INTRODUZIONE a "LA POTENZA DELLE IMMAGINI" DI ANTONELLO CORREALE
1. Dato che una Introduzione ha il compito di “introdurre” il lettore a un testo, comincio con una domanda: di che cosa parla questo libro? Parla di “psicosi”. Là dove per “psicosi” mi sembra si debba intendere essenzialmente psicosi schizofrenica. Parla di psicopatologia borderline della personalità. Parla del lavoro terapeutico di gruppo nelle istituzioni psichiatriche. Ma parla anche di molte altre cose: parla di psicosi e religione, del senso di vuoto nell’esperienza mistica e nell’esperienza psicotica, del rapporto tra “sperdimento” e crisi della presenza, del ruolo della interpretazione psicoanalitica nel lavoro con i pazienti gravi e molte altre cose ancora. Tutti temi che emergono con forza nel lavoro clinico a cui Antonello Correale continuamente si richiama quando – come spesso accade in questo testo – fa parlare i suoi pazienti. Ma parla soprattutto di un modo di intendere la clinica lontano anni luce dalla impostazione assunta negli ultimi decenni dalla psichiatria mainstream. Questa distanza contrassegna tutto il volume e si misura con grande chiarezza in almeno due passaggi.
Il primo riguarda l’atteggiamento che Correale propone di assumere nei confronti del sintomo, sia esso l’“allucinatorio”, l’allucinazione, il delirio (vedremo tra poco la differenza tra “allucinatorio” e allucinazione tradizionalmente intesa). Non si tratta di ridurre al silenzio il sintomo o addirittura di “estirparlo” ma di fare del sintomo, come avrebbe detto Gaetano Benedetti, un punto di articolazione di una “psicopatologia progressiva” che vede nel sintomo la possibilità di un dialogo, di un dispiegamento, di una ricerca di espansione di senso, anche mediante “immagini psicotiche in via di trasformazione verso orizzonti sempre più comunicativi” (Benedetti 1991, p. 120) e quindi rappresentabili.
Il secondo passaggio riguarda un tema specifico: il tema della morte nel Disturbo Post-Traumatico da Stress. Il DSM-5 prescrive che una persona per essere riconosciuta affetta da PTSD debba avere sperimentato, in maniera diretta o indiretta, l’esposizione a morte o minaccia di morte (o anche lesioni gravi o violenza sessuale). Ma che cosa vuol dire fare una esperienza di morte (reale o minacciata)? Gli estensori del DSM-5 non si preoccupano di rispondere a questa domanda. Né se ne curano i clinici che applicano pedissequamente questo protocollo diagnostico. Antonello Correale, in linea con una tradizione di pensiero fenomenologico-dinamica (che in Italia ha assunto anche la forma di una Scuola di Psicoterapia riconosciuta dal Ministero)1, prova a dispiegare questa evenienza sviluppandone una descrizione in prima persona. “Per morte – scrive – intendo una brusca discontinuità del flusso della vita psichica, una modifica profonda, per collasso e contrazione, dei parametri spazio-temporali dell’esperienza, un senso profondo e disperante di essere dominati da qualcosa, di essere passivi e inermi di fronte a forze – interne e esterne – che non lasciano spazio a correzioni o modifiche […] in questa esperienza di morte il tempo si ferma, lo spazio si contrae e il senso di essere agente di se stesso si annulla”L’esperienza di morte così intesa può assumere due forme distinte ma complementari: la forma di un eccitamento spaventoso, come essere violentemente attratti e respinti da qualcosa di terribile e seducente insieme, oppure la forma dell’impotenza, dell’essere sovrastati e dominati da qualcosa di incombente. Queste due polarità così diverse sono più vicine di quanto non sembri poiché – argomenta Correale – “l’eccitamento non è mai estraneo al sentirsi trascinato in balìa di qualcosa” e “la passività non è mai priva di un suo potere oscuro di fascinazione”. Il dato “oggettivo” della “morte” utilizzato come indicatore diagnostico dal DSM-5 resta invece immobile, come una istantanea della vicenda traumatica stessa. Al contrario, il dispiegamento della esperienza di morte, che Correale mette in atto, apre a una molteplicità di senso che rende dicibile, comprensibile e soprattutto rappresentabile l’evento traumatico, compiendo un passaggio evolutivo che dal trauma si muove verso la sua rappresentazione. Questo è il linguaggio di una psicopatologia che non si limita a fotografare i quadri sindromici ma che, immergendosi nei vissuti e nel mondo che li sottende, costruisce i presupposti per una loro evoluzione in senso terapeutico.
