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IL SOMMO POETA E L’ALIENISTA: Dante nella lettura di Enrico Morselli

12 Set 21

A cura di Paolo F. Peloso

Cade in questi giorni il VII centenario dalla morte di Dante Alighieri, che si spense a Ravenna il 14 settembre 1321, e mi piace dedicare qualche pensiero sulla rubrica a questo evento. Lo farò col rileggere ciò che diceva di lui nel 1916 Enrico Morselli (1852-1929), uno dei massimi esponenti – come è noto – della psichiatria italiana a cavallo tra ‘800 e ‘900, del quale mi sono recentemente occupato in una conversazione online con Chiara Bombardieri (vai al link).  Modenese,  Morselli si è formato alla psichiatria con Carlo Livi a Reggio Emilia per poi divenire giovanissimo direttore del manicomio di Santa Croce a Macerata, direttore del manicomio di Torino e docente di psichiatria in quella città, e infine professore di psichiatria a Genova dal 1889 alla morte.
E proprio durante gli anni genovesi, tenne il 13 gennaio 1916 nel Palazzo Mediceo di Firenze una “Lectura Dantis” dal titolo Delitti e delinquenti sessuali nella “Divina commedia”. Il canto XVIII dell’”Inferno”, pubblicata lo stesso anno dai F.lli Bocca di Torino.
Il momento storico è particolare, in piena Grande Guerra. E se da un lato certo imbarazza Morselli il fatto che Dante avesse riposto le sue speranze politiche nel “sire tedesco” – cioè in Arrigo VI di Lussemburgo con la cui discesa in Italia coincide per alcuni critici la stesura del trattato politico De monarchia – dall’altro ritornare allo studio di Dante ha per lui un significato patriottico, perché in quel momento “significa per noi Italiani un ritorno alle purissime fonti del nostro spirito nazionale”. Il sommo poeta è infatti, per l’alienista modenese: «il rappresentante più eccelso della Latinità dell’Evo medio; e con ciò lo contrapponiamo al teutonismo egemonico e ancora semi-barbaro».
Con il che, Dante è arruolato e può fare la sua parte nel possente apparato propagandistico antitedesco, al quale né Morselli né gran parte degli alienisti di quegli anni negarono il loro contributo, come dimostrato un sorprendente florilegio pubblicato da Andrea Scartabellati; e la Germania è servita.
Non bastasse questo del resto, rincarano la dose nel finale di questo saggio dedicato a un poeta del XIII secolo, quando Italia e Germania erano entrambe ben lungi dall’esistere come nazioni unitarie, l’accenno ai danni provocati dal bombardamento tedesco alla cattedrale di Reims nel 1914, citato a riprova ulteriore della barbarie tedesca, o quello alla «scienza tedesca capeggiata dal militarismo Prussiano, quando inventa i gaz asfissianti, le bombe lacrimogene, ed altre consimili produzioni da laboratorio, con palese pervertimento del metodo scientifico». O soprattutto il confronto, che non può non sembrare evidentemente anacronistico e forzato, e chiude il saggio, tra la massima opera letteraria tedesca e quella italiana: «Il poema di Goethe  [Faust] negli episodi più caratteristici è tutto rivolto a simboleggiare un sentimentalismo romantico artificiosamente disposto a sensualismo classicheggiante, mentre il poema Dantesco è tutto diretto a sublimare gli ideali etici della vita e colpisce la sensualità anche quando non cade sotto la sanzione del Codice comune. Non ci vengano, dunque, a dire che la mentalità germanica ha creato l’Idealismo, e che noi Latini siamo incapaci di valorizzare la vita in senso morale!».
Poi, certo, si può osservare che l’eco del fronte riecheggia anche in un altro passaggio dal tono meno fazioso e più umano, nel quale l’oratore, a riprova del fatto che l’uomo, intellettualmente più sviluppato di ogni altro animale, sa essere anche il più feroce, ricorda: «come purtroppo ci dimostra l’immane conflitto odierno, in cui la scienza, questa figlia maggiore dell’intelletto, è stata messa al servigio degli istinti più crudeli». Parole che paiono corrispondere specularmente, sul fronte opposto, a quelle che l’anno precedente aveva scritto Freud nel famoso saggio Caducità, e parrebbero dimostrare che una nostalgia per quando la scienza si sentiva al servizio del progresso umano e non della distruzione, sopravviveva nonostante tutto su entrambi i fronti.
Del poema dantesco Morselli dichiara di apprezzare soprattutto la raffigurazione degli “atteggiamenti dell’animo”, della psicologia cioè dei personaggi rappresentati. E di apprezzare più l’Inferno rispetto alle altre due cantiche, perché in esso minore spazio trova il riferimento teologico e maggiore invece ne trova l’espressione delle passioni che Dante prova come uomo e come cittadino.
