della real casa mischiati a generali. Più di 270 chilometri senza incontrare un tedesco, ma tu pensa! L’aspettava il “Baionetta” una corvetta antisommergibile della marina militare, nuova di zecca, appena arrivata da Pola. Sembra che il comandante tenente di vascello Pietro Pedemonte attendesse la regina con un uovo fresco da bere, come pare fosse nelle sue abitudini regali. Così almeno pensavano i sudditi più poveri degli anni ’40. Paese lacerato e allo sbando: l’otto settembre, per l’appunto! Capi improvvisati, che si erano sempre fatti la fronda dietro il re e Mussolini, comandano fazioni per conto terzi col pretesto di salvare l’Italia. Io conoscevo Graziani e Badoglio, perché uno dei giochi dei ragazzini dell’età mia, era quello di scegliersi per copricapo la “padella alla Graziani” o la “bustina alla Badoglio”. Mia madre detestava il primo perché diceva che aveva lanciato i gas agli Abissini e mi nascondeva la “bustina” perché giurava di sapere per certo che a Caporetto, Badoglio, dormiva! L’8 settembre 1943 fu un disastro. Una baraonda gigante come, se non peggio, di quando si dice: “Successe un quarantotto!”. C’è un film di Luigi Comencini, con Alberto Sordi, Serge Reggiani e Eduardo De Filippo, che rende bene l’idea dello sfascio totale, meglio di qualunque libro: “Tutti a Casa” (1960). Ad un certo punto c’è una scena con una frase che illumina la svolta radicale di una guerra inutile. Il sottotenente del Regio Esercito italiano Alberto Innocenzi (Alberto Sordi) – che ha chiamato il comando per segnalare il fuoco amico – esclama sconvolto: «Signor colonnello succede una cosa incredibile i tedeschi si sono alleati con gli americani!».
Il 9 ottobre del ‘44 venne a prenderci mio padre, un lunedì. Era molto preoccupato, mia madre afferrò tutto al volo, io nulla. Forse avevano assassinato il prete della Canonica e portato via un certo Luciano che stava in carrozzella e ogni tanto lo vedevo parlare con altri che venivano a trovarlo. Partimmo il giorno dopo, la mattina presto e fu un rientro drammatico. Mio padre per i campi con Aldo, nascondendosi e tirandosi dietro le biciclette. Saltarono fossi, canali, staccionate. Dovettero buttare i vestiti. Mia madre con me ben saldo nella mano destra e Lucio in quella sinistra. camminavamo al centro della Bazzanese tra due file di SS schierati ai lati della strada ogni due paracarri. Panciasotto dietro “la Maschinengewehr 42”, la nuovissima mitragliatrice della Mauser sul treppiede carica e puntata. Cercavano partigiani. Sbirciavo con la coda dell’occhio per stare all’erta, ma non avevo paura. Quello che mi dava fastidio, e mi torna alla mente, era invece, il bagliore sinistro della gorgera d’acciaio appesa sulle uniformi delle SS che lampeggiavano da ambo i lati della strada. Non era il momento migliore per passare da lì, ma non c’era opzione diversa. Quando arrivammo a Casalecchio, mi accorsi che stavano accadendo cose bruttissime e fui partecipe di tutto anche se mia madre mi coprì gli occhi col braccio stringendomi a sé e prendedo mio fratello Lucio in braccio. Forse fu una di quelle giornate passate alla storia come “eccidio del cavalcavia di Casaleccchio di Reno”. Arrivati alla piazza, udii un tedesco con l’elmetto urlare, mentre percuoteva col calcio del fucile la schiena di un disgraziato che manifestava riluttanza a salire sul cassone di “626” militare: «Schnel !!! Io molto arrabbiato !!!». Mi pareva di vedere gente impiccata agli alberi, ma anche legata alle cancellate. Come dio vuole arrivammo a Via Masi. Altro che sicuri e al riparo. Eravamo andati all’inferno. San Martino si trovava tra Monte Capra e Monte San Pietro, alle spalle della Linea Gotica e come ormai tutti sapevamo la vendetta nazista non si discostava dal solito ricatto «per ogni soldato tedesco dieci italiani», anche se poi – finita la guerra – i successivi processi per crimini nazi-fascisti corressero la forma in una toppa peggio del buco: «per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati».
