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“B” di “biennio propedeutico” a Psicologia

31 Gen 22

A cura di dinange

(già pubblicato su Altrapsicologia, 2006)
Nel vecchio ordinamento in qualsiasi facoltà universitaria per “biennio propedeutico” si intendeva il biennio iniziale in cui erano concentrati gli insegnamenti delle materie fondamentali.
Solo a partire dal superamento degli esami del biennio era possibile scegliere un percorso di laurea: con un coefficiente di elasticità nella scelta degli insegnamenti successivi che variava da facoltà a facoltà.
La recente eliminazione del biennio propedeutico e la sua sostituzione con il triennio che conduce alla laurea breve, seguito dal biennio della “specialistica” (tre più due) ha sconvolto tutto il percorso formativo dell’Accademia italiana.
Riflettere sui pregi e sui difetti dell’uno e dell’altro percorso e, prima ancora, sulle ragioni della loro istituzione può essere utile per chi, come noi psicologi, vede la componente storica della propria categoria formata nel crogiolo del vecchio ordinamento e quella più giovane sempre più figlia del nuovo percorso tre più due.
Alla base del vecchio ordinamento c’era innanzitutto una opzione teoreticista che alla fine del biennio propedeutico inviava lo studente ad un triennio successivo (ai miei tempi ad un secondo biennio) in cui alla netta preponderanza del teoreticismo nel primo biennio corrispondeva una opzione altrettanto teoreticista anche nel biennio, o nel triennio successivo.
La spinta teoreticista veniva attutita in quelle facoltà come medicina o architettura in cui era possibile stemperare la teoria in una pratica nei policlinici annessi alle facoltà o sul campo; veniva invece enfatizzato in quelle come psicologia che, quasi a sottolineare la svalutazione della pratica, la espellevano di fatto dal corso di studi, la chiamavano “tirocinio” e la relegavano post lauream, in una specie di limbo fra laurea e professione, al di fuori di ogni credibile percorso didattico, di ogni serio monitoraggio e di ogni istanza di valutazione.
I poderosi processi di cambiamento che attraversarono la società italiana a partire dagli anni ’60 imposero col passare degli anni esigenze di formazione della forza–lavoro a tutti i livelli via via più elevate: l’istituzione della scuola media unica, l’accesso sempre più ampio dei giovani alle superiori, l’apertura delle università a tutti i diplomati, etc., sono lì a dimostrare come ciò sia da lungo tempo ormai nell’ordine delle cose e nelle coscienze dei cittadini.
Anche se va detto che spesso in questi decenni si è avuta l’impressione che, a fianco a queste legittime e – direi – oggettive esigenze di prolungamento e complessificazione dei profili professionali, ci sia stata anche una tendenza da parte dei governi (e non solo in Italia) ad usare la scuola come sylos di manodopera giovanile altrimenti destinata ad elevare la percentuale dei disoccupati e dei sottoccupati.
Certo è che quando il ministro dell’istruzione Berlinguer propose di abbandonare il vecchio ordinamento per passare al nuovo, e cioè al tre più due e alle lauree brevi, suscitò molte attese e si trovò di fronte a tanti consensi:
– da una parte quello del mondo dell’imprenditoria e del lavoro che vedeva nella laurea breve una risposta all’esigenza di avere a disposizione dei “tecnici intermedi” sempre meno critici, e sempre più disposti di operare flessibilmente all’interno della complessità;
– dall’altra gli accademici che, con qualche significativa eccezione[1], non vedevano l’ora di usare lo sdoppiamento dei percorsi per moltiplicare le cattedre e risolvere in chiave baronale l’annoso problema dei dipartimenti. Che in questo modo diventavano delle vere e proprie sine cura vuote e autoreferenziali. Mentre all’origine, e cioè già negli anni ’60, erano stati immaginati dalla parte più illuminata del mondo accademico italiano come risposta all’esigenza di definire dei percorsi interfacoltà capaci di rispondere alle nuove e più poliedriche esigenze di mercato;
– dall’altra ancora i giovani che ormai in misura crescente cercavano di accedere all’università, ma che spesso vedevano i propri sforzi infrangersi contro il muro teoreticista che ancora si ergeva severo di fronte a loro. Severo, sordo ad ogni anelito di novità proveniente dal mondo del lavoro ed incapace di coltivare una vera nuova classe di professionisti.
Nacque così la licealizzazione dei percorsi di laurea che con la coriadolizzazione degli insegnamenti e la retrostante frantumazione del sapere nei moduli è alla base del nuovo ordinamento.
Cosa ha significato tutto ciò per noi psicologi? Per capire ciò che è accaduto nei nostri percorsi formativi non si può non iniziare da quella divaricazione iniziale fra accademia e professione che ha caratterizzato la nascita della psicologia in Italia e che tanti guai ha creato in seguito.
