Tuttavia anche altro non consente di ritenere che questa nuova opera di Bellocchio esprima un intento minimalista. Il suo minimo di un mondo familiare comprende, come il minimo di bruniana memoria, un massimo fatto di minimi mondi potenzialmente innumerevoli. E’ come la goccia d’acqua della quale Musil ha scritto nelle prime pagine de L’uomo senza qualità e nella quale è racchiuso un universo.
Al pari del grande romanzo di Musil, anche questo piccolo film – questo «filmetto» per come sorridendo lo definisce il regista – è il ritratto di un’epoca. Le cecità di un minimo familiare esplose in una tragedia vi sono infatti poste in continuità con quelle di una società esplose in una catastrofe rimasta a tutt’oggi senza riscatto: perché il triplice interrogativo che in questo film il regista si pone a proposito di un suicidio è lo stesso che si è posto nel film dedicato all’omicidio di Moro e sul quale intende tornare.
Il volto della madre del gemello suicida del regista, segnato dalle stimmate di un delirio religioso che teneva vivo in lei il terrore delle fiamme dell’inferno, è infatti posto in continuità con il volto di un pontefice segnato dalle stimmate di un istrionismo chiamato a compensare un vuoto interiore, e con quello di un politico segnato dalle stimmate di una tracotanza chiamata anch’essa a compensare lo stesso vuoto la quale, benché buffonesca, è esitata nell’azzardo onnipotente di una sfida perdente alla realtà.
Le voci dei familiari di Bellocchio si levano poi sullo sfondo delle vicende seguite al tragico esito di quella tracotanza. Rapide pennellate ne compongono l’affresco: la fine della monarchia; la vittoria nelle elezioni del ’48 dell’integralismo cattolico favorita dall’induzione in una società dello stesso terrore delle fiamme dell’inferno che aveva infettato la madre del regista; l’illusione che Marx, con la sua incompiuta critica della religione, non fosse da aspettare, ma fosse già giunto a portare la liberazione da quel terrore; l’illusione del Sessantotto che la liberazione potesse venire dal dare libero corso a una fantasia confusa con la fantasticheria, quando non all’anarchismo o alla follia; fino al riproporsi di quel terrore nel terrorismo degli anni Settanta che avrebbe portato all’omicidio di Moro.
Quelle voci suonano squallide e la macchina da presa è impietosa nel rendere la sensazione di gelo che trasmettono. I membri della famiglia sono infatti concordi nel rifuggire dal confrontarsi con l’accaduto e dal ricercarne la verità interrogandosi su quanto vi abbia concorso la loro assenza. Spengono il trauma subìto riconducendo l’accaduto al senso di minorità del suicida rispetto ai congiunti di successo. O lo negano, come fa una delle due sorelle: non c’è stato alcun suicidio, è stato un incidente.
Una sola voce fuoriesce dal coro e ripropone il trauma in tutta la sua potenza. Non è però la voce di un familiare, è bensì la voce della fidanzata del suicida, novella Antigone che oppone poche asciutte parole sia al potere della dimenticanza e dell’annullamento, sia alla percezione delirante che porta a vedere nel suicida un angelo: “Camillo, perché lo hai fatto?” Ma forse voleva dire: “Perché non mi hai vista?”
Come se la voce della donna, mediata dal ricordo che ne fa la di lei incisiva sorella, fosse la voce del regista stesso, anche la sua fuoriesce dal coro. Racconta di avere cercato la verità dell’accaduto senza però trovarla, di avere tentato di vedere senza però avere visto. Per poter vedere non gli è bastato uccidere, ne I pugni in tasca, la madre resa ceca dal proprio delirio religioso senza restarne egli stesso infettato. Né fare sua la dirompente potenza della duplice bestemmia nella quale, ne L’ora di religione, prorompe il fratello reso matto anche dall’esposizione a quel delirio.
Non gli basta neppure rivolgersi a un onesto psicoanalista. Questi riconduce infatti il dramma al privato: suggerisce che Camillo si sia suicidato perché dagli altri membri della famiglia e dal regista stesso non è stato visto nel suo essere lacerato da un personale conflitto; ma non dice nulla su ciò che il regista vorrebbe sapere, e cioè su perché neppure lui ha visto.
Bisogna allora riprendere il discorso dal principio, dal delirio religioso della madre, affrontare direttamente il tema della religione che, a partire da lì, ha attraversato come sotto traccia tutto il film. Si giunge così alla sua scena capitale: l’incontro del regista con un sacerdote, non però uno qualsiasi, bensì un gesuita.
La scena riecheggia quella di un altro racconto di una storia familiare, quella de I fratelli Karamazov: la scena nella quale uno dei quattro fratelli, Alioscia, che al pari del regista anelava a conoscere la verità sul male che affliggeva i suoi congiunti e il mondo, assiste al colloquio del fratello Ivan, che incarna lo spirito del non essere e la condizione del non vedere, con un altro gesuita, il Grande Inquisitore. Nel film manca la mediazione di quel fratello quasi che il regista assumesse su di sé quello spirito come condizione del suo non avere visto e non vedere. Egli si rivolge direttamente al gesuita chiedendo a lui una parola di verità che lo liberi dalla colpa di quella condizione. La risposta del gesuita gli giunge inattesa e sorprendente: gli dice infatti che, se non si è liberato dalla colpa di non avere visto e non ha trovato la verità cui anela, è stato perché il suo pensiero è rimasto lungo tutta la sua storia un pensiero religioso. Tenta poi di sedurlo dicendogli un’altra cosa, la stessa che il Grande Inquisitore dice ad Alioscia: che può sentirsi assolto da quella colpa perché essa è sua, se la è, per propria vocazione, assunta lui.
