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“I” di istituzione

7 Feb 22

A cura di dinange

 (2018)

 
1968 e dintorni: “in quel tempo” furono dati alle stampe in Italia un insieme di testi esplosivi nei confronti delle istituzioni, alcuni dei quali influenzarono non poco la lotta antistituzionale degli studenti e degli operatori dell’allora neonato welfare italiano.
Mi vengono in mente innanzitutto “Lettera ad una professoressa”, “L’istituzione negata” e “Asylums”, “La storia della follia”, “Eros e civiltà” e “La vita contro la morte”, che hanno rappresentato per gli studenti e gli operatori della mia generazione gli emblemi della lotta antistituzionale rispettivamente contro la scuola e l’università, il manicomio e tutte le istituzioni totali, la famiglia e la società. E “La ribellione degli studenti”, che con suo concetto di “lunga marcia attravervo le istituzioni” ha indicato ad un movimento che per altri versi, dopo l’esplosione iniziale, rischiava di implodere, una percorribile direzione ‘di marcia’, che ha permesso la effettiva trasformazione delle istituzioni esistenti, evitando che la maggioranza di noi si isterilisse in vuote contrapposizioni e in lotte contro i mulini a vento.
Nei primi tempi in tutti i campi, ed in special modo in ambito psicologico e psichiatrico, prevalse un modo di operare basato sull’assunto che gli operatori antiistituzionali, antipsichiatrici, etc. si muovessero su un terreno che appariva come al di fuori dalle logiche istituzionali: cioè in una specie di porto franco all’interno del quale coloro che vi mettevano piede erano come mondati da ogni vincolo istituzionale.
Si trattava di una posizione ‘come se’, che fece da volàno al rapido sviluppo del ‘movimento’, e fu all’origine di un vero e proprio fenomeno di massa che qualcuno chiamò poi “missionariato sociale”, basato su di un fare frenetico senza alcun vincolo di orario o di mansione, spesso portando il lavoro a casa senza alcun compenso supplettivo che non fosse quello che derivava dalle gratificazioni che quest’operato militante dava ai singoli e al gruppo di cui si faceva parte.
Va detto però, a scanso di equivoci, che anche nei periodi di maggior furore antistituzionale furono fatte, certo, delle forzature, ma non si arrivò mai a seguire una logica puramente destruens; e ciò per il semplice fatto che, ad esempio chiudere un manicomio non poteva essere fatto senza aver pensato e programmato un insieme di alternative sul territorio all’interno delle quali ci si potesse prendere cura del ‘caso’ in termini non segreganti.
Ciò che all’inizio ci sfuggiva è il fatto che quelle alternative territoriali che noi andavamo inventando erano già ‘istituzioni’, anche se istituzioni di tipo nuovo, inserite nel ‘territorio’. Un territorio inteso non in termini geografici, ma come un luogo composto da un insieme di servizi di tipo nuovo, che solo in un secondo tempo imparammo a chiamare ‘servizi territoriali’.
I livelli di autocoscienza del fatto che anche noi operavamo all’interno di istituzioni, sia pure connotate in termini nuovi rispetto alle istituzioni precedenti, aumentarono mano a mano che si complicavano e diventavano via via più specifiche le nuove esigenze che territorializzazione della cura imponeva. Ciò infatti imponeva da una parte l’esigenza di mantenere i rapporti con gli amministratori, senza i quali le nuove strutture non potevano nascere, dall’altra l’esigenza di costruire una rete di reti che coinvolgesse gli operatori delle istituzioni limitrofe coinvolti nel lavoro di cura: per quanto riguarda l’età evolutiva pensiamo ad esempio ai rapporti con la scuola.
Nasce in questo modo quasi contemporaneamente la coscienza di appartenere ad una singola rete istituzionale e l’esigenza di mettere in connessione questa rete con le altre fino a comporre una rete di reti interistituizonale, che ad esempio in età evolutiva a un certo punto sfocia nella comune stesura delle cosiddette “Intese” che regolano l’accesso dei disabili nei vari ordini di scuola.
Quindi in questa sempre più fitta e autocosciente rete di reti quell’operatore territoriale – che Diego Napolitani aveva definito come “operatore di frontiera” che tende non più ad escludere, ma ad includere le varie diversità – può cominciare a sperimentare quel modello che Deliana Bertani definì “alleanza per ..”, basato su una identificazione operativa col diverso che ora, passata la fase eroica del movimento, può essere condiviso e soprattutto coniugato con gli operatori delle istituzioni limitrofe.
A questa fase aurea però seguì un rapido declino che fu innescato da un insieme di processi che si erano venuti a creare con l’avvento della seconda repubblica, l’abbandono delle politiche keynesiane ed il passaggio al modus operandi neoliberista, che vedeva come un pugno in un occhio la spesa per il welfare. E questo sia per il neoliberismo hard di marca berlusconiana, che per quello soft di marca prodiana: ricordo ancora la prima venuta a Reggio della Flavia Franzoni dopo l’accordo fra PDS e prodiani che, nell’incredulità degli astanti, attaccò i servizi pubblici reggiani descrivendoli come se fossero equiparabili e quelli dei luoghi in cui la DC aveva governato per anni! Cioè equiparando artatamente il welfare social-comunista dei servizi a quello democristiano dei sussidi.
Processi che alla fine portarono ad una profonda trasformazione delle istituzioni in cui operavamo. Stiamo parlando della deterritorializzazione dei servizi, della loro aziendalizzazione, dello smembramento dei grandi contenitori che erano stati alla base della sperimentazione, dell’appalto al privato praticamente di tutti i servizi sociali e riabilitativi, e di una parte crescente di quelli sanitari, della tikettazione delle prestazioni e a volte della loro ‘pesatura’ conseguente al loro inserimento in un confuso modello gestionale che aspirò anche a scimmiottare la Total Quality, e perfino della dismissione di alcuni presidi importanti, quali ad esempio i servizi per gli anziani. E chi più ne ha più ne metta! Il tutto all’interno del nuovo clima che capovolse fin dalle fondamenta qui in Emilia il modo di lavorare e la concezione stessa delle istituzioni.
Infatti da una parte, allo zelo ‘missionario’ che era stato alla base dell’operazione ‘construens’ che portò alla nascita dei servizi, corrispose uno zelo opposto in un’operazione ‘destruens’ che fu alla base della loro distruzione. Dall’altra le istituzioni furono sottoposte ad un’opera di sistematica denigrazione che altro non