In via Masi, nel frattempo, erano aumentati gli inquilini. Aveva trovato rifugio il signor Germano, fratello del signor Manzoni, il portinaio. Era sfollato in città dal suo paese, Casaglia, esattamente come noi che avevamo fatto il percorso inverso all’andata, avvertiti da mio padre. Non me ne rendevo conto, ma era il momento delle stragi e delle vendette, nel bel mezzo di una guerra divenuta anche “civile”, quella italiana, venti mesi di orrori dolorosi e sconvolgenti. I nuovi arrivati erano sopravvissuto agli eccidi nazi-fascisti nei paesini attorno al Monte Sole. Sei giorni di efferatezze d’ogni sorta dal 29 settembre al 5 ottobre 1944 (770 morti fra donne vecchi e bambini). Questo signor Germano, di giorno, stava su un sediolo a lato del portoncino della palazzina sul vialetto laterale d’ingresso, come fosse un portinaio, che peraltro non c’era mai stato, perché per quel tipo di costruzione non era prevista la “guardiola”. Lo ricordo rigido, come fosse ingessato. Ogni volta che passavo mi ripeteva automaticamente «Bambeno? Di mo su: Prete di Casagliaaa …» (Bambino, ripeti con me, Parroco di Casaglia!). Veniva da lì, dov’era stato ucciso un prete, in chiesa, coi suoi fedeli. [12]. Aveva una figlia della mia età che si chiamava Loredana. Non parlava di guerra. Mi chiese subito due cose: che classe facevo e se ero fidanzato. Era molto più sveglia di me, eppoi noi eravamo tre maschi e, le classi miste, non c’erano ancora.
In via Mazzini, angolo Via Masi in quello che chiamavano “Palazzo Isola” abitava una elegante signora matura – La Padella – che attirava ragazzotti per farli arruolare nella RSI. Diceva loro come tener alto l’onore dell’Italia infangato dai Savoia, compreso il principe ereditario da lei definito «chello scimunito che se pittava» (Uno sciocco che s’incipriava come un cicisbeo). Ebbi modo di sentirla anch’io per ché girava nel quartiere. Non so di dove originaria, ma il dialetto mi parve meridionale. Lei comunque era pericolosa. I miei dovettero prendere drastici provvedimenti con mio fratello grande, per evitargli la scelta sbagliata. A Montagnana (PD), lo “Zio Nani” – fratello di mia madre – aveva perso il maggiore dei figli, Orazio, di leva in aeronautica a Cefalonia, dato per “disperso” in quella tragedia dell’Egeo, che fu l’eccidio nazista di Cefalonia mai chiarito. Non bastò. Si era già andato a riprendere, con molto coraggio, un altro figlio – Renzo, minorenne – direttamente nella caserma delle “Brigate Nere”, dove si era presentato per arruolarsi, per ben due volte, riportandoselo a casa. Mancò la terza, perché il cugino, fu fatto partire immediatamente per il Canavese. Così perse il figlio, ucciso in montagna dai partigiani. La storia triste di questo cugino Renzo, ricorda vagamente il libro di Giose Rimanelli, da cui Giuliano Montaldo – al suo esordio alla regia – trasse il film “Tiro al piccione” (1961). Ho visto adolescenti ingoffati in divise troppo grandi dalle fogge più disparate (ogni gruppo di ogni città era intitolato a qualcuno di loro) e col mitra ciondoloni, affamati di castagnaccio, prendere d’assalto la rosticceria dei “Corsali” in Via Mazzini. Mi torna in mente un altro, in divisa della “Decima”, che guidava una Zundapp senza un braccio, con la manica vuota infilzata nell’ago da balia sulla tasca, una “KS 750” col ruotino sul sidecar. Il veicolo, era un residuo Wehrmacht dell’Afrikakorps, lui, invece, il figlio del macellaio di Via Mazzini. Ero in fila con mia madre a vedere se potevamo rimediare qualche zampa, quando si affacciarono due figuri per chiedere se sapeva dove fosse. Dall’alto del bancone si udì un vocione rispondere in dialetto. «L’è tant cal zerc anca me … s’al trouv … » (È tanto che lo cerco anch’io … se lo trovo …).