Un giudizio, credo, del resto largamente condiviso.
Quanto alla scelta, tra i quasi novecento personaggi che popolano la Commedia, proprio dei quattro protagonisti del Canto XVIII dell’Inferno, nessuno dei quali è tra i più noti, essa nasce dalla considerazione del loro rapporto con la sessualità e dal fatto che essa sia – Morselli scrive – materia di interesse per il medico, e più ancora per l’alienista. E come avremo modo di vedere, è una scelta azzeccata, perché il commento al Canto gli dà l’opportunità di esprimere la sua posizione, e per alcuni aspetti quella della psichiatria italiana dei suoi anni, su questioni allora dibattute inerenti la sessualità ma non solo quella.
Scesi dalla groppa del mostro volante Gerione dunque, Dante e Virgilio si trovano sull’argine più esterno dell’ottavo cerchio, le Malebolge, diviso in dieci avvallamenti concentrici sovrastati da ponticelli che ne consentono l’attraversamento, nel primo dei quali sono puniti i seduttori per conto altrui (ruffiani), e quelli per conto proprio. Divisi in due gruppi, questi dannati avanzano in direzioni opposte sotto la frusta incessante dei diavoli.
Tra i primi, Dante riconosce il bolognese Venedico Caccianemico, reo di avere convinto con la seduzione la sorella a violare il patto matrimoniale. Occuparsi di seduttori, offre però a Morselli l’opportunità di una digressione su un tema che aveva affascinato il grande pubblico negli anni precedenti, e ancora doveva stuzzicare la curiosità del suo pubblico fiorentino, quello della suggestione criminale, cioè dell’idea ampiamente dibattuta tra i cultori della psichiatria e del diritto che attraverso la suggestione o l’ipnosi qualcuno possa essere determinato a un crimine, che per sua volontà non avrebbe commesso.  Ma il nostro clinico sgombra subito il campo con decisione al riguardo,  esprimendo il proprio convincimento che la suggestione non possa mai realmente operare se non incontra nel suggestionato un’analoga volontà, almeno subcosciente. Nessuna responsabilità, dunque, a suo avviso, da parte di Venedico – che infatti non sarebbe incorso in alcun reato secondo la legge italiana di quegli anni come dei nostri, a meno che la sorella non fosse giuridicamente incapace – se non aver incoraggiato una tendenza che in lei già era presente; e, semmai piuttosto, un eccesso di severità nei suoi confronti da parte di Dante, perché – osserva l’oratore certo più capace di cogliere le influenze delle sue passioni politiche su Dante che quella delle sue idee antitedesche su se stesso – di  appartenente al partito guelfo.
Come nella lettura di Morselli irrompe a tratti l’eco delle cannonate della Grande Guerra, insomma, nella scrittura di Dante è  facile svelare quella del conflitto allora in atto tra guelfi e ghibellini.
Ma il movimento incessante dei dannati prosegue e tra i seduttori per conto proprio, che si muovono in direzione opposta ai ruffiani, Virgilio indica al fiorentino Giasone, il capo degli Argonauti reo di avere sedotto e ingannato la giovane Isifile e la maga Medea. Morselli ha modo così di ribadire la sua opinione: nel valutare la seduzione, occorre considerare anche la parte che in essa gioca il/la presunto/a sedotto/a; e a maggior ragione ciò vale nel Novecento rispetto al Duecento, per la maggiore capacità della donna dei suoi tempi rispetto a quella dei tempi di Dante di fare le proprie ragioni. Bene perciò, per Morselli, la depenalizzazione di questo comportamento, del resto già avvenuta nella legislazione italiana al contrario che in altre.
Passati attraverso un ponte al secondo argine, i due poeti giungono alla bolgia degli adulatori, immersi nello sterco, un contrappasso che appare evidente: chi ha coperto di lusinghe gli altri mentendo, è punito finendo egli stesso coperto dalla merda. Tra di essi, Dante riconosce il lucchese Alessio Interminelli, e il tema dell’adulazione gli consente di aprire un’ampia digressione sul tema dell’isteria. E mi pare interessante rilevare che, in anni nei quali infuriava in tutta Europa il dibattito sulla nevrosi bellica, Morselli dicesse a questo proposito che: «Non è propria soltanto del sesso debole: essa si ripete sostanzialmente sia nella donna che crede spesso con consapevolezza, ma sempre per un sordo lavoro del suo subcosciente, di attirarsi la compassione e la solidarietà altrui, sia nel maschio che sentendosi incapace di agire con franca energia, finisce col mentire agli altri e anche talora a sé medesimo, come ce ne porge esempio l’operaio infortunato sul lavoro, o il viaggiatore scosso da qualche incidente ferroviario». Una posizione di sospetto a tutto vantaggio dei proprietari delle fabbriche e delle ferrovie (e, ormai, anche del regio esercito) che, del resto, Morselli aveva già espresso tre anni prima nella monografia intitolata Le nevrosi traumatiche.