Dei tre grandi temi trattati nel volume (psicosi schizofrenica, clinica borderline e lavoro istituzionale) gli ultimi due sono stati oggetto in passato di una serie importante di contributi da parte dell’Autore. Chiunque abbia lavorato nelle istituzioni e si sia posto delle domande su che cosa accade nelle istituzioni nel lavoro con i pazienti gravi non può non avere letto almeno due libri: Fare e pensare in psichiatria (Ambrosi, De Martis, Petrella 1987) e Il campo istituzionale (Correale 1991). Due libri che appartengono ormai ai classici della riflessione psicoanalitica sul lavoro istituzionale. Allo stesso modo, chiunque si sia trovato a lavorare con pazienti dell’area borderline (uso di proposito il termine generico di “area” per comprendere nello stesso ambito il concetto di disturbo borderline del DSM e di organizzazione borderline di personalità); chiunque abbia vissuto o viva sulla sua pelle la turbolenza della relazione, vero e proprio nucleo del lavoro terapeutico in questo ambito clinico, ha trovato indicazioni, aiuto, sostegno e conforto nelle splendide pagine che Antonello Correale ha dedicato negli anni a questi temi. Alcuni termini che Correale ha proposto e utilizzato per descrivere il mondo borderline e i modi con i quali avvicinarsi a esso sono ormai entrati nel linguaggio degli operatori: penso, per esempio, al concetto di “area traumatica” e al modo nel quale l’Autore ne delinea i confini in Area traumatica e campo istituzionale (2006). L’idea che per lavorare con il trauma sia necessario “lavorare ai bordi dell’area traumatica” (Correale 2000) è diventata per molti di noi una vera e propria idea guida. Una indicazione che ti fa sentire meno solo, meno perso nel lavoro con i pazienti gravi ma anche capace di reperire un punto dal quale partire per provare a mettere in moto un percorso che acquisti e soprattutto mantenga nel tempo una valenza terapeutica.
Accanto a queste due aree tematiche, che sono senz’altro più vicine ai tradizionali interessi dell’Autore, questo volume ne propone una terza che occupa una parte consistente del libro: nello specifico i primi sette capitoli. Di che cosa parla questa parte del libro? Parla di “psicosi, prevalentemente nel senso di psicosi schizofrenica. Ma ne parla mettendo in primo piano una serie di costrutti originali dall’articolazione dei quali nasce una vera e propria rappresentazione del mondo psicotico (nel senso di schizofrenico) e un possibile modello della sua genesi. Mi riferisco in particolare ai concetti di “allucinatorio” e “originario” che non appartengono al repertorio clinico tradizionale e che dispiegano davanti ai nostri occhi un aspetto della esperienza psicotica che l’Autore ritiene centrale. Tanto da avere utilizzato questo aspetto come titolo dell’intero volume: La potenza delle immagini. Ecco, si tratta proprio di questo: recuperare all’attenzione del clinico il potente effetto che l’immagine (e soprattutto una certa qualità nella percezione dell’immagine) svolge nella esperienza traumatica ma anche e soprattutto nelle psicosi schizofreniche.