In quell’inverno durissimo del ’44 dove andammo anche a -20 gradi sotto zero, fummo costretti a cambiare pediatra. Seppi anni dopo, che le “Brigate Nere” bolognesi, nel novembre ‘44 trucidarono il prof. Pietro Busacchi, prelevandolo nottetempo da casa e abbandonandone il corpo per la strada. Era stato il nostro pediatra. Fu ancora durante quell’inverno nero del ’44 che da Via Ernesto Masi, ci rifugiammo in centro città al numero 12 di Via Zamboni, in affitto dal dottor Setola, proprio sotto le due Torri. Era corsa voce che avrebbero fatto di Bologna una “città aperta”, come Roma, che gli Alleati non avrebbero bombardato. Poi tutti sanno che le bombe continuarono a cadere. Non stavamo male perché avevamo un sacco di juta, da un quintale, colmo di patate, in più un stia con dentro una gallina, ma la situazione era molto peggiorata. I Tedeschi avevano recintato le mura di circonvallazione con sbarramenti e reticolati – la “Sperrzone”- con la quale effettuavano un controllo meticoloso. Se si entrava non si poteva più uscire. Fuori vigilavano le SS, dentro le Brigate nere. Ripensandoci adesso, trovavo del tutto naturale scortare mio padre, nel senso di precederlo, quando al mattino andava in ufficio al Via Palazzo Pizzardi sede del Compartimento ferroviario delle FFSS, da via Zamboni. Non era affatto per gioco se un bambino di 13 anni accompagnava il padre al lavoro, anzi! Dovevo avvertirlo immediatamente se si fossero verificati dei “rastrellamenti” improvvisi delle “SS” o “delle Brigate nere” o di entrambe strette in un’alleanza scellerata in cui gareggiavano a chi fosse il più spietato.
Il mio ricordo è che dall’8 settembre 1943 fino al 25 aprile 1945 si consumò una guerra – tra le più crudeli – che non fece differenza fra militari e civili. Soldati inquadrati e soldati in fuga che rompevano le righe, gettando le divise dappertutto. Le nascondevano nei cespugli, nelle soffitte, nelle cantine, fienili, luoghi di culto, parrocchie, sacrestie …. Bande di soldati più meno riconoscibili per tali, che riprendevano le armi e divise pur che sia, come brigate nere, “Decima-di-Borghese”, col basco grigio-verde, nero, il cappello da alpino con la penna, senza … collaborazionisti, spioni, delatori, criminali con divise tedesche, che parlavano italiano e infine … partigiani, quelli che combatterono dalla parte giusta. Comparivano e sparivano all’improvviso sotto i quaranta chilometri di portici della mia Bologna. Non avevo paura perché sapevo che lasciavan perdere i bambini dagli della mia età. Ero abituato alle cose più brutte, ma non pensavo neppure che lo fossero, perché non era il tempo della scuola, appunto. Avevo imparato che l’importante era non fissare lo sguardo, dovevi solo intuire e tirare dritto, veloce, senza dare l’idea di scappare. Ero solo e dunque nessuno ti guardava, non davi fastidio, passavi come un’ombra sul muro. Quelli stavano a fare la guerra, mica un gioco. Dovevo solo guardarmi, quando – marinado la scuola – andavo nelle sale cinematografiche del “Comandante Parduccini”. Erano sempre aperte, alla cassa mi conoscevano, avevo il permesso, specie quella dietro “Saragozza”, vicina al “Righi”, il mio primo liceo.
Infine il 25 aprile 1945 venne la “Liberazione” d Bologna. La mia emancipazione dalla guerra, dalla tirannide, anche se non me ne rendevo conto. Invitammo nella casa provvisoria di Via Zamboni due soldati inglesi raccolti in via Rizzoli in un clima di festa. Uno mi chiese se andassi a scuola e per esaminarmi mi domandò se sapessi chi era “Julius Caesar” con una pronuncia da "Stanlio e Ollio". Certamente conosceva Shakespeare, meno il latino. Il 13 settembre avrei finito il 13° anno e iniziato il 14°.