E insomma: «In fondo a tutto ciò si trova la bugia, ora cosciente e volontaria, ora subcosciente e involontaria». E certo colpisce anche come, in anni nei quali l’esigenza di discriminare isteria (inconscia) e simulazione (consapevole) dominava la discussione della psichiatria militare, che aveva tra i protagonisti italiani anche suo figlio Arturo, Morselli potesse – sia pure in una conferenza a carattere evidentemente divulgativo – accostare con tanta disinvoltura due fenomeni che hanno differenze così rilevanti anche se spesso difficili da indagare.
Non tanto diverso dal caso dell’isterico-simulatore, così descritto, è poi per lui quello  dell’adulatore, qui impersonato da Interminelli, il quale «sarebbe un debole, un incapace di iniziative, un bugiardo che si profonde in gesti parole ed atti di servitù verso gli individui superiori e di lui più adatti [segni evidenti queste espressioni del darwinismo sociale di Herbert Spencer al quale aderiva Morselli] mentendo sentimenti di ammirazione che non prova».
Poco oltre, è di nuovo Virgilio a mostrare a Dante un’altra figura di adulatrice nella prostituta Taide, personaggio della commedia latina, nella quale – per Morselli – Dante avrebbe inteso punire più la fraudolenza, la seduttività cioè, che non la lussuria, verso la quale mostrò in altre occasioni comprensione. E a questo proposito mi pare emergere con tutta evidenza la perenne ambiguità del nostro alienista verso l’insegnamento di Cesare Lombroso (1835-1909) – del quale il geniale poeta, e suo paziente a Macerata, Giovanni Antonelli (1848-1918) gli rimproverava non a torto di seguire le “pedate”, cioè le orme – quando leggiamo che: «Delinquenti e donne perdute hanno molte affinità somatiche e psichiche, lo hanno provato [ma sulle “prove” di Lombroso ci sarebbe in questo come tanti altri casi molto da dire!] Lombroso e Ferrero; e nella vita sociale gli uni e le altre appartengono a quelle che furono chiamate le classi pericolose degli aggregati civili». Ma subito dopo, corregge il tiro scrivendo: «Questa dottrina della Scuola antropologica, secondo me, ha punti veri, ma è esagerata»; finendo così per non prendere una posizione definita.
Ambiguità e contraddizioni che, del resto, ritornano quando – dopo che per tutto questo scritto Morselli ha lodato in Dante la capacità di punire nel delitto soprattutto la frode, cioè la componente intenzionale – ancora a proposito del collega veronese sorprendentemente scrive, mentre esprime la propria condanna per la penalità vendicativa e violenta degli incivili tempi antichi: «bisognava che la mentalità Latina, sempre equa ed umana, dimostrasse con Cesare Lombroso che il delitto è assai spesso il prodotto di una malattia o di una predisposizione congenita, indipendente dal volere individuale».
Certo, Morselli è consapevole del fatto che questo non è il solo canto del poema ad avere a che fare con il sesso; e nota che lo si ritrova anche nel Canto V ancora dell’Inferno, e nel XXV e XXVI del Purgatorio (si potrebbe aggiungere il XXX Canto dell’Inferno, dove tra i falsi è punita l’incestuosa Mirra). Mentre in questi casi (eccetto Mirra), però, l’atteggiamento di Dante verso i peccatori di lussuria è indulgente, nel nostro Canto invece lo troviamo inorridito e spietato nell’immaginare la punizione, perché il peccato di natura sessuale – Morselli osserva riprendendo un’osservazione comune, a partire dal critico Francesco De Sanctis (1817-1883) – lo turba sommamente quando è caratterizzato dalla frode, quando cioè da peccato della passione si trasforma in peccato del calcolo.
E Morselli può così chiosare: «In Dante noi vediamo una geniale preveggenza del concetto psicologico che domina nella Criminologia positiva, la quale, discendendo alle analisi delle ragioni profonde del delitto, considera sempre più gravi la colpevolezza e la temibilità del delinquente intellettuale che non di quello istintivo. Nelle Malebolge, Dante punisce per l’appunto i peccati ragionati, quelli che noi diremmo i più intenzionali».