2. Questa Introduzione è scritta facendo largo ricorso alle parole dell’Autore. Ognuno di noi ha un suo modo di leggere un saggio. Un saggio – è stato scritto – si può leggere solo con una matita in mano. Molti di noi hanno bisogno di più di una matita. Magari di matite colorate o di evidenziatori di colore diverso, mediante i quali dare più o meno risalto a parti che appaiono più o meno o diversamente importanti nel testo. Ma oltre che a sottolineare o a evidenziare una parte del testo una matita può servire anche a prendere qualche appunto, a fare qualche annotazione. Durante la lettura dei primi sette capitoli del libro di Correale mi sono trovato spesso a riscriverne passi, magari accostandoli tra loro in un ordine diverso da quello proposto dall’Autore. Ho sentito l’esigenza di raggruppare sotto un unico titolo parti del suo scritto, anche lontane tra loro, nelle quali l’Autore ritorna in modo nuovo sugli stessi argomenti. Questo è il modo grazie al quale ho cercato di immergermi nel testo e nella sua proposta relativa al ruolo della immagine nel trauma e nella psicosi. Questo è il modo nel quale ho cercato di comprendere e di fare mio il contributo teorico-clinico che questo testo propone. Questo è anche il modo nel quale tenterò di dare una restituzione di quelli che mi sono sembrati gli aspetti nucleari del suo contributo. Intendo quindi concentrare l’attenzione in queste pagine su questa prima parte del volume, più nuova e originale, nel tentativo di delineare la trama di fondo nella quale si iscrivono i costrutti proposti dall’Autore. Cercherò di ripercorrere – ricorrendo spesso alle parole dell’Autore – il percorso che ho seguito nella lettura, cercando da un lato di dare forma organizzata ai concetti intorno ai quali si incardina il discorso sulla psicosi (schizofrenica) e dall’altro di tenere vive le idee, le suggestioni e le immagini con le quali l’Autore trasfonde nelle pagine l’essenza del suo lavoro clinico.
In questa prima parte del volume l’Autore compie uno sforzo sistematico teso a dare una definizione il più possibile chiara dei costrutti via via impiegati. Immagino che questa tensione definitoria sia legata alla consapevolezza di essersi inoltrato in un territorio poco conosciuto, abbastanza misterioso, sfuggente, nel quale accadono cose strane, non facili da cogliere e che sembrano avere sulla mente una sorta di effetto ipnotico. In questa esplorazione del ruolo svolto dalle immagini nel funzionamento mentale normale e patologico l’Autore sente il bisogno – almeno così mi pare – di scolpire alcuni concetti chiave in modo da farne dei punti di riferimento, degli snodi essenziali di un percorso clinico e terapeutico.
In particolare due sono i concetti chiave intorno ai quali si organizza la prima parte del volume: “allucinatorio” e “originario”. Raccogliendo questa tensione definitoria dell’Autore, ho provato a formularne una definizione in una sorta di “dizionarietto” preliminare nella speranza che possa costituire un utile riferimento per chi si addentra nella lettura.
Allucinatorio
Il tema dell’“allucinatorio” sembra costituire una radicale espansione del modello che i Botella (2001) hanno sviluppato, nel contesto delle loro riflessioni intorno alla “raffigurabilità psichica” e in particolate intorno al costrutto di “allucinatorio post-traumatico”. In situazioni traumatiche, vale a dire di grave pericolo di morte o di perdita irreparabile, il soggetto si trova a visualizzare allucinatoriamente un oggetto (la porta di un appartamento, un vaso di fiori, un insetto volante, etc.) e a bloccare questa immagine in una sorta di cristallizzazione immobile e fissa. Questo processo si colloca nel contesto delle esperienze di depersonalizzazione sostenute dalla dissociazione grazie alle quali frammenti della scena traumatica si presentano alla mente come percezioni intrusive e persistenti. Il trauma, come è noto, è particolarmente capace di attivare “la potenza delle immagini”. Ma di quali immagini stiamo parlando? Si tratta di immagini che ripropongono con violenza frammenti della scena traumatica e che sono vissute come “prepotentemente inserite nel mondo reale”. Non sono immagini strane, enigmatiche, avvolte da un’ombra metafisica che rimanda a una realtà che sta di là della realtà comune: al contrario, le immagini legate al trauma parlano di eventi che appartengono alla drammatica concretezza della propria esistenza.
A partire da questa concezione dell’“allucinatorio” post-traumatico Correale sviluppa una estensione del modello dei Botella ad altri ambiti clinici (in primo luogo la psicosi schizofrenica), mettendo a confronto (come fa nel Capitolo 2, intitolato Fissità delle immagini e percezione del tempo) il ruolo che le immagini fisse svolgono nella psicosi schizofrenica, nel trauma e nel feticismo. Tre condizioni molto diverse caratterizzate tuttavia da un fenomeno comune: elementi percettivi molto potenti e molto rigidi “ostruiscono” la mente del soggetto, la ingombrano con una presenza pesante che irrigidisce e blocca il fluire del tempo. In tutti e tre questi casi – scrive l’Autore – è come se un oggetto ipersensorializzato reclamasse un’attenzione costante imprigionando il soggetto in uno spazio-tempo irrigidito e chiuso.
