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L’albero della conoscenza e l’albero della vita. Pensieri sulla religione e sulla psicoanalisi

9 Ott 21

Di antonello.sciacchi16

Riassunto. Stando alla lettera del mito biblico, Dio non cacciò Adamo ed Eva dall’Eden perché avevano colto il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma perché non cogliessero i frutti dell’albero della vita. L’Autore suggerisce che tali frutti contenevano il segreto del potere di creare e che Dio cacciò Adamo ed Eva dall’Eden per mantenere quel segreto per sé. Il mito racconta dunque che tra Dio e gli esseri umani si instaurò per il possesso di quel segreto una lotta che prese forma ed esistenza nella storia. L’Autore individua il maggiore ostacolo che gli esseri umani incontrano in tale lotta in quanto accaduto intorno all’albero della conoscenza del bene e del male; in particolare nella demonizzazione dell’avere Eva animato una umanità inerte con la visione del diverso da sé. Eva però è la rappresentazione di una disposizione femminile interna generalmente umana offuscatasi nel corso della storia anche per opera della psicoanalisi. Il suo ritrovamento è condizione sia della possibilità della psicoanalisi di oltrepassare un paradigma teorico e clinico che la assimila alla religione del mito biblico, sia della possibilità di pensare la religione in termini laici. [Parole chiave: psicoanalisi, religione, creatività, disposizione femminile interna, bisessualità, sinergia]

 

Abstract. According to the Bible, God banished Adam and Eve from Eden not because they had taken the fruit of the tree of knowledge of good and evil, but to prevent them from grasping the fruits of the tree of life. The Author suggests that those fruits contained the secret of the power to create which God wanted to keep for himself and that, therefore, the myth narrates a fight between God and human beings for the appropriation of that power. He maintains that human beings are impeded in that fight by what happened around the tree of knowledge of good and evil; and above all by the demonization of Eve because she animated a lifeless humanity with the vision of the other-than-oneself which is the condition of the relation containing the power to create. Eve also represents an inner feminine turn which pertains both to women and men and which has been obfuscated in the course of history thanks also to psychoanalysis. Its recovery is the condition of the possibility both of psychoanalysis to go beyond the limits of a theoretical and clinical paradigm which assimilates it to religion, and of the possibility to conceive religion in laical terms.[Keywords: psychoanalysis, religion, creativity, inner feminine turn, bisexuality, synergy]

 

 

«(…) quelli che non hanno il potere di raccontare questa Storia che domina la loro vita, di pensarla, di decostruirla, di burlarsene, e di cambiarla man mano che i tempi mutano, sono davvero impotenti, perché non possono pensare in maniera nuova»1

 

1.Un peccato

Se si chiede a più persone quanti alberi vi fossero nel paradiso terrestre secondo la Bibbia, e perché Adamo ed Eva ne furono cacciati, la risposta per il solito sarà che vi era solo l’albero della conoscenza del bene e del male e che Adamo ed Eva ne furono cacciati per averne colto il frutto commettendo così un peccato prevalentemente inteso come di natura sessuale.

La Bibbia però non dice esplicitamente che quel peccato sia stato di tale natura.2 Dice invece esplicitamente che nel paradiso terrestre v’era anche un secondo albero, l’albero della vita, e che i nostri progenitori furono cacciati da quel paradiso affinché non dessero seguito all’intenzione di coglierne i frutti.3

 

2. Un albero

L’albero della vita non si incontra solo nella Bibbia.4Per lo più inteso come l’albero i cui frutti danno la vita eterna, è stato visto nel Cristianesimo come un’immagine di Cristo che sarebbe venuto a restituire agli esseri umani quella vita tolta loro dal peccato delle prima donna (Eliade, 1973, pp. 400-402). La sovra determinazione del linguaggio del mito consente però di intendere quell’albero anche come “l’albero che dà la vita”, nel senso che coglierne i frutti permetterebbe di accedere al segreto della creatività.5 Diventa così possibile suggerire che, stando al mito, Dio esiliò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre e pose a guardia di quell’albero i Cherubini armati della spada di fuoco per impedire agli esseri umani di appropriarsi di quel segreto e per mantenerlo per sé.

 

3. Una domanda

Un teologo, SØren Kierkegaard, ha scritto a questo proposito di una connaturata inimicizia tra gli esseri umani e Dio e di una loro lotta per stabilire a chi appartenga la creatività.6 Parlare di religione comporta dunque parlare anzitutto di questa lotta e chiedersi se il potere di creare appartenga all’essere umano o a Dio, se quell’essere debba restarne escluso nella venerazione di un Dio che lo avrebbe creato dopo avere creato il cielo e la terra, o possa vincere la paura che gli incute la folgorante spada di fuoco e riconoscere come proprio quel potere. Un potere, va chiarito, tutt’altro che indefinito e astratto. Esso infatti consiste nel fare sì che quanto non è venga ad essere e si attualizza tramite il lavoro: non solo quello di chi pone in essere opere d’arte o qualcosa di grandioso, ma anche di ogni artigiano o di chiunque sogni o ricavi da un sogno significati che indichino un progetto di vita.7

Poiché è la religione a sostenere che il potere di creare appartiene a Dio, la suddetta domanda può essere posta in altra forma, ovvero chiedendosi chi abbia creato la religione, se l’essere umano o Dio, se essa sia stata a quell’essere rivelata o da lui ideata.

 

4. Due risposte

La risposta divergerà a seconda che ci si ponga da un punto di vista “alto” o“basso”, che la si desuma dal mito o che la si cerchi nell’esperienza.

Kierkegaard ha desunto la risposta dal mito. In Timore e tremore(1843) egli si sofferma su un momento esemplare della suddetta lotta, sulla vicenda di Abramo chiamato da una grandezza puramente negativa detta “Dio” a sacrificare Isacco, il figlio che Dio stesso aveva dato alla moglie Sara in tarda età. Kierkegaard si serve di quel momento per esaltare il valore dell’assoluto abbandono all’assurdo volere attribuito a Dio, abbandono di cui Abramo dà prova oltrepassando il confine della ragione e dell’etica e accettando di sacrificare il figlio. Se nel “figlio” scorgiamo l’immagine della creatività di Abramo8, comprendiamo che il mito ribadisce l’interdizione a cogliere il frutto dell’albero che dà la vita. Imponendo ad Abramo di sacrificare la propria creatività, Dio la arroga a sé e ne dà un’ulteriore manifestazione nel fermare la mano di Abramo levata a compiere quel sacrificio: in tal modo fa infatti della creatività di Abramo un proprio dono.

La risposta che, ponendosi dal punto di vista “alto” del teologo, può essere data alla domanda di chi abbia creato la religione è dunque che questa, come tutto,è stata creata da Dio perché il potere di creare appartiene esclusivamente a lui.

