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“A” di Albo degli Psicoterapeuti

30 Gen 22

A cura di dinange

Siamo tutti iscritti all’albo. Essere “lì” per tutti gli psicologi rappresenta oggi un segno di distinzione e di appartenenza. Molti di voi giovani però non sanno che quando ho cominciato a lavorare io l’albo non c’era.

Non c’era ed eravamo in tanti a non volerlo. Ricordo un grande convegno organizzato dalla SIPS a Bologna all’inizio degli anni ’70 in cui l’apertura o meno all’albo fu posta ai voti ad una grande platea di iscritti e simpatizzanti e, a stragrande maggioranza, votammo “no”; ricordo anche che in sala, in mezzo a tanti giovani c’era anche il vecchio Musatti, che si astenne. Erano altri tempi! le nuove identità professionali non avevano bisogno di marche corporative per emergere mentre le vecchie professioni della psichiatria andavano in profonda crisi; e fu l’antipsichiatria – almeno dalla mie parti in Emilia – a volere lo psicologo nei suoi nuovi organici.

L’Albo passò molto tempo dopo per iniziativa di Ossicini (un medico!), in un momento di “riflusso” e di profonda deidealizzazione: si articolò in due tronconi: gli psicologi e gli psicoterapeuti; e la sua istituzione pose le premesse per questi ultimi di una massificazione della formazione e di una rapida messa in mora del processo formativo precedente, basato su un rapporto molto più artigianale e ravvicinato fra maestro e allievo psicoterapeuta.

Oggi (2006) l’albo contiene oltre 50.000 iscritti che costituiscono il nostro universo professionale, la base (teorica) di coloro che dovrebbero eleggere gli istituti della neonata corporazione degli psicologi: Eh si! perché Albo e Ordine rimandano immediatamente all’istituto della corporazione.

Nel medioevo le corporazioni erano lo strumento che i nuovi lavoratori urbani si erano dati per tutelarsi contro la concorrenza, per definire dei percorsi interni, certi e condivisi di crescita professionale, etc.-

Oggi le basi economiche sulle quali erano nate illo tempore le corporazioni sono state ampiamente superate da una società che poggia il proprio essere proprio sulla concorrenza e sul libero mercato. “Che ci azzeccano” allora oggi le corporazioni? e perché in particolare questa tardiva nascita della corporazione italiana degli psicologi, con relativo albo?

In generale si tratta di un retaggio dei privilegi di cui le vecchie corporazioni hanno continuato imperterrite a godere per tutto il novecento, nonostante un clima economico profondamente mutato, come dicevamo prima. Di una rendita di posizione che lo stato italiano ha continuato a tollerare e che l’Europa oggi va mettendo in crisi.

In particolare, nel nostro caso, si è trattato del rapido solidificarsi di un insieme di tutele che apparentemente vanno a vantaggio (corporativo) dell’universo degli iscritti, contro falsari e mestatori; in effetti a me appaiono sempre più come l’istituzione di mura e steccati interni, che mirano a frantumare la comunità professionale, più che a unirla: i vecchi contro i giovani; quelli del 'pubblico' contro quelli del 'privato'; i formatori contro i professionisti; e questi ultimi contro l’accademia che, sorda ad ogni richiamo alla moderazione, continua a sfornare neolaureati in barba ad ogni reale esigenza di mercato.

Le domande che a mio avviso tutti noi – vecchi e giovani – dobbiamo porci oggi sono queste: quale funzione esercitano realmente oggi l’Albo (e l’Ordine)? E se – come io sospetto – non svolgono più neanche quelle funzioni corporative di tutela, sono essi emendabili? Possono cioè essere ricondotti ad una qualche logica che li renda compatibili con le nuove esigenze della realtà postindustriale che l’Europa un po’ ci suggerisce, un po’ ci impone?

Per quanto mi riguarda, mi convinco sempre più che un profilo identitario forte oggi non avrebbe più bisogno di tutele corporative e che – al di là delle storture specifiche che caratterizzano la nostra corporazione – sarebbe ora di por mano ad un nuovo ordinamento della professione che si basi su istanze di tipo identitario meno difensive e più centrate sulle reali fondamenta del nostro essere psicologi: sullo zoccolo duro della nostra appartenenza, e non sulla scorza corporativa che ci hanno cucito addosso.

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