Un ulteriore aiuto a comprendere quanto mi era capitato di vivere tra il ‘33 e il ‘43, dei miei anni bolognesi, tra la retorica e la guerra, mi derivò dall’incontro e dalla frequentazione, di Bruno Callieri nel decennio successivo. Non solo come capo-reparto durante il mio lavoro decennale di “Assistente Volontario” presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali al 30 di Viale dell’Università, allora diretta da Mario Gozzano, ma anche – e soprattutto – per la lunga amicizia che ci ha legato. I luoghi privilegiati erano il suo studio e la sua favolosa biblioteca al 59 di Via Nizza. Fu lì che venni a conoscenza del pensiero e dell’opera di Simon Weil. Fu lui a parlarmene, per l’originalità, la dedizione pratica al lavoro alla fatica. Soprattutto quello coi compagni operai di fabbrica, di con-divisione della medesima esperienza. Voleva provare la sofferenza vera dei soggetti che la esperivano lavorando, essendone sfruttati, buttarsi nella mischia. Solo allora, tutto quello che avevi visto, provato e sentito, poteva divenire oggetto di riflessione teorica e progetti futuri. Ipotesi con cognizione di causa e, a ragion veduta. Per molti aspetti, la lezione di Simon Weil, poteva tornare utile a noi psichiatri delle istituzioni manicomiali. Per lavorare coi pazienti in senso psicoterapeutico. Per tracciare il nostro cammino di psicopatologia antropofenomenologica. Per aprir loro la strada verso una condizione dignitosa. Bruno Callieri aveva letto in lingua originale gli scritti di questo spirito irrequieto, incarnato in un bios fragile, precocemente rosicchiato dalla tubercolosi cavitara.
Note
01. Alessandro Barbero. Cause e dinamiche dello scoppio della 2° Guerra Mondiale. “Festival della Mente", Sarzana, 6 ottobre 2014.
02. Si veda in “Cuore di tenebra” rubrica telematica di Gilberto Di Petta, su POL.it Psychiatry on line Italia, un suo articolo intitolato “Vernichtungsplan (soluzione finale) – Sulla strage di Ardea” del 18 giugno, 2021.
03. Il Patto tra Italia, Germania e Giappone (conosciuto anche con il nomignolo di “Ro.ber.to”, dalle prime lettere delle capitali dei tre Paesi), firmato il 27 settembre 1940.
04. Si veda POL. it, cit. “Presenza senza riscatto” La follia è davvero fuori dalla “Storia”? Sui percorsi di Ernesto de Martino ottantanni dopo, di Sergio Mellina del 27 agosto, 2020.
05. Cfr. Mellina Sergio. Biografie dei marginali. In: Riosa Alceo (curatore) “Biografia e Storiografia”. De Felice / De Rosa / Diaz / Lo Cascio / Levillain / Mellina / Nello / Riosa / Romano / Romeo / Vigezzi” Fondazione G. Brodolini. Franco Angeli, Storia, Milano, 1983.
06. O.N.M.I. Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ente assistenziale italiano fondato nel 1925 allo scopo di proteggere e tutelare madri e bambini in difficoltà, sciolta nel 1975. Una retorica insopportabile, ma per la prima volta realizzata nella storia italiana. Paragonata alla denatalità odierna, sgomenta.
07. Oreste Vancini (1879-1944) persona di cultura, ferrarese di Cento, fu consigliere e per sei anni assessore socialista nell’Amministrazione comunale Zanardi a Bologna. Fucilato dai fascisti il 9 agosto 1944 per rappresaglia all’attentato alla casa del fascio di Argelato.
08. Avevo già in mente il “Teatro dell’Arte” che girava l’Italia nel XVI secolo, provvisto solo di canovacci e figure di riferimento. Lo Zanni, il servo furbo che battibeccava col vecchio padrone tirchio e libidinoso, la prima amorosa, la cameriera compiacente e il primo amoroso. Inizialmente i “Signori Comici” erano tutti uomini, poi (25 febbraio 1545, testimonianze notarili padovane) otto uomini e due donne.
09. “Reginella Campagnola”, canzone popolare di Massimo Di Lazzaro, cantautore degli anni milanesi ‘30-‘50.
10. “La Romanina” testo e musica di Giuseppe Micheli frusinate di Ripi (1888-1972)
11. In Italia “Hans e Fritz”, pubblicati dal “Corriere dei Piccoli”, arrivarono nel 1912 come “Bibì e Bibò, il Capitan Cocoricò, la Tordella e l’Ispettore”.
12. Cfr. Luca Baldissara e Paolo Pezzino. Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Bologna, il Mulino, 2009, p. 156 e infra.
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