La ricerca della risposta ponendosi da un punto di vista “basso”ha una lunga storia cui qui si può solo accennare. Già uno dei primi filosofi, Senofane, si era posto da tale punto di vista. Non aveva tratto la risposta dal mito, ma da quanto vide osservando l’esperienza che gli esseri umani facevano della religione. Vide che erano essi a crearla. Sostenne che essi si costruiscono la divinità a propria immagine e somiglianza,che «gli Etiopi dicono che i loro dei sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei e rossi di capelli» (fr. 11).Epicuro e Lucrezio sostennero poi che la religione era una costruzione con la quale gli esseri umani si difendevano dalla paura della morte. Molto dopo, un altro filosofo, Feuerbach, disse qualcosa di più. Riconobbe nella proiezione l’operazione mentale di cui quegli esseri si avvalgono per costruire l’immagine della divinità trasferendovi qualità proprie, compreso il potere di creare, e alienandole da sé. Nello stesso periodo, Marx subordinò quell’operazione mentale alla confusione tra valore del lavoro e valore del prodotto e alla sostituzione del primo con il culto feticistico del secondo (Marx, 1897, pp. 84-97).Poco dopo Freud, riecheggiando il detto di Feuerbach secondo cui la religione sarebbe il sogno di una coscienza desta, e quello di Marx secondo cui sarebbe l’oppio dei popoli, dirà che essa è un’illusione e aggiungerà che è una «nevrosi dell’umanità».9

Né Feuerbach, né Marx, né Freud dissero però di cosa la suddetta operazione si avvale, ovvero con che, e come, quegli esseri si costruiscono la religione. Per farlo bisogna porsi come loro da un punto di vista “basso” e interrogare l’esperienza che direttamente si ha della religione prevalente nella nostra cultura. Si riconosceranno così gli elementi,le “cose”, con cui è costruita: edifici, ad esempio chiese;momenti festivi, ad esempio domeniche; persone, ad esempio un pontefice; racconti, ad esempio i Vangeli; azioni, ad esempio preghiere. Queste cinque “cose”non si trovano solo nella religione prevalente nella nostra cultura, ma in tutte. Per dire di una, nella religione islamica troviamo,se non chiese,moschee; se non domeniche, venerdì; se non pontefici, imam; se non Vangeli, il Corano; un diverso modo di pregare.

Si riconoscerà però poi che le religioni non sono costruite solo con queste cinque “cose” visibili, ma anche con altre invisibili. Anzitutto visioni. All’origine di ogni religione v’è una visione tramite cui viene rivelata. All’origine della religione prevalente nella nostra cultura c’è la visione che Maria ebbe di un angelo che le annunciava la nascita di Gesù e poi quella che San Paolo ebbe di Gesù sulla via di Damasco. All’origine della religione ebraica c’è la visione che Mosè ebbe sul monte Sinai di un pruno ardente attraverso cui gli giungeva la voce di Dio. All’origine dell’Islamismo c’è la visione che Maometto ebbe sulla montagna di una figura gigantesca che lo invitava a farsi guida del suo popolo. E così via.

Un’altra “cosa” invisibile è la fede. Kierkegaard, commentando la vicenda di Abramo, ha definito la fede come l’accettazione dell’assurdo, di ciò che la ragione umana non è in grado di comprendere e l’etica di giustificare. La fede di San Paolo, di Mosè, di Maometto, consiste nel credere nell’assurdo che affermano di avere direttamente visto. Vengono chiamati “profeti” perché raccontano quanto hanno creduto di vedere e nella cui realtà hanno fede. La fede di chi viene a conoscenza dei loro racconti consiste invece nel credere sia nell’assurdo che non ha direttamente visto, sia nel fatto che alcuni abbiano visto l’assurdo che raccontano di avere visto. Per questo vengono chiamati “fedeli”.10

Le cinque “cose” visibili e le due invisibili, cioè la visione e la fede,sono come i mattoni con cui gli esseri umani costruiscono l’edificio che è la religione. Per fare un edificio, una casa, non bastano però i mattoni, è necessario anche altro che induca ad usarli, come il bisogno di non restare esposti al caldo, al gelo, alla pioggia. Qualche bisogno spinge dunque quegli esseri a servirsi di quelle “cose” per costruire religioni.

Un mito racconta l’origine della religione etrusca. Un giorno un pastore, Tagete,doveva passare con il suo gregge un fiume per accedere a nuovi pascoli. Era timoroso. Avrebbe perso le sue pecore nelle acque vorticose del fiume? Ne sarebbe stato travolto lui stesso?Una volta attraversatolosi sarebbe trovato in terre a lui nuove e sconosciute: come avrebbe reagito allo spaesamento che avrebbe provato? Genti ostili lo avrebbero derubato del gregge? Lupi glielo avrebbero sbranato? Indugiava; e, indugiando, il suo timore rischiava di tracimare nell’angoscia. A un tratto ebbe però una visione. Vide sorgere dalla terra una figura che aveva corpo e statura di bambino, ma volto di vecchio e capelli bianchi. Disse di chiamarsi Tarconte egli insegnò come diventare pontefice, come costruire ponti,cioè una religione che permettesse a Tagete di vincere il timore che provava nel dover passare il fiume.

Noi non abbiamo greggi da portare su un’altra riva. Dobbiamo però compiere continuamente passaggi piccoli e grandi. Mentre scrivo sto compiendo il passaggio dall’intenzione di scrivere all’avere scritto e non posso sapere se giungerò a compierlo. Ciascuno sa di passaggi che nella vita ha compiuto o dovrà compiere. Alcuni variano da ciascuno a ciascuno; altri sono comuni a molti e conseguono alle variazioni che avvengono nello scorrere della storia: scoperte che stravolgono abitudini consolidate; catastrofi naturali come inondazioni, terremoti, epidemie.

Alcuni passaggi riguardano da sempre tutti. Sono la nascita, lo svezzamento, la pubertà, la visione dell’essere umano diverso, l’invecchiamento e la morte. Più degli altri, questi cinque passaggi hanno da sempre generato in tutti gli esseri umani un timore che può tracimare in angoscia e terrore. Il bisogno di superare questi vissuti da loro suscitati spinge quegli esseri ad usare le suddette “cose”visibili e invisibili per costruire sui passaggi che li inducono ponti che sono religioni.11

 

5. Una spada di fuoco

Due ostacoli – una promessa e una minaccia – si oppongono a che venga accolta la risposta data da un punto di vista “basso” alla domanda su chi abbia creato la religione e su a chi appartenga il potere di creare.

La promessa è rappresentata dall’albero che dà la vita quando sia inteso (cfr. ante & 2) come annuncio di vita eterna nel futuro avvento di un Regno dei Cieli ove gli esseri umani non proveranno più tremore, angoscia e terrore di fronte ai passaggi perché in quel Regno non ci saranno più passaggi.