La qualità del vissuto che caratterizza la psicosi è tuttavia diversa da quella che caratterizza il trauma: mentre le immagini legate al trauma sono radicate nella realtà, non hanno un’ombra metafisica né interrogano profondamente il soggetto, nella psicosi il dato sensoriale viene vissuto come particolarmente intenso ma soprattutto enigmatico, sospeso, slegato da un contesto: una sorta di “figura” che ha perso il contatto con il suo “sfondo” di appartenenza. Il dato sensoriale appare così come qualcosa di inspiegabile, come qualcosa “caduto dal cielo”. Ammantato di un carattere di sacralità, rimanda insomma a un mondo altro, misterioso, inquietante, sconosciuto, che reclama una spiegazione. Questa ipersensorializzazione di un dato percettivo rappresenterebbe, secondo Correale, uno dei fenomeni fondamentali e basici della psicosi (schizofrenica). È a questo fenomeno che si riferisce Correale quando parla di “allucinatorio”.
In primo luogo è necessario precisare che l’“allucinatorio” è diverso dall’allucinazione descritta dalla psichiatria clinica e dalla psicopatologia. Il termine “allucinatorio” rimanda infatti alla percezione di una immagine/pensiero particolarmente potente, qualitativamente caratterizzata da una straordinaria vivezza sensoriale (in questo senso l’Autore parla di ipersensorialità e di “iperchiarezza allucinatoria”) tale da imporsi all’attenzione del soggetto e da fissarsi nella mente in modo esageratamente stabile, fino a parassitarne e paralizzarne il funzionamento. In presenza di questa immagine le fisiologiche capacità di sognare, giocare con i pensieri e con le immagini che caratterizzano la mente umana vengono ostruite.
Davanti al soggetto, imprigionato nelle stesse immagini, bloccate e bloccanti, si apre la strada di una drammatica interrogazione senza fine, destinata a rimanere senza risposta.
Ma quali sono le caratteristiche dei fenomeni che appartengono al novero dell’“allucinatorio”? Si tratta di immagini sempre uguali a se stesse, fisse, dotate di forte intensità sensoriale. Immagini che appaiono come se fossero illuminate da una luce forte, fissa, priva di ombre, che si presentano alla mente del soggetto in maniera intrusiva, parassitandone l’attenzione. La psicosi (schizofrenica) sarebbe caratterizzata proprio da questa condizione nella quale “l’immagine la fa da padrone e il soggetto è bloccato da una ipersensorialità invadente”. Il predominio dell’immagine rappresenterebbe l’esito di un percorso che, a partire da una “crisi della presenza” nel senso di Ernesto de Martino, porta a un vero e proprio “collasso della presenza”, a un radicale “sperdimento” che rende necessario il ricorso a una ipersensorialità ideico-percettiva capace di riempire questo vuoto.
È in questo contesto che si può compiere quel percorso ad alta valenza psicopatologica che va dall’“allucinatorio” alla allucinazione e al delirio. Quando l’allucinazione soppianta l’“allucinatorio” si apre la strada al delirio inteso come struttura in grado di arginare questa ipersensorialità intrusiva e di ridare a essa un senso: “il delirio – scrive Correale – è una costruzione compensatoria che dà finalmente collocazione e posizione all’”allucinatorio”. Mentre l’“allucinatorio” si colloca in una dimensione nella quale l’esperienza vissuta mantiene ancora uno stretto contatto con le sue origini (si rimanda per questo al rapporto con l’“originario”), l’allucinazione vera e propria è “il risultato di un ‘allucinatorio’ che si è staccato dalle sue origini”. Ogni allucinazione è il prodotto della elaborazione patologica di un “allucinatorio” che è rimasto fisso e bloccato. Così, di fronte a ogni allucinazione il primo compito che il clinico si deve proporre è quello di provare a ricostruirne una storia che riesca a cogliere il “nocciolo originario” (p. 32) di questo percorso.
Originario
Nel Capitolo 3, intitolato La fissità come traccia dell’originario, Correale mette in relazione il costrutto di “allucinatorio” con quello di “originario”. Le immagini fisse che si presentano alla mente della persona altamente vulnerabile alla psicosi (l’Autore usa il termine “futuro psicotico”) o dello psicotico (schizofrenico) appartengono alla dimensione dell’“allucinatorio” e provengono da un “deposito mnemonico” nel quale si sono depositate tracce dei “momenti di compenetrazione tra corpi che si sono verificati, con caratteristiche molto incisive e quasi traumatiche, in un periodo della vita in cui non era disponibile ancora la funzione del linguaggio”.