A questa seduzione, la stessa che ha permesso alla Chiesa di conservare per secoli il potere sulle coscienze, il regista non risponde. Ma alle prime parole del gesuita risponde con un sorriso incredulo, quasi divertito: gli sembra assurdo che proprio lui, che in tanti suoi film è stato critico del pensiero e del costume religioso, debba scoprirsi come portatore di quel pensiero. E dice poi, con forza e poesia, che non lo è: perché ha potuto ritrovare il gioco felice e irrequieto dei bambini che, non ancora contaminati da quel pensiero, animano la penultima scena del film; e perché, nell’ultima scena, ha potuto attraversare il ponte di una separazione e così rivedere e riconoscere il fratello e se stesso oltre le nebbie di quel pensiero.
Il film tace su cosa abbia consentito al regista di attraversare quel ponte. Però il sorriso con il quale ha risposto alle prime parole del gesuita non è solo incredulo e divertito. E’ anche sorpreso e vagamente consapevole. Come se in quelle parole avesse colto la rivelazione di qualcosa che gli è appartenuto.
Una peculiarità del film è che non può essere pienamente compreso se considerato come un’opera chiusa e in sé finita. Che cosa il gesuita gli rivela, il regista lo dice infatti poi, dopo che il film è stato realizzato e presentato, nelle interviste che ha rilasciato – in particolare quella su “l’Espresso” del 15 Agosto – le quali vanno assunte come un suo seguito e completamento. Ci dice che non avrebbe potuto realizzarlo fintanto che fosse rimasto coinvolto in una vicenda che gli impediva ogni ricerca di verità sul suicidio del fratello e sul proprio non avere visto. Una vicenda anch’essa minima che assume però senso per il suo essere incastonata nel massimo dell’infuocato contesto degli anni Settanta.
In quel contesto qualcuno aveva avanzato la promessa, a quanti vi vagavano sbandati perché delusi dalle religioni di allora o perché rischiavano di venire sedotti dal culto del terrore, di riportarli a nuova vita. A costo però di una fede in quella promessa ed in lui tanto incondizionata da renderli disposti a sacrificarle i propri figli. Una fede, come quella di Abramo nel dio biblico, che anche il regista aveva professato con una completezza senza la quale non avrebbe potuto poi attraversare il ponte della separazione da essa. Perché, come scrive Carrère ne Il regno, solo chi si è totalmente perso in una fede può andare oltre la presunzione di essere immune dalla possibilità di perdersi in una fede e, essendosene reso immune, riprendere la strada della ricerca della verità.
Marx può aspettare non si conclude con la fine del film solo perché nel seguito delle interviste Bellocchio dice di questa separazione, bensì anche perché vi dice quale sarà il prossimo passo che intende compiere lungo quella strada che gli si è ora aperta. Tornerà sul caso Moro al quale, come si è ricordato, ha già dedicato un film, ritenendo forse che l’immunità acquisita gli consenta di ricercarne la verità più liberamente di allora. Vedremo e ascolteremo. Ma intanto non possiamo non osservare che egli progetta di confrontarsi di nuovo con un minimo incastonato in un massimo; con la storia di una famiglia incastonata nella storia della società degli anni Settanta.
Così appunto, Anni Settanta, aveva intitolato il suo libro del 2007 Giovanni Moro, il figlio dello statista assassinato. Vi sostiene che tra i rapitori del padre e quanti avrebbero dovuto e potuto salvarlo sia esistita una segreta alleanza nel non dirsi la verità su quanto stava accadendo. Aggiunge che la colpa per questo condivisa dagli uni e dagli altri grava ancora sull’oggi nella forma di una privazione generalizzata di verità imposta alla società per una convinzione propria del pensiero religioso: quella che la verità sia insostenibile e che vi sia chi, come il Grande Inquisitore e il gesuita di Marx può aspettare, debba lavarla assumendosi la colpa salvifica di nasconderla. Al pari di quanto il regista del film fa per il dramma individuale del gemello, l’autore del libro traduce il dramma individuale del padre nel dramma di una collettività per affidarne il riscatto alla responsabilità di ognuno e di tutti e al loro impegnarsi in quella che egli chiama una «politica della verità» volta a realizzare una società che non sia fatta di salvatori e di «sommersi e salvati», ma di individui che si vedano l’un l’altro oltre le nebbie del pensiero religioso riconoscendosi come diversi ed uguali.
Il suo libro, al pari del film, ha dunque anche il significato di un manifesto politico. Esso è rimasto sostanzialmente ignorato. V’è da augurarsi che Marx non può aspettare e il film sul dramma di Moro che lo continuerà non solo non vengano ignorati, e neppure soltanto pur meritatamente celebrati, ma compresi.
Buongiorno, volevo
Buongiorno, volevo complimentarmi con Armando per l’acuta recensione, in particolare la proposizione di una visione ‘Massima’ del bellissimo docu-film di Bellocchio che di sicuro potrebbe considerarsi un affresco da godere e studiare per una migliore psichiatria .