La minaccia rappresentata dalla spada di fuoco brandita dai Cherubini. Essa può venire vista come rappresentazione dell’impedimento mentale12 in cui si imbatte l’intenzione di cogliere i frutti dell’albero che dà la vita. È un impedimento composito perché costituito dall’insieme di quanto accaduto all’ombra dell’albero della conoscenza del bene e del male. Tale impedimento procede dall’atto che Eva compie, prima di porgere ad Adamo il frutto di quell’albero,nel riconoscere in lui il diverso da sé. Ella anima così un’umanità inerte, perché fatta di creta,insufflandovi la capacità di compiere quel riconoscimento come condizione del rapporto tra esseri umani e del loro rapporto con il mondo. Nel mito sono infatti le conseguenze di quell’atto a rendere inaccessibile l’albero che dà la vita. Riguardano tre dei cinque passaggi fondamentali: la visione stessa dell’essere umano diverso da sé,la nascita e la morte.

 

6. Stupore e terrore

Le conseguenze di dell’atto di Eva riguardano anzitutto il passaggio che ogni essere umano compie nel vedere il diverso da sé. Quell’atto dovette suscitare lo stupore di sentire un’umanità inerte animarsi di un desiderio che si svolge in affetti, sogni, progetti, conflitti, timori, speranze prima assenti, ovvero in quanto oggi chiameremmo “vita psichica” o “realtà psichica”. Essisono la stoffa di ogni creazione umana; attribuendo a Eva quell’atto, il mito dice dunque che ella, e non Dio, partecipa del potere di creare in quanto pone in essere quella realtà.

Il mito presenta però Eva anche in tutt’altro modo. Racconta che il suo atto l’ha resa complice del demonio, demonio essa stessa, e che esso non suscita stupore, ma terrore.13L’attribuzione a Dio del potere di creare viene così consolidata perché si rende possibile immaginarlo non solo come creatore del cielo, della terra e degli esseri umani, ma anche come artefice del loro riscatto da quel terrore e della loro salvezza dal rischio di perdersi nel passaggio costituito dalla visione dell’altro da sé e nelle vicissitudini del desiderio.

 

7. Creare e produrre

Le conseguenze dell’atto di Eva riguardano anche il passaggio della nascita. Esso comprende due passaggi: quello che il nascituro compie dalla condizione fetale alla neonatale, e quello che la madre deve compiere da una situazione in cui il neonato non c’era a una in cui c’è.

La conseguenza di tale atto, in quanto inteso come ispirato dal demonio,sul primo di questi due passaggi risiede nel fatto che il neonato sarebbe stato «concepito nel peccato che la madre ha portato in sé» (Agostino, Confessioni XIII, 12) per avere Eva commesso quell’atto. Il potere di Dio di creare si accresce così di quello dell’essere il solo a poter mondare il neonato da quel peccato rendendolo umano e salvandolo dal destino, che altrimenti lo attende, di bruciare in eterno in inferno o, al meglio, di permanere in eterno nel limbo di una non umanità (Delumeau, 1983, pp. 479-504).

La conseguenza dell’atto di Eva sul passaggio che deve compiere la madre risiede nel fatto che il mito presenta il suo partorire come una punizione per avere compiuto quell’atto. Esso sostiene che questa punizione consiste nel dolore che accompagna il partorire. Tale punizione consiste però, prima ancora, nel dare ad Eva, in cambio del potere di creare, quello di partorire. Ciò ingenera il lei la confusione mentale di non sapere a quale di quei due poteri affidare la propria identità e la espone al rischio di vedere nel figlio il feticcio di una creatività che è stata condizionata a negarsi.14Anche questa conseguenza consolida il potere di Dio di creare escludendo da tale potere chi altri potrebbe pretendere di parteciparvi.

 

8.Nascere e morire

Le conseguenze dell’atto di Eva riguardano infine il passaggio dalla vita alla morte. Il mito racconta che con quell’atto ella introduce nel mondo la morte; cioè che, a causa sua, tutti gli esseri umani devono affrontare l’angoscia indotta da un ultimo passaggio sul quale non hanno alcun potere. La morte però non è un passaggio, ma la fine di ogni passaggio. E così Eva, introducendola nel mondo come se fosse invece un passaggio,conferisce a Dio il potere di far sì che quegli esseri, una volta passati dall’essere al non essere più, possano passare dal non essere più all’essere. La resurrezione della carne è la massima espressione del potere di creare che,secondo il mito, Evapone saldamente nelle mani di Dio con la sua trasgressione.

 

9. I due volti, le due nature e i due atti di Eva e di Adamo

La donna del mito ha dunque due volti. Le sono ambedue conferiti dall’avere animato un’umanità inerte insufflandovi la visione del diverso da sé come condizione del creare. Per questo è colei che libera l’umanità dalla sua inerzia e dai limiti imposti da una divinità onnipotente. Al tempo stesso, questa liberazione può essere vista come causa di comportamenti che costituiscono un danno per l’umanità stessa in quanto vi introducono turbolenze e conflitti che infrangono la coesione delle società. La donna del mito viene pertanto considerata anche come fonte di ogni male.15Ella diventa così strumento della conferma dell’appartenenza a Dio di un potere creativo e salvifico in quanto, generando il male, offre a Dio l’occasione di manifestare ed esercitare tale potere sconfiggendo il male da lei generato.

Eva ha poi due nature: non significa, e al tempo stesso significa,una donna reale. Un’esperienza accessibile a tutti può rendere riconoscibile la prima di queste due nature. Chi si trovi a contemplare un dipinto come le Ninfee di Monet adagiate su acque lentamente scorrenti, o chi sia smosso dalle note di una musica, sentirà aprirsi nella propria interiorità uno spazio suscettibile di accogliere immagini, pensieri e possibilità di rapporto inattesi. Tuttavia la prima natura di Eva non va identificata con quel pur accogliente spazio, ma con un suo a priori costituito dalla condizione di quell’aprirsi: costituito cioè da un’immateriale disposizione, propria del femminile, a vedere e a riconoscere il diverso da sé. Nell’esempio proposto essa si esprime nella contemplazione di un quadro o nell’ascolto di una musica; ma si esprime anche nel vedere e riconoscere ogni manifestazione del diverso da sé incontrata da un soggetto.16

La donna del mito però, in quanto immagine risultante da un’impressione dei sensi di Adamo, da una percezione che presuppone un oggetto, significa anche una donna reale. Ha dunque due nature al pari delle donne dei pittori, dei poeti e dei film che incontreremo più avanti (cfr. oltre & 11) nelle quali quelle sue due nature assumono forma ed esistenza storica.

La donna del mito compie infine due atti17: oltre a vedere e riconoscere il diverso da sé,protende la mano per offrire il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male alla prima forma in cui il diverso da sé le appare. È recettiva ed attiva; è disposizione femminile in quanto recettiva, maschile in quanto attiva.