L’“originario” è dunque un costrutto che rimanda a una dimensione inconscia della mente legata ai primissimi rapporti oggettuali e in particolare a esperienze sensoriali originarie (“qualcosa che potremmo definire il primo rapporto sensoriale con l’oggetto”) mediato dal contatto tra corpi. Un concetto che richiama alla mente quanto Ogden (1989) scrive a proposito della posizione contiguo-autistica intesa come un’area di esperienza pre-simbolica di natura sensoriale, prevalentemente centrata sulla superficie della pelle: “L’organizzazione contiguo-autistica – commenta Benedetta Guerrini Degl’Innocenti (2020) – sarebbe associata a una modalità specifica di conferimento di senso all’esperienza: i primi contatti con l’altro da sé, contatti fra una parte del proprio corpo che sente e una superfice altra che trasmette, ripetuti quotidianamente all’interno delle interazioni con le superfici di contatto della madre e degli altri oggetti del mondo, produrrebbero delle prime connessioni psichiche. La forma di relazionalità caratteristica della posizione contiguo-autistica sarebbe quella in cui gli oggetti sono un’esperienza sensoriale in sé (in particolare sulla superficie epidermica), l’esperienza di esistere-nella-sensazione”. Così, argomenta Correale, l’originario può essere definito come la forma del primo incontro tra due corpi “che si presentano l’uno all’altro, sull’onda di una spinta che li fa incontrare; la prima forma di contatto tra una zona erogena e un oggetto stimolante”.
L’esperienza basica vissuta non è quella di un incontro tra due corpi ma di una unità che si caratterizza per un qualche evento che la qualifica: una lacerazione, un salto nel vuoto, una evaporazione, un congelamento etc. L’“originario” è quindi questa esperienza percettiva del contatto con l’oggetto contrassegnata da una compenetrazione corporea che si verifica in un’epoca della vita nella quale manca un apparato linguistico capace di dare forma a questa esperienza.
Quando manca anche una funzione materna capace di contestualizzare e rappresentare metaforicamente l’esperienza, l’originario corre il rischio di tradursi in quelle immagini fisse che costituiscono l’essenza dell’“allucinatorio” e che costituisce il presupposto di un processo che si muove lungo la direttrice “allucinatorio”-allucinazione-delirio. Al culmine di questo percorso la psicosi si può configurare come il “luogo di elezione della presenza dell’originario”: l’“originario” si coglie nella psicosi quando l’incontro sensoriale con l’altro diventa, nella esperienza psicotica (schizofrenica), una collisione, un bombardamento, una perforazione. Esperienze che possono assumere la forma di immagini di lacerazione, violazione, stupro, ferita emorragica, di un corpo i cui orifizi sono profanati e dove chiunque può entrare.
3. Prima di concludere vorrei soffermarmi su due considerazioni di carattere metodologico. Una prima considerazione riguarda il continuo tentativo dell’Autore di esplorare i costrutti che vengono introdotti sia su un piano fenomenologico sia su un piano psicoanalitico. Un esempio di questo metodo si rintraccia nel passaggio in cui l’Autore, dopo avere dato una definizione di “allucinatorio”, ne delinea con chiarezza le caratteristiche costitutive sul piano fenomenologico individuandole: costanza e fissità della immagine, alterazione del rapporto figura-sfondo, immobilità della luce e assenza di ombre, intensità e cristallizzazione dei colori e delle forme, bidimensionalità della immagine.