In base a questa divaricazione si sono creati nel tempo due mondi contigui ma scarsamente permeabili fra di loro, che trovano il loro punto di massima debolezza proprio nell’istituzione della laurea breve di psicologo junior, inventato a tavolino dall’Accademia in totale discrasia col mondo della professione, che non sentiva assolutamente l’esigenza della definizione di questo profilo.
Ma soprattutto nella totale ignoranza delle esigenze del mercato del lavoro, che invece imponevano (e impongono) la definizione di ben altri profili professionali limitrofi e complementari a quello dello psicologo. Cioè quelli (per rimanere nel campo della clinica dell’età evolutiva cui appartengo) del logopedista, dell’educatore professionale, dello psicomotricista, dell’arte-terapeuta, del mediatore interculturale, del mediatore familiare, etc. etc.
Non traggano in inganno le postume contorsioni del nostro Ordine professionale sull’argomento “junior” per sganciarsi dal mostriciattolo che nel frattempo era stato partorito, col suo sostanziale assenso, dal MIUR e dai presidi delle facoltà di psicologia. Assenso e successive contorsioni che rimangono solo come segno della sostanziale inanità di questo organismo che ormai rappresenta solo gli interessi ultra-corporativi di una camarilla di professionisti della politica professionale.
Va detto a onor del vero, che sul piano del rapporto fra teoria e pratica l’istituzione del semestre di tirocinio in itinere che accompagna il percorso di laurea breve è sicuramente un elemento positivo che – in un quadro che rimane profondamente negativo – lascia intravedere cosa potrebbe significare sul piano formativo una reale coniugazione fra questi due aspetti del nostro sapere.
Se non altro ora gli studenti del 4° e del 5° anno cominciano a farsi un’idea di cos’è il lavoro dello psicologo, di quali sono le emergenze reali della professione; anche se permane, di fatto, la sostanziale non presa in considerazione da parte dell’università delle enormi esigenze che sul piano didattico comporta per il tirocinante e per il tutor avanzare lungo questo versante della formazione, per la prima volta pratico, e per di più individualizzato, intimo ed asimmetricamente ravvicinato.
La persistente assenza, nonostante la moltiplicazione delle cattedre, di percorsi di dipartimentazione dei saperi, a fronte di terreni comuni di lavoro che impongono anche in molti settori della psicologia la vicinanza e la complementarità con laureati di scienze affini, è forse l’elemento più aberrante dell’ordinamento universitario italiano.
Ci si intestardisce a segmentare il proprio orticello non vedendo che l’abbattimento degli steccati e la cooperazione -come poi avviene nel lavoro interprofessionale di rete!- arricchisce tutti e pone tutti nella possibilità di fornirsi di strumenti scientifici e di intervento di gran lunga superiori a quelli che è possibile mettere a punto nel proprio orticello.
Per noi psicologi clinici questo vorrebbe dire andare nella direzione della collaborazione con sociologi, antropologi, antropologi urbani, pedagogisti, etc … – E altrettanto – ne sono sicuro – potrebbe avvenire nelle altre aree della psicologia.
In definitiva il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento per noi psicologi (così come del resto per le altre professioni) significa misconoscimento delle basi teoriche del nostro sapere! un rovesciamento adialettico della vecchia impostazione teoreticista che non sta in piedi e che è destinata a farci scadere definitivamente sul piano professionale.
A mio avviso sarebbe molto più onesto definire due percorsi distinti: uno centrato sulla laurea breve destinato a rifornire il mercato di tecnici capaci ed adeguati alle esigenze reali che vengono dalla società (altro che junior!); l’altro che formi gli psicologi.
Entrambi questi percorsi vanno centrati sulla rilevanza scientifica del sapere trasmesso. Entrambi vanno incardinati sull’oggi e sul domani della psicologia, sulla connessione della teoria con la pratica, sulla implementazione della qualità della formazione a partire da una continua opera di confronto e di scambio fra accademia e professione.
Sul piano del tirocinio, a partire da queste timide prime esperienze in itinere occorrerebbe: partire dalla concezione che i tirocini fanno parte integrante del percorso formativo universitario; trasformare il tirocinio in momento di “raccordo intergenerazionale“ fra psicologi, collocarlo in itinere ben all’interno del percorso che porta alla laurea; spingere l’università a pianificare la ricerca dei luoghi di tirocinio ed a considerare i tutor come un prolungamento del proprio corpo docente.
Infine è inutile dire che la vera specializzazione, che andrebbe garantita a tutti (e non solo agli psicoterapeuti) è quella post lauream che andrebbe però accorciata, qualificata, legata alla professione, embricata con luoghi artigianali di crescita.
Percorsi in cui cioè la bottega artigiana torni ad essere il fulcro della formazione: cfr. a questo proposito il più recente: Facoltà di psicologia e tirocinio: per un nuovo inizio
 

[1] Cfr le posizioni dei consulenti del ministro Berlinguer Guido Martinotti e Roberto Moscati
 

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