Un discorso analogo può essere fatto a proposito di Adamo. Anche lui ha nel mito due volti. Nel tempo dell’esilio, assume quello della vittima ignara e colpevole di un raggiro, chiamata da Dio a fungere da guardiano e giudice della donna per impedirle di compiere nuovamente l’atto che introduce nella storia la visione del diverso da sé; ma, prima di quel tempo, ha il volto di chi vive lo stupore del risveglio da un sonno senza sogni.

Anche Adamo ha poi due nature: non significa, e al tempo stesso significa, un uomo reale. Non lo significa in quanto è un dato dell’interiorità, disposizione interiore non cosciente, sorta dal riconoscimento dell’altro da sé, all’impeto e al proporre quanto poi diventa esistente perché riconosciuto dall’altro. E però anche, in quanto immagine risultante da un’impressione dei sensi di Eva, da una percezione di lei,un uomo reale.

Adamo compie infine due atti corrispondenti ai due di Eva; quello di vedere e riconoscere il diverso da sé, perché, se non avesse visto e riconosciuto Eva, non avrebbe potuto esprimere l’impeto sotteso al protendere la mano per raccogliere il frutto che ella gli porge; e quello di esprimere quell’impeto. È recettivo e attivo; è disposizione femminile in quanto recettivo, maschile in quanto attivo (cfr. il & seguente sulla bisessualità).18

 

10.Rapporti

Il linguaggio del mito non è quello della logica discorsiva, ma quello del sogno ove operano condensazione, spostamento, sovra determinazione, sincronicità che stabiliscono tra i suoi lemmi una molteplicità di reciproci rinvii e rapporti difficili da rendere pienamente nel linguaggio della logica discorsiva. Tuttavia qualcosa è possibile intravedere.

Il primo volto di Eva, la sua prima natura e il suo primo atto stanno tra loro in un rapporto che li raccoglie in proteiforme unità: ella non potrebbe figurare nel mito come colei il cui atto fornisce all’umanità la stoffa di quanto questa possa creare se non si esprimesse nell’impalpabilità del vedere e riconoscere il diverso da sé. Del pari Adamo, se non avesse vissuto l’altrettanto impalpabile stupore del risveglio da un sonno senza sogni, non avrebbe potuto significare nel mito una disposizione interiore ad agire l’impeto necessario a cogliere il frutto che Eva gli porgeva, e non avrebbe potuto compiere l’atto di coglierlo.

Questi rapporti ne comportano un altro: quello tra Eva ed Adamo. Il volto, la natura e l’atto di ciascuno dei due sono anche dell’altro. Eva è Adamo ed Adamo è Eva a significare una bisessualità dell’essere umano che, lungi dall’essere quella statica e mortale dell’androgino19, sta a dire di una sinergia di maschile e femminile come scaturigine di ogni atto creativo.

 

11.Mito e storia

Nelle sue lezioni, Angelo Brelich insisteva nell’avvertire che il mito è il suo racconto e che questo racconto è sia il divenire quanto significato dal mito esistente nella storia, sia l’attualizzarsi nella storia di significati presenti in esso in potenza. La storia della nostra cultura fornisce un esempio del divenire esistente quanto raccontato dal mito biblico e di tale attualizzarsi. A partire dal Duecento,il primo volto della donna del mito diventa esistente nel configurarsi della visione della donna come colei che detiene il potere di creare quanto è fonte e condizione di ciò che gli esseri umani possono creare. Tale visione assunse varie forme: da quelle riconoscibili sia nelle creazioni dei troubadours e nella loro dottrina dell’amor cortese sia nelle composizioni poetiche della corte di Federico II, a quelle riconoscibili nella Vita nova e nella Comedia di Dante, nel Canzoniere di Petrarca e persino nel Decamerone di Boccaccio ove l’opposizione al terrore indotto dalla peste é affidata a narrazioni innescate nella sinergia dell’incontro di giovani uomini con giovani donne. Tale visione raggiunge l’apice nella cultura fiorentina di fine Quattrocento ove la donna è posta al centro di un progetto politico inteso a creare una società che, in quanto attenta, prima che alle cose, a una bellezza condivisibile,tenga lontani da sé i conflitti e assicuri lo star bene dei suoi membri.20

Il secondo volto della donna del mito diventa esistente nell’affermarsi, a partire dai primi anni del Cinquecento,della visione di lei, capovolta rispetto alla precedente, come fonte della follia e del male. Anch’essa assunse varie forme: da quella, ancora contenuta in un’atmosfera di gioco, di Angelica che porta Orlando a perdere il senno; a quella che gli autori del Malleus maleficarum21intendevano spegnere nelle fiamme dei roghi; a quella virilizzata della guerriera infedele spenta dal pio Tancredi nella Gerusalemme liberata del Tasso.

Il secondo volto della donna del mito ha continuato a diventare esistente in storie individuali del passato.22 Lo ritroviamo poi in romanzi che raccontano di donne le quali sono, a un tempo, occasione del risveglio di un uomo dal suo letargo e causa della sua e propria rovina.23 Lo ritroviamo nei casi clinici di psicoanalisti che raccontano di uomini sedotti dall’incontro con donne e al tempo stesso terrorizzati, nella realtà e nei sogni, dalla possibilità di scoprirsi in quell’incontro donne; e di donne che vanno a quell’incontro accecate, nella realtà e nei sogni, dall’impossibilità di essere uomini.

Proprio in rapporto a ciò, già avanti nel suo percorso, in Analisi terminabile e interminabile, Freud riconobbe l’impraticabilità della sua terapia. Parlò di una «roccia basilare» (Freud, 1937a, p.535) contro cui essa si scontrava prendendo atto della propria impotenza, e la identificò nel timore che gli uomini avevano di scoprirsi passivi come essi, ed egli stesso, credevano fossero le donne, e in quello che, con termine improprio, chiamò il “desiderio” delle donne di avere un pene.

Fu il ritorno di un rimosso. Cioè in quella «roccia» esitava e si solidificava un percorso immaginativo presente in potenza nel mito e già attualizzatosi sia nella storia della cultura cui Freud apparteneva, sia nella sua storia individuale.