E allora non stupisce che il Canto XVIII, nel quale sono puniti peccati nei quali il fattore istintivo, punito nelle bolge superiori, non ha ancora ceduto del tutto il passo a quello fraudolento, punito nelle bolge sottostanti, segni in certo modo il passaggio dall’alto al basso inferno.
Una posizione insomma, quella dantesca, che da un lato Morselli riporta ad Aristotele, per il quale già i delitti si distinguevano in istintivi, razionali e “bestiali”, una categoria riservata ai delitti “contro natura” cioè contro la vita degli altri, la propria, o contro il principio di conservazione della specie.
Dall’altro lato, tenta di interpretare in base a una propria concezione della mente che prevede la distinzione tra un “io primitivo” egoista e, scrive Morselli, “autistico” – il che non può non fare pensare a modelli della mente più recenti derivati dalla psicoanalisi – che mira al solo appagamento individuale; e altri “io” più evoluti, quale quello “normale” che si sforza di rendere compatibili interesse individuale e collettivo; o quello “altruistico”, che tiene addirittura maggior conto dei secondi rispetto ai primi.
E, dall’altro lato ancora, lo spinge a individuare, come si è visto, in Dante un precursore, con cuore di poeta, della Scuola criminologica positiva italiana, della quale evidentemente lui mostra di sentirsi un esponente, portata a considerare meno grave e pericoloso il delitto, se passionale.
Si spiega così perché la prostituta adulatrice Taide, lussuriosa per frode e non perché spinta da passione, abbia una rappresentazione nell’Inferno  così tanto più volgare e miserabile rispetto a quella poetica, nel Canto V, dell’adultera Francesca – l’una a bagno nell’elemento più corrotto, la merda; l’altra in volo in quello più puro, l’aria – che è caduta nel peccato, che potrebbe essere considerato in sé più grave, di avere rotto il sacramento del matrimonio e nella condotta che si presterebbe a essere considerata in sé più riprovevole di avere mentito al proprio sposo, anziché a sconosciuti ai quali non era legata da vincoli di fiducia se non quelli generici tra le persone. Francesca piace però a Dante, che le dedica versi tra i più belli della letteratura mondiale e la immagina volare come le colombe, o come gli angeli; e infondo piace anche a Morselli, perché spinta al peccato soltanto dall’amore, la passione più nobile che fa sì che tanto il poeta duecentesco che lo psichiatra del XIX secolo guardino qualunque colpa che trova in esso la propria ragione – la frode che era nelle menzogne che senz’altro l’adultera avrà dovuto dire al marito, ricorda p. es. l’oratore – con sguardo indulgente.
Francesca ha usato la frode al servizio dell’amore, Taide l’amore (altrui) al servizi della frode, e forse è questa inversione di valori che il poeta immagina più duramente punita. Poi, certo, anche  la commozione ancora fresca, quando scrive, della tragedia di Gradara deve aver condizionato le sue scelte.
Resta comunque il fatto che quando il sentimento dell’amore entra in conflitto con il sacramento del matrimonio, c’è una parte dell’animo di Dante, che Morselli aiuta a cogliere, che sembra inclinare per le ragioni dell’amore; e questa per il poeta cattolico per eccellenza, così aspro fustigatore dei cattivi costumi, è una bella contraddizione davvero!
In essa, però, il conferenziere individua uno dei segni della modernità di sentimenti di Dante rispetto agli anni nei quali visse, quando l’adulterio era uno dei delitti più duramente puniti (non scordiamo che lo è ancora in alcuni Paesi islamici), mentre ormai – ai tempi del clinico modenese – era sì punito dalla legge in Italia, ma con pena mite che andava da tre a trenta mesi di detenzione, e già si poteva immaginare che in futuro avrebbe cessato del tutto di esserlo. Che avrebbe cioè finito per essere colto come qualcosa di inerente la vita privata delle persone e non la società, nonostante certo di una crisi generalizzata della famiglia una società non possa non risentire (sul periodo di crisi dell’istituto famigliare che seguì la Rivoluzione d’Ottobre, e anticipa per molti aspetti vicende più recenti che hanno attraversato la società occidentale, vai al link).
Mi pare, insomma, che riprendere in occasione di questa data importante per la nostra letteratura il saggio di Morselli sul Canto XVIII dell’Inferno, nel quale il sommo poeta tocca temi che accompagnano da sempre l’esperienza dell’uomo, ci abbia permesso di approfondire la sensibilità, le emozioni e le idee di entrambi, il poeta e l’alienista separati tra loro da sei secoli di storia.