Dopo aver esplorato in una prospettiva in prima persona le caratteristiche dell’esperienza soggettiva della persona che resta soggiogata dalla potenza dell’immagine, l’attenzione dell’Autore si sposta sul percorso genetico di questa esperienza in termini di meccanismi di difesa ma anche inseguendone le origini nella storia dei primi rapporti sensoriali con gli oggetti significativi dell’esistenza. Dopo averne delineato la genesi, il costrutto “allucinatorio” viene messo in tensione con la teoria e la clinica psicoanalitica. Attraverso una analisi della sequenza “allucinatorio”-allucinazione-delirio l’Autore rivede criticamente la concezione tradizionale dell’allucinazione come processo eminentemente evacuativo. Privilegiare una concezione evacuativa dell’allucinazione non fa prendere sufficientemente in considerazione il problema relativo a “dove” vengono collocati gli elementi proiettati e di “che cosa” rimane nella mente del soggetto. L’allucinazione infatti non è da intendersi soltanto come l’esito di un tentativo di eliminare qualcosa, di sbarazzarsi di stimoli disturbanti, di liberarsi da elementi inaccettabili ma anche come il tentativo di affermare qualcosa, che poi si cristallizza e si perde nel vuoto. La soluzione sembra tuttavia configurarsi come rimedio peggiore del male: l’immagine proiettata si congela in uno spazio indistinto, infinito, una specie di immensità illimitata dalla quale interroga angosciosamente il soggetto ma allo stesso tempo non esce mai del tutto dalla sua mente. Lascia così una traccia incancellabile la cui provenienza è attribuita all’esterno ma il cui contenuto continua a ingombrare e angosciare il soggetto. Ciò che si cercava di allontanare resta così incombente, sospeso, inquietante, se non minaccioso. Ne risulta – continua Correale – “una specie di immobilizzazione dell’immagine, una sua fissità, una sua cristallizzazione”. Nella psicosi – questa la tesi centrale dell’Autore – l’immagine la fa da padrone e il soggetto resta abbacinato da una sensorialità invadente, prigioniero di un mondo ipersensoriale caratterizzato da staticità, rigidità e fissità. Le caratteristiche del costrutto “allucinatorio” che erano state in un primo momento messe a fuoco sul piano fenomenologico possono ora essere recuperate e geneticamente comprese in una dimensione analitica come punto di arrivo di un percorso dotato di senso.
Una seconda considerazione di carattere metodologico riguarda il continuo tentativo di tradurre le ipotesi e le analisi di carattere fenomenologico-dinamico in indicazioni e suggerimenti utili all’intervento terapeutico e, in particolare, a individuare modi più efficaci di porsi in relazione con la persona e i suoi sintomi. In questo senso l’Autore si mantiene fedele al legame tra teoria, pratica e ricerca che Freud aveva posto a fondamento del metodo psicoanalitico. Per esempio, a conclusione del Capitolo 1, intitolato Originario o implicito: un dibattito nella psicoanalisi, Correale si domanda come il rilievo clinico di un eccesso di sensorialità (l’“allucinatorio”) nella psicosi schizofrenica possa tradursi in un intervento terapeutico. “Se un paziente sogna continuamente di avere la bocca piena di chiodi – scrive – bisogna lavorare nella sensazione di duro sulla lingua, di puntura sul palato e chiedersi quali fattori attivano particolarmente queste sensazioni: parole pungenti, facce arcigne, sapori aspri? Insomma, un atteggiamento che potremmo definire ‘fenomenologicamente’ orientato, come premessa a un lavoro di simbolizzazione, che solo dopo, in un secondo momento, assumerà le forme a cui siamo più abituati, di un linguaggio carico di immagini ed emozioni”.
L’idea guida proposta da Correale è che, se il processo patologico va dall’“allucinatorio” all’allucinazione e dall’allucinazione al delirio, sia necessario concentrare l’attenzione sull’“allucinatorio”, isolare alcune immagini centrali, allargarle, collocarle su uno sfondo più ampio, mobilizzarne e infrangerne la fissità per coglierne gli aspetti più nascosti e segreti. In genere questa modalità di approccio viene vissuta dal paziente come la fine di un angoscioso isolamento e l’inizio di una utile condivisione. Il lavoro del terapeuta deve concentrarsi sul particolare percettivo che costituisce il nucleo dell’immagine e prendere a modello lo stile con il quale si commenta un quadro. Si tratta – continua Correale – di chiedersi “perché quel colore, perché quell’angolatura, perché quella luce. Forse voleva dire questo, forse quella scena implica quest’altro aspetto? Perché una bocca, perché una mano, perché una casa? e così via”. Esattamente il contrario di quanto fa la psichiatria mainstream che si propone perlopiù di estirpare l’“allucinatorio” senza rendersi conto che questa amputazione del sintomo occlude una strada che potrebbe portare a una “nuova combinatoria di pensiero”. Allo stesso modo quando il percorso si estende alla allucinazione e al delirio è necessario: i) chiedersi quando e come è comparsa la allucinazione, cercando di ricostruire una storia della allucinazione e delle sue caratteristiche qualitative; ii) cercare di rintracciare il nocciolo percettivo originario della allucinazione: ogni allucinazione deriva – questa la tesi dell’Autore – da una percezione rimasta ferma e congelata che rimanda all’ “originario”; iii) muoversi in una direzione che ripercorra in senso contrario la sequenza che va dal delirio alla allucinazione, dalla allucinazione all’“allucinatorio” e dall’“allucinatorio” alla percezione. L’obiettivo da perseguire nella terapia è quello di riaprire la possibilità per la percezione di muoversi nella direzione della rappresentazione.