Nel corso della prima, la distinzione tra, da un lato, la disposizione al rispetto e al riconoscimento significata dalla prima delle due nature della donna del mito e, dall’altro, la donna reale, era stata dimenticata perché la donna che significava quella disposizione era stata offuscata sia da una religione che aveva demonizzato la donna24, sia da una scienza intimorita dal rischio, peraltro reale, che la certezza del dato potesse perdersi nella visione del diverso da sé e venire travolta dall’immaginazione e dallo spiritualismo riportando l’umanità a una «infanzia» dalla quale l’aveva liberata l’Illuminismo.25

Nel corso della seconda, quella distinzione si era già persa nella dimenticanza quando una donna, apparsa a svegliare Freud da un sonno senza sogni, gli si era tramutata nell’immaginazione di un mostro preistorico.26 Ma più ancora quando, nel rapporto con Fliess e su sua suggestione27, aveva pensato la bisessualità degli esseri umani in termini anatomici: come compresenza nella donna di due pressoché puntiformi reperti anatomici, due feticci, ovvero la clitoride oltre che la vagina, mentre l’uomo sarebbe «più fortunato» (Freud, 1932, p.225) per il fatto di possedere un pene, ma non una vagina che però possedeva al principio dei tempi e che avrebbe ritrovato alla loro fine (cfr. ante, la nota 19).

Le due storie, culturale e individuale, si incontrano nel caso del presidente Schreber. A motivo della prima, Schreber non poté che tradurre l’aspirazione di ogni individuo di sesso maschile a vivere una propria disposizione femminile nella fantasticheria, che ebbe tra sogno e veglia,28di un progetto di mutazione anatomica.29 Freud, a motivo della sua storia individuale, non poté comprendere quella fantasticheria altrimenti che entro i limiti della diagnosi di una paranoia che c’era, ma non era tutto. Non seppe cioè riconoscere nell’omosessualità di Schreber la disperazione dettatagli dal non potere pretendere di ritrovare,altrimenti che materializzandola in un corpo,una disposizione femminile perduta nel rapporto con il padre (Schatzman, 1973; Miller, 1980).30

 

12. Sara e Agar: “l’altra donna”

La psicoanalisi si trova oggi ad affrontare l’ardua sfida di farsi donna. Di disfarsi della sua identità fallica che l’ha impegnata, a partire dai saggi di Freud su Leonardo e su Michelangelo, nel tentativo, proprio delle religioni, di rendere fatto indiscusso e condiviso da tutte le menti quanto a una mente sarebbe stato rivelato in un momento mitico denominato “autoanalisi”31; impegnata cioè a tradurre e confinare in un paradigma solo a lei noto tutto quanto significato, oltre che dalle vicende di vita di uomini e donne, dall’arte, dalla letteratura, dai miti. La psicoanalisi si trova cioè oggi a doversi fare “umile” di fronte a loro per ricostruirsi nel ritrovamento di una disposizione femminile che, posta ai margini della storia, ha contribuito a far dimenticare.

Di recente l’arte, la letteratura e i film sono venuti riproponendo quella disposizione. Le donne dei pittori dell’Impressionismo, le donne di Modigliani, dicono di donne che non sono donne reali ma, per parafrasare Dante, “donne della loro mente” anche se evocate dalla loro percezione di donne reali. Soprattutto però, in una connessione che meriterebbe di essere indagata più di quanto qui si possa fare, è dopo la seconda guerra mondiale che si è venuto delineando un movimento volto a riproporre, come in punta di piedi e sottotraccia, il discorso su quella disposizione. Emblematica di tale movimento può essere considerata la filmografia di Antonioni, in particolare L’avventura, ove un uomo esprime il tentativo di ritrovare una propria disposizione femminile perduta che è altro da una donna reale; tentativo che ritroviamo, ad esempio, nel più recente film di Tornatore, La migliore offerta32, nel film di Clint Eastwood Debito di sangue33 e in numerosi romanzi: non solo quelli di Màrai e di Rushdie già ricordati, ma anche quelli di Murakami (uno tra tutti, Norwegian Wood), Persig (Lila), Williams (Stoner), Modiano (L’erba delle notti) e di tanti altri, e in poeti come Hikmet. La formazione dello psicoanalista non può oggi fare a meno di trasformarsi radicalmente passando attraverso l’”umiltà” di apprendere da loro ciò che non può apprendere da Freud e dalla letteratura psicoanalitica.

Da loro, ma anche dal mito. Abramo appare nel mito biblico prima del momento su cui si polarizzò l’attenzione di Kierkegaard; prima di fare il sogno di dover uccidere il figlio, che né lui né Kierkegaard riconobbero fosse un sogno, e tantomeno seppero comprendere. Compare catturato nella castrazione di non poter generare, di non vedere realizzata, a causa della tarda età e della sterilità della moglie Sara, la promessa fattagli da Dio di una numerosa discendenza. È Sara a liberarlo da questa castrazione dandogli in dono un “altra donna”, una schiava, una straniera, Agar.34 Eva si sdoppia in questo momento del racconto mitico in Sara e in Agar, come a rivelare le sue due nature: disposizione interna al rispetto e al riconoscimento, e donna reale.

Lo psicoanalista francese Fethi Benslama, ricorda come questo momento del racconto mitico sia anche quello della fondazione dell’Islam 35e ne segni la differenza dalle altre due religioni monoteistiche. Una differenza costituita da due fattori tra loro congiunti: la non predominanza della figura paterna e l’assegnazione del potere di creare non al padre, e neppure a un Dio padre, ma alla donna, all’”altra donna”, Agar. È questa, offerta da Sara ad Abramo, a liberare sia Abramo che Sara dalla loro castrazione. Benslama trae da questa sua lettura del mito un suggerimento per la psicoanalisi. Nota come Freud, nel saggio su Mosè, non abbia prestato attenzione all’Islam se non in un breve passaggio in cui lo presenta come una religione del padre (Benslama,2002, pp. 101-105) a conferma della tesi di Totem e tabù, e inoltre assegna non a un’”altra donna”, a una “straniera”, ma a un “altro uomo”, uno “straniero”, un potere di creare che si esprime nel porre in essere su suggerimento di Dio una religione. Lo psicoanalista francese sembra dunque suggerire che la psicoanalisi, facendosi umile, trovando una disposizione al rispetto e al riconoscimento dell’altro da sé anche nei confronti del mito, possa rigenerarsi e andare oltre se stessa per il fatto di discostarsi dalla visione della donna ereditata dal monoteismo biblico e dalla dominanza del paradigma edipico (Benslama, 2002).36

 

13. Una psicoanalisi e una religione

Un uomo 37esordisce in una seduta dicendomi che gli era appena capitato di vedere un film del 1999, A prima vista, tratto dallo scritto di Oliver Sacks Vedere e non vedere. Era la storia di un giovane cieco dall’età di tre anni, abbandonato poi dal padre dal quale si aspettava di essere guarito dalla cecità e il quale, a sua volta deluso del fallimento dei tentativi che aveva fatto al riguardo, gli addossava la colpa sia della sua menomazione, sia di quel fallimento. Il protagonista incontra una giovane donna architetta che, nella ricerca di una propria vena artistica perduta o coartata, ritiene di ritrovarne una traccia nella sensibilità che lui aveva sviluppato proprio in ragione della sua cecità. La donna crede di doversi impegnare a fargli ritrovare la vista. Assume inconsapevolmente il ruolo del padre e convince il giovane, divenuto suo amante, a sottoporsi a un’operazione che gliela restituisce. Egli però, dopo avere compiuto grandi sforzi per riadattarsi a vivere in un mondo che non era stato il suo, la perde di nuovo. Sarà solo quando egli l’accuserà di avere amato, più che lui, il successo nel restituirgli la vista, e di essere ora delusa per esserle quello mancato, e quando perciò si allontanerà da lei, che ella potrà ritrovare la propria vena artistica e riaccostarsi a lui; e che i due potranno accingersi ad attraversare la vita accomunati da una stessa sensibilità. Fa parte di questa vena artistica ritrovata il fatto che, nel finale del film, lei possa incamminarsi con lui raccontandogli dell’orizzonte, di come si sposti sempre, di quanto sia vago.