Ma parlare dell’Inferno, e quindi delle colpe per le quali i peccatori sono in modo così materiale e immaginifico puniti nella vita ultraterrena da Dante, consente a Morselli – uomo dagli interessi poliedrici convinto che nulla di ciò che è umano dovesse sottrarsi al giudizio dell’alienista in quanto esperto della mente dell’uomo, e quindi anche della sua organizzazione sociale – di esprimere anche altre valutazioni di interesse criminologico e politico più generale.
Di manifestare per esempio il proprio orrore per le pene corporali dei tempi antichi, e pronunciarsi in due occasioni nettamente contro la pena di morte e in favore del fatto che nella civile Italia essa fosse stata abolita fin dal 1889, e in Toscana anche prima; ed è una posizione che aveva avuto nel secolo precedente tra gli esponenti italiani più illustri proprio il suo maestro, Carlo Livi (1823-1877), come già abbiamo avuto modo di vedere in questa rubrica (vai al link).
O di osservare, a proposito della donna, come la sua posizione fosse certo evoluta ai suoi giorni rispetto al medioevo di Dante, ma non ancora abbastanza: «libertà maggiore concessa alla donna, pur non essendo ancora tutta quella che le spetterebbe naturalmente di diritto» (e in Italia, per esempio, la donna non godeva ancora del diritto di voto!).
O ancora, a proposito dell’omosessualità, come essa dovesse essere sì ascritta sul piano psicologico secondo il nostro alienista a “degenerazione” (del resto, nella psichiatria statunitense il dibattito sull’includerla o meno, e in quale forma, nella classificazione dei disturbi mentali, è stato ancora vivace in anni ben più recenti), ma sul piano del diritto non dovesse essere punita, purché non recasse offesa al pudore e alla morale, cioè si manifestasse nella sfera privata (il che, per quei tempi, forse non è poco). E  poi ricorda come ancora nel 1750, in un’epoca certamente più vicina nel tempo a lui e a noi che a Dante, due uomini colti a Parigi in atteggiamento sodomita fossero stati arsi sul rogo.
O infine, a proposito della pornografia, rileva come: «è ancora incerto dove debba terminare la tolleranza della Legge al riguardo delle descrizioni e raffigurazioni dei fatti sessuali».
 
Potrà, forse, apparire limitata la scelta che ho fatto di celebrare la data importante dei sette secoli dalla morte di Dante limitandoci, sulla scia di Morselli, a discutere un solo Canto della Commedia, riletto per di più attraverso la lente deformante di un alienista fortemente condizionato dalle vicende politiche e dalle cultura psichiatrica del suo tempo. E sbagliato il fatto di avere, forse, finito per occuparci più di questo suo critico di un secolo fa, che non del sommo poeta.  Ma mi pare che le parole di Morselli, e forse un po’ nel loro piccolo anche le nostre, contribuiscano a testimoniare – e questo varrebbe certamente per molti altri Canti della Commedia, e per altri scritti danteschi – che le questioni intorno alle quali Dante ci ha lasciato traccia delle sue idee ed emozioni di quel momento lontano, interrogano in ogni tempo gli uomini, e le modalità del loro vivere insieme. A cambiare – tra il Duecento, l’inizio del Novecento e oggi – sono state semmai, in qualche caso, le idee e la sensibilità con le quali affrontiamo socialmente (ma forse meno, intimamente) quelle questioni: il sentimeento dell’amore, per sé e per gli altri, con la possibilità del suo mutare nel tempo e le contraddizioni che può aprire; il conflitto tra passione e ragione; la gioia e il dolore; la colpa e il perdono, credo siano tra le questioni principali.
Credo così che la Commedia fosse ancora ai tempi di Morselli, e sia per noi, un’occasione di incontro espressa in modo immaginifico e a tinte potenti con un numero straordinario di personaggi alcuni esistiti nella storia e altri solo nell’immaginario di qualcuno; ciascuno di essi rappresentato con il tratto saliente, l’evento più emblematico della modalità particolare con la quale ha affrontato l’esperienza comune della vita.
E credo che ciascuno di questi incontri, infondo, abbia il merito di continuare a emozionarci e sia ancora un’occasione per ragionare sulle cose che riguardano noi stessi in quanto persone come sono stati loro, e questo tempo che insieme oggi viviamo. Sette secoli dopo, non è poco.
 
 
Nell’immagine: Gustave Doré (1832-1883), Alessio Interminelli mentre  immerso nello sterco apostrofa Dante nel Canto XVIII dell’Inferno 

Nel video: Vittorio Gassman (1922-2000) presenta e legge il XVIII Canto dell'Inferno

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