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“D” di dottori (e dottorini)

3 Feb 22

A cura di dinange

(2007)

Il termine “dottore” non ha sempre significato la stessa cosa. Ad esempio ai miei tempi (a parte medicina) in tutte le facoltà per diventare “dottore” ci volevano quattro anni: i primi due ci vedevano impegnati nei fondamentali delle materie più nucleari del futuro mestiere; mentre negli altri due si approfondivano gli elementi di quella che oggi si chiamerebbe la “specialistica” che avevi scelto.
Io nell’anno accademico ‘63/64 mi ero iscritto alla neonata facoltà di sociologia di Trento che, almeno sulla carta, era sperimentale e incentrata su un rapporto nuovo (per l’Italia!) fra teoria e pratica. In effetti poi scoprii che anche Sociologia di fatto si basava – come le altre facoltà – su un teoreticismo esasperato che rimandava ogni approfondimento pratico ad un “poi” che coincideva con il lavoro.
L’assenza di un tirocinio pratico che precedesse il lavoro però a quei tempi non importava praticamente a nessuno perché fino all’inizio degli anni Sessanta l’ambito di coloro che si iscrivevano all’università equivaleva – tolti proprio i più incapaci – a quello di coloro che provenivano dalle classi alte (selezione di censo) ed il fine dell’accademia era quello di forgiare una classe dirigente organica alle esigenze di quello stato paleo(capitalistico, industriale, etc.) di cui in fondo tutti gli aspiranti dottori facevano parte, diciamo così, per nascita.
A partire dal boom (1960\62) però le cose cominciarono rapidamente a cambiare: uno stato neo (capitalistico, industriale, etc.) andava nascendo nelle viscere dei vecchi apparati e le componenti più dinamiche di questo nuovo agglomerato di ideali e di interessi cominciavano ad avvertire che da una parte la nuova classe dirigente doveva essere forgiata in base ad esigenze che la vecchia accademia non era più in grado di garantire, dall’altra che le mutate condizioni sociali ed economiche esigevano l’innesco di un processo di mobilità verticale a tutti i livelli.
Cosicché gli anni che precedettero il ’68 italiano coincisero con l’arrivo per la prima volta all’università di una massa di giovani provenienti dalle classi medio – basse, selezionati non più in base al censo, ma al merito.
Giovani che si aggiunsero e si confusero con i figli di papà e che – insieme ad essi e alle componenti più dinamiche della scuola e dell’università – furono ben presto gli attori critici (inizialmente spesso ipercritici) di quei mutamenti che poi permetteranno all’Italia di affrontare le sfide di fine secolo.
Sociologia era nata, per iniziativa di un gruppo di industriali e di accademici in un convegno sugli squilibri territoriali[1] che – se non ricordo male – si era tenuto nel ’61 – e cioè in pieno boom – a Saint Vincent. E, sia pure con un po’ di ritardo, dopo il ’68 il processo che investe le università, e in particolare quelle facoltà in cui si comincia finalmente anche in Italia a masticare qualcosa che ha a che fare con le scienze umane, è incentrato su di una più stretta relazione fra insegnamento e società.
Ricordo che, pochi anni dopo, noi primi psicologi operanti nel ‘pubblico’ spesso venivamo chiamati dagli studenti di psicologia a discutere su temi quali “Il ruolo dello psicologo nella società”. Così come ricordo che, almeno negli intenti delle migliori menti dell’Accademia, temi come quello del rapporto fra teoria e pratica, preoccupazioni volte ad innescare processi di ricerca e di pratica inter-dipartimentale e inter-facoltà, fossero sentiti nei primi anni ’70 come importanti e decisivi per il futuro di questa nuova classe dirigente che ora non era più destinata ad occupare solo i gradi alti delle varie organizzazioni, ma ad innervare ogni anfratto di una società molto più complessa, e meno piramidale di quella che l’aveva preceduta.
Alcuni di noi chiamarono questo percorso “la lunga marcia attraverso le istituzioni” e – devo dire – che se guardo indietro per riflettere su ciò che la mia generazione ha fatto – trovo ancora molto calzante l’incitamento[2] ad intraprendere con vigore questa direzione, anche se poi le cose non andarono proprio e sempre così.