Dopo avere ascoltato, gli dissi solo: «È proprio così; l’orizzonte si sposta di continuo, è sempre vago, e sta in ciò il suo fascino. A noi non è dato raggiungerlo né rincorrerlo per sempre; ma non vorremmo neppure che si fermasse e perdesse la sua vaghezza».

La visione dell’altro da sé introdotta nel mondo dalla donna del mito, non si arresta alla figura di Adamo. La capacità di Agar di liberare Abramo e Sara dalla loro castrazione dando loro un figlio, che non è altro che l’essenza creatrice dell’uno e dell’altra, si estende nel suo prendersi cura del figlio nelle infinite vicende che incontra nell’attraversare il deserto della storia. La visione del diverso da sé, la cura di essa, si affacciano sul mistero dell’esistenza umana. Danno alla parola “religione”, che dice di un legame, un senso che non è quello di un legame con un Dio, ma quello di un indissolubile legame con quel mistero e con la visione di un infinito che prospetta e comprende tutto quello che di finito ogni essere umano può, nella finitezza della sua breve esistenza, creare.

 

 

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1 Rushdie (1992, citato in Benslama, 2002 p. 35), spiega così il senso del suo romanzo del 1988, I versetti satanici, che gli era valso l’ostracismo e la condanna a morte da parte delle autorità religiose islamiche.

2 L’interpretazione in chiave sessuale del peccato commesso da Adamo ed Eva per avere colto il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è divenuta prevalente a partire da S. Agostino (Delumeau, 1987,p. 450 ss.) ed è stata rilanciata verso la fine del XVIII secolo dal libertino olandese Beverland. A proposito di tale interpretazione, Antonello Gerbi ha scritto: «La prima cosa che stupisce chi si metta ad osservare da vicino [tale interpretazione] è il fatto che essa [sia] ancora ai giorni nostri accettata come verità nota e pacifica. Chiedete a dieci persone quale sia stato il fallo di Adamo: nove vi risponderanno con una ingenua professione di beverlandismo (…). In molti casi quell’interpretazione è ritenuta perfettamente ortodossa, in moltissimi è accolta senza il menomo dubbio che altre spiegazioni esistano» (Gerbi, 2011, p. 16).Gerbi ha mostrato come tale interpretazione abbia talora assunto forme quanto mai fantasiose anche in persone dotte, come, ad esempio, in Paracelso: «Eva fu sedotta dalla bellezza di Adamo, puro casto e angelico, ma con in più l’attributo sessuale, che egli ancora non aveva, e che per l’occasione gli prestò Satanasso» (p. 125).

3 Nella Bibbia Dio parla agli angeli così: «”Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre !” (…). Scacciò l’uomo e pose ad Oriente del giardino di Eden i Cherubini e la folgorante spada per custodire la via all’albero della vita»(Genesi, III, 22-24).

4 La sua immagine ha probabilmente lontana origine nei culti della vegetazione (Frazer, 1950, vol. I, pp. 199-238 e 483-526). È presente nel mito di Gilgamesh e nel Buddismo. Sulla simbologia dell’albero in genere, si veda Eliade, 1953, tutto il capitolo VIII.

5 La possibilità di intenderlo così trova una conferma nell’esperienza analitica. Questa mostra infatti che spesso la morte, cui nella religione viene opposta la promessa di una vita eterna o di una resurrezione, non si riferisce a uno stato futuro, ma a uno stato presente, nella vita, di assenza di vita, di castrazione della creatività. Ciò è sfuggito a Freud quando (Freud, 1899, pp.231-252) tratta dei sogni di morte di persone care (Bolko, 2019).

6 Ad esempio: «Il punto decisivo è: per Dio tutto è possibile (…) ma alla decisione si viene soltanto quando l’uomo è portato agli estremi, quando, umanamente parlando, non c’è più possibilità alcuna. Allora si decide se egli vuol credere che a Dio tutto è possibile (…). Così si lotta nella vita dello spirito» (1849 p. 246-247).

7Anche se risulterà chiaro più avanti, va tenuto presente fin d’ora che il tema della creatività interessa in modo essenziale la cura psicoanalitica. Al riguardo Winnicott (1971, p. 120) scrive: «In qualche modo la nostra teoria comprende la convinzione che vivere creativamente sia una situazione di sanità, e che la compiacenza sia una base patologica per la vita». Più avanti (p.123) specifica: «Una creazione può essere un quadro o una casa o un giardino (…); qualunque cosa a cominciare da un pranzo cucinato in casa». Su Winnicott si vedano anche le note 10 e 30.

8 Anche in questo caso viene in appoggio l’esperienza analitica: molto spesso il “figlio” che compare nei sogni non è il figlio reale, ma la rappresentazione di un Sé creativo. Non solo: tra gli esegeti vi è stato chi ha sostenuto che Abramo riceve l’ordine di sacrificare il figlio in un sogno, che il figlio apparsogli nel sogno «è l’essenza del suo generatore» e che, immolandolo, Abramo avrebbe in realtà immolato se stesso, quella sua «essenza» (secondo Ibn Arabî, citato in Benslama, 2002, p. 237).

9 «Fin da quando scrissi il libro su Totem e tabù, nel 1912 (…) non ho più dubitato che sia possibile concepire i fenomeni religiosi solamente usando il modello dei sintomi nevrotici individuai a noi familiari, come ritorni di significativi eventi da lungo tempo dimenticati della storia primordiale della famiglia umana» (Freud 1938, p. 282). Molti psicoanalisti hanno poi fatto eco a Freud, primo tra loro Reik, 1949.