Il delirio, come è noto, viene spesso vissuto con sollievo dalla persona poiché costituisce un argine all’”allucinatorio” capace di portare, insieme a un vissuto angoscioso di allarme e di persecutorietà (presente perlopiù nelle fasi iniziali), anche un senso di sicurezza e di fascinazione. Il principale obiettivo terapeutico è costituito nel confronto con il delirio dalla costruzione di una trama di fiducia, di apertura di significato, di curiosità, di dubbio che renda possibile cominciare a sviluppare almeno l’abbozzo di un racconto. Si tratta, lentamente e con gradualità, di scomporre il delirio nei suoi mattoni costitutivi, indagando il potenziale linguistico di ogni singolo mattone, un po’ come Freud proponeva di fare per l’interpretazione dei sogni. Lavorare non sulla totalità del sogno, ma sulla somma dei suoi particolari per poi arrivare a poter collocare quei mattoni in una trama relazionale che ha una sua storia e nella quale sia possibile cogliere una faglia originaria. Questi processi sono lenti e laboriosi ma – scrive Correale – non dobbiamo avere troppa fretta. Dobbiamo avere la pazienza di soffermarci sul delirio così come sull’“allucinatorio” e sull’allucinazione, stabilendone i collegamenti, movimentandoli con associazioni, per poi arrivare eventualmente a una loro interpretazione. In questo senso le allucinazioni non sono scarti da eliminare ma rappresentano un punto di aggancio del percorso terapeutico: si potrebbe affermare – si chiede Correale – che le allucinazioni sono un po’ come i sogni dello psicotico e quindi la via regia alla comprensione del suo funzionamento psichico?
Non so rispondere a questa domanda. Sono tuttavia convinto che l’impostazione teorica e il metodo di lavoro che Antonello Correale propone in questo libro, felice sintesi di una prospettiva psicoanalitica e di un orientamento fenomenologico, possano essere di straordinario aiuto nel confronto con mondi chiusi e di difficile accesso. Quelli che la psichiatria clinica e la psicopatologia chiamano “sintomi” e i loro precursori (come l’“allucinatorio”) possono rappresentare una via di accesso privilegiata a un mondo vissuto e alla possibilità di una narrazione che aiuti il soggetto a ritrovare il contatto con se stesso e con la sua storia.
Bibliografia
Ambrosi P., De Martis D., Petrella F.
1987 Fare e pensare in psichiatria, Cortina, Milano.
Benedetti G.
1991 Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, Bollati Boringhieri, Torino.
Botella C., Botella S.
2001 La raffigurabilità psichica, Borla, Roma 2004.
Correale A.
1991 Il campo istituzionale, Borla, Roma.
2000 Psicoanalisi e psicosi: fino a che punto indagare l’area traumatica?, in “Rivista di Psicoanalisi”, vol. 46, pp. 707-730.
2006 Area traumatica e campo istituzionale, Borla, Roma.
Guerrini Degl’Innocenti B.
2018 Posizione contiguo-autistica, rêverie, identificazione proiettiva: breve viaggio intorno alle origini del pensiero, in C. Saottini (a cura di), Dal sogno alla vita. Trasformazioni della cura psicoanalitica nel pensiero di Thomas H. Ogden, Mimesis, Milano.
Ogden T.H.
1989 Il limite primigenio dell'esperienza, Astrolabio, Roma 1992.
1 La Scuola di Psicoterapia fenomenologico-dinamica, approvata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e delle Ricerca (MIUR) nel 2015, ha sede a Firenze, sotto la direzione del prof. Giovanni Stanghellini.