Certo è però che le trasformazioni che sono intervenute in questi 40 anni sono il frutto (anche) di questo spirito da lunga marcia che spinse una generazione di questi nuovi dottori, così diversi da coloro che li avevano preceduti, ad occupare un insieme di spazi di riflessione, di proposta e di pratica dentro e fuori le istituzioni del welfare, spesso a partire dai punti più critici attraverso i quali passava il cambiamento: la scuola, la sanità, la psichiatria, il sociale, la stessa Accademia.
Come i più “anziani” sanno, questa tendenza fu frenata – e a volte impedita – da forti controtendenze che per un verso erano dentro il DNA di questa generazione votata spesso alla distruttività e all’autodistruttività; per altri versi sono storicamente riscontrabili in un insieme di punti di resistenza e di difesa gruppale contro ogni reale cambiamento, che caparbiamente continuarono ad operare sia nella società che nell’accademia italiana.
Lasciando stare le ragioni sociali più complessive che furono alla base di questa resistenza e venendo all’università – cioè al luogo in cui si continuavano a formare i dottori – va detto che dopo un momento iniziale in cui l’accademia sembrò rinunciare allo stile teoreticista che l’aveva caratterizzata fino ad allora, ed anzi a cedere di fronte alle richieste ed agli eccessi del ’68 (càlati juncu ca passa la chìna), a poco a poco riemerse per lo più con i vecchi difetti; e questa riemersione di fatto coincise con l’ abbandono dell’ottica sperimentale e dialettica che tendeva ad unire la teoria con la pratica (in psicologia questa tendenza è percepibile, direi a pelle, nella vera e propria ‘espulsione’ del tirocinio dal curricolo) e a congiungere i vari ambiti dipartimentali (ad es. psicologia sociale, sociologia e antropologia urbana).
Si è arrivati così da ultimo alla istituzione del triennio (cfr.: in questa rubrica la voce Biennio propedeutico) che a fianco a quello dei dottori istituisce – come dicevamo – il profilo dei dottorini in parte in base alle nuove esigenze di una società nel frattempo sottoposta a ulteriori poderosi processi di cambiamento (globalizzazione, conseguente crisi del welfare, etc.), in parte per nascondere i dati inquietanti relativi alla disoccupazione giovanile.
Certo è che questi nuovi dottori e i neonati dottorini non sembrano più in grado di presidiare quegli spazi che i loro padri avevano saputo aprire e far crescere nel pubblico e nel privato.
Le sfide alle quali devono rispondere oggi le nuove generazioni di psicologi, educatori e social worker è quella di ripristinare e reinventare dei luoghi in cui una domanda di “cura”, di educazione e di assistenza (che nel frattempo è cambiata, ma che rimane alta proprio in base ai disastri sociali che sono impliciti nel progetto di globalizzazione neoliberista oggi vincente) possa incontrare una offerta all’altezza dei tempi.
E, prima ancora, la sfida è quella di cercare di comprendere come mai questi professionisti, che dovrebbero essere in grado di riflettere e operare insieme, in effetti hanno perso, o meglio sono stati deprivati (e da chi) di ogni capacità di tipo cooperativo, di ogni disposizione allo scambio paritario e gratuito riducendosi nel “particulare” dei loro percorsi di vita individuale. E ritrovare una dimensione sociale, condivisa fatta di riflessioni e di pratiche sulle opportunità e le domande dell’oggi.
 
 

[1] Incentrato cioè sull’analisi di quell’enorme flusso migratorio interno dal Sud al Nord che in quegli anni stava letteralmente sconvolgendo l’Italia.
 
[2] Incitamento che era di Rudi Dutschke: “una dialettica rivoluzionaria dei giusti passaggi deve concepire la lunga marcia attraverso le istituzioni come un’attività critico-pratica in tutti i campi sociali” (in: Rudi Dutschke e altri,  La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano, 1968)
 

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