10 Le “cose” che fanno le religioni sono riconoscibili anche in costruzioni storiche che non sembrano religioni, ma, poiché costruite con esse, vanno considerate tali. Ciò vale per il Comunismo realizzato in Unione Sovietica, il Fascismo e il Nazismo. Che valga anche per la Psicoanalisi, nonostante la critica di Freud alla religione (cfr. ante, la nota 9 e, oltre, 31), è noto a psicoanalisti e non. Tre esempi. Cremerius (2000, p. 163): «Ho più volte stabilito un’analogia tra la struttura organizzativa e il sistema formativo dell’Associazione psicoanalitica internazionale e quello di una comunità religiosa (…). Esiste una somiglianza tra Freud e i fondatori di “chiese”. Freud è il creatore di una dottrina (“la socioanalisi è una mia creazione”), un leader carismatico, ritiene che la psicoanalisi sia una verità (“possediamo una verità”) stabilisce alcune parti della dottrina come scibolet, “regola sacra”, ha la consapevolezza di una missione da compiere». Winnicott (1971, p. 128: «Il concetto dell’istinto di morte potrebbe essere visto come una riasserzione del peccato originale». Delumeau (op. cit., p. 457): «Ha ragione T. Reik di scrivere che “il Cristianesimo e la Psicoanalisi, nei loro tentativi di spiegazione, partono da un’identica supposizione, pensando che un evento preistorico sia la causa del sentimento di colpa collettiva».

11Ponti, passaggi, pontefici è il titolo di un mio libro (Armando, 2019b).

12 Una donna, lacerata tra osservanza e trasgressione, sogna in analisi i suoi capelli andare in fiamme le cuilingue possono sembrare spade di fuoco. Nel mito nibelungico Brunilde è rinchiusa dormiente da Odino entro un cerchio di fuoco e sarà Sigfrido a svegliarla.

13 Stupore e terrore sono i due possibili esiti del fenomeno dello spaesamento su cui ha scritto Freud nel saggio

sul Das Unhemiche: lo stupore può degenerare in terrore. Cfr. il cap. 2 del mio libro del 2019a.

14 Anche qui l’esperienza analitica viene in aiuto. È tutt’altro che raro il caso di donne che cadono nella confusione di scorgere, nel mettere al mondo un figlio, il riscatto dalla condizione di sentirsi castrate del potere di creare.

15 Troviamo questo significato, attribuito dal mito biblico all’atto di Eva, nell’atto compiuto, secondo il mito greco, da un’altra donna, Pandora, nell’aprire un vaso ripieno di mali che avrebbero afflitto l’umanità affidatole da Zeus per punire gli umani dell’essersi appropriati del segreto del fuoco. Sulle analogie e differenze tra il mito biblico e il mito greco, tra le figure di Eva e di Pandora, cfr. Giolo, 2020. Leo Strauss si è avvalso del mito di Pandora nella sua costruzione di un’ideologia totalitaria, necessaria a mantenere la coesione sociale, supportata dalla religione (cfr. Strauss, 1958 e il mio saggio del 2014).

16 In rapporto a questa prima natura della donna del mito si pone la questione dell’origine di quanto ho chiamato “immateriale disposizione a vedere e a riconoscere il diverso da sé propria del femminile”. Essa non risulta dalla percezione: da cosa dunque risulta? È una questione difficile e spinosa perché affrontarla comporta il rischio si inoltrarsi nei vicoli ciechi dello spiritualismo e dell’innatismo, quello degli archetipi o quello dei geni, o di qualche alchimia neonatale. La segnalo, non intendo entrarvi. Mi limito a constatare che la consapevolezza della sua esistenza è un dato culturalmente consolidato (rinvio di nuovo al & 11); ed a fondarmi, kantianamente, sul dato empirico suggerito dalla dinamica del desiderio, secondo cui ogni incontro di una donna reale o di un uomo reale con il diverso da sé è guidato da quella speranza che resta nel fondo del vaso di Pandora; ovvero dall’attesa che tale incontro vivifichi e renda durevole quella disposizione. Ho svolto questi pensieri nei capitoli 5 e 7 del mio libro del 2019a.

17 In realtà più di due perché, oltre quelli menzionati appresso, che qui interessano, vede l’albero, ascolta il serpente, coglie un frutto dall’albero.

18 Riguardo alle implicazioni di quanto detto in questo paragrafo sul riconoscimento, va accennato al fatto che vi si può innestare una prospettiva di pensiero, auspicata da de Martino (1958), divergente da quella innestata dalla dialettica hegeliana del riconoscimento (Hegel, 1807) che tanto ha influito sulla cultura occidentale, e fin sulla psicoanalisi di Lacan. Poiché abbiamo parlato di albero della vita, possiamo esprimere questa divergenza dicendo che, mentre nella dialettica hegeliana il riconoscimento è condizionato da una lotta e da un essere per la morte, nella prospettiva di pensiero qui accennata è condizionato da una sinergia e da un essere per la vita.

19 In Al di là del principio di piacere (1920, pp. 242-243) l’androgino è il punto di approdo di un percorso entropico orientato e guidato dall’istinto di morte.

20 Emblema di questa visione della donna fu Simonetta Cattaneo, sulla quale cfr. Welliver, 1957. pp. 60-71 e 118-123. Quella visione è stata vividamente rappresentata nel romanzo di Rushdie, L’incantatrice di Firenze, 2008.

21 «Poiché il peccato di Eva non ci avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo, se non fosse stato seguito dalla colpa di Adamo,colpa a cui egli fu indotto da Eva e non dal diavolo, si può ben dire che la donna è più amara della morte» Institor – Sprenger, in Delumeau, 1983, p. 479

22 Ad esempio, Kierkegaard visse l’incontro con l’essere umano diverso da sé come fonte di stupore e condizione della propria creatività; scrisse però poi che «la donna è un essere tremendo» (Diario, II p. 417) che non induce stupore, ma terrore, e la sacrificò riconsegnando a Dio il potere di creare che aveva attinto nel rapporto con lei. Un altro esempio, la vicenda di Martin nel film di Dreyer del 1947 Diesirae.

23 Un esempio per tutti: La donna giusta di Sàndor Màrai.

24Benslama (2002, pp. 151-154) fa notare come Agar, l’altra donna, che in Genesi XVI e XXI è posta all’origine del monoteismo islamico, sia poi assente nel Corano. Egli parla al riguardo di «cancellazione» e di «disconoscimento».

25 Kant, 1784, p. 5. Su questo percorso della dimenticanza si veda Armando – Bolko 2017, il capitolo 13.

26 Freud, dopo avere incontrato il diverso da sé in una giovane donna, Gisela Fuchs, ed esserne stato stupito e scosso, scorse in lei un mostro preistorico, un Ichthyosauro, e ne provò terrore (von Unwerth, 2005, pp. 65-69).

27È noto che, a questo proposito, Fliess accusò Freud di plagio quando ritrovò le sue tesi sulla bisessualità nel libro di Weininger Sesso e carattere. Accenno a questo episodio perché può mettere in luce la posta in gioco intorno al tema della bisessualità. Va cioè ricordato che in quel libro Weininger congiunge misoginia ed antisemitismo contribuendo ad aprire la strada al Nazismo.

28 «Una volta, nelle prime ore del mattino, in uno stato tra il sogno e la veglia, gli si affacciò “la rappresentazione» che dovesse essere davvero bello essere una donna che soggiace alla copula”, idea che in stato di piena coscienza egli avrebbe respinto con la più grande indignazione» (Freud, 1910, p. 343).

29 Un progetto che oggi, quando la tecnologia lo consente, un analista “buono” o politicamente corretto gli avrebbe forse avallato presupponendo di risparmiargli così il ricovero nella clinica del dottor Flechsig.

30 Esponendo un caso clinico, Winnicott identifica un momento di svolta dell’analisi di un soggetto maschile nel momento in cui l’analista, avendo lavorato su di sé, scopre il «fattore ignoto» che paralizzava l’analisi nel disconoscimento dell’«elemento femminile» di quel soggetto e può dirgli: «Io sto ascoltando una ragazza» (Winnicott, 1971, p. 132). Peccato che egli risolva poi questa notevole intuizione riportando la presenza di quell’elemento in quel soggetto al fatto che la madre avesse visto «una bambina quando era appena nato» (p. 133).

31È in questo momento, più e prima di quanto notato da alcuni psicoanalisti riportato alla nota 10, che trova fondamento e verità l’affermazione secondo cui la psicoanalisi è una religione. Con la sua consueta raffinatezza, Mannoni (1973) ha argomentato che la psicoanalisi comprende una critica alla religione appoggiandosi non alle formulazioni più note di tale critica, come L’avvenire di una illusione, ma a un testo del 1937 Costruzioni in analisi: sia i deliri individuali e sociali, tra cui la religione, che le interpretazioni psicoanalitiche, sono costruzioni della mente umana, con la sostanziale differenza che le costruzioni della psicoanalisi sono interpretazioni di quei deliri.Questa argomentazione però non regge a fronte della dipendenza delle costruzioni della psicoanalisi dal mito biblico. Con tutto il rispetto per quello che è stato uno dei miei maestri, va detto che egli incorre qui in un circolo vizioso.

32 In sintesi, nel film un cultore d’arte cerca di cogliere la propria disposizione femminile attraverso la contemplazione della sua collezione di ritratti di donne; ma, quando pensa di poterla trovare ed afferrare in una donna reale, impazzisce. Il film riecheggia la vicenda di AbyWarburg che, avendo ritenuto di poter trovare in una donna reale quanto gli era evocato dall’immagine di una ninfa di un quadro di Botticelli, cade della paranoia e finisce nella clinica di Binswanger (Gombrich, 1970).

33 Nel film un omosessuale, fingendo una rapina, uccide una donna per donarne il cuore a un uomo malato di cuore che non lo corrispondeva, convinto che l’indifferenza di questi nei propri confronti fosse dovuta al fatto che quell’uomo, un ex poliziotto, era senza un cuore di donna. La sorella della donna uccisa, ritenendo che l’omicidio non fosse stato casuale, si rivolge all’ex poliziotto per conoscere la verità dell’accaduto. Egli inizialmente rifiuta, ma quando sa di chi era il cuore che ora lo fa vivere accetta e si libera dell’omosessuale che glielo aveva fatto avere innamorandosi della sorella della donna di cui ora aveva quel cuore. Nella banale forma di un poliziesco, Eastwood, non sappiamo quanto consapevolmente, propone pensieri prossimi a quelli che ho cercato di proporre in questo lavoro: anzitutto, ma non solo,la distinzione tra disposizione femminile (la donna che non c’è più, il suo cuore) e la donna reale (la sorella): la stessa distinzione di cui parla Rushdie ne L’incantatrice di Firenze tra la protagonista e il suo specchio e di cui aveva parlato Dante mettendo accanto a Beatrice la donna dello schermo.

34 «Sara, moglie di Abramo, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava Egiziana chiamata Agar, Sara disse ad Abramo: “Ecco, il signore mi ha impedito di avere figli: unisciti alla mia schiava, forse da lei potrò avere figli (…). Sara, moglie di Abramo, prese Agar l’egiziana, sua schiava e la diede in moglie ad Abramo, suo marito. Egli si unì ad Agar, che restò incinta”» Genesi, XVI, 1-4

35Egli traccia una netta distinzione tra l’Islam fondato su questo momento e un Islamismo che cerca il riscatto dalle ferite infertegli dalla cultura occidentale in una radicalizzazione sorretta da «un ideale di purezza» la cui ricerca coinvolge «la distruzione del corpo» e la demonizzazione della donna non solo perché i suoi costumi in quella cultura sono visti come un oltraggio alla civiltà mussulmana, ma anche perché questa tende per tradizione a vedere nella donna il suo «punto vulnerabile», la fonte di un disagio che ne infrange dall’interno la coesione (Benslama, 2017, pp. 64 e 94. Si vedano le recensioni di Marchesini, 2018, p. 488 e di Comelli, 2018, pp. 644-647).

36 «Si è spesso rimproverato alla psicoanalisi (…) di non lasciare spazio alle donne nelle sue congetture sulle origini della Legge e della società, o, peggio ancora, di assegnare loro lo statuto di “bottino” che gli uomini si disputerebbero, come in Totem e tabù. Orbene, ciò che l’analisi del racconto monoteistico ci permette di formulare, è una funzione strutturale del femminile in origine, che condiziona l’instaurazione genealogica del padre» (Benslama, 2002, p. 133). Cito questo passo anche per segnalare un limite di cui il discorso di Benslama risente: quello di non essere del tutto esente dalla confusione di quella che egli qui chiama “funzione strutturale del femminile” con la donna reale. Inoltre permane in lui un’ambiguità: se da un lato cerca nel mito fondativo dell’Islam una possibilità di rigenerazione della psicoanalisi, dall’altro dichiara di volere «estendere all’Islam il progetto freudiano di riportare alla luce le rimozioni costitutive delle istituzioni religiose e tradurre la loro metafisica in metapsicologia» (p. 7).

37 Estrapolo questo caso dal contesto del capitolo 7 del mio libro del 2019a.

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1 commento

  1. manlio.converti

    A parte che Dio non esiste,
    A parte che Dio non esiste, che sono solo favole neolitiche e che Adama è esplicitamente il primo creato nel testo originale conservato (in realtà ne esistono di perduti precedenti) come individuo Intersessuale da cui si distinsero nelle fantasie dei pastori neolitici il maschio e la femmina, tanto che ancora in Cappadocia c’è il ritratto di un prete paleocristiano….

    A parte che bisessuale è un orientamento sessuale che non ha nulla a che fare con il proprio corpo ma con quello del partner… mentre lei lo usa al posto di intersessuale…

    Ma esattamente, la esegesi di una favola neolitica riscritta nel medioevo e che speriamo riscrivano presto in termini più contemporanei, in che modo influenza la psiche, visto che ormai nessuno la legge?

    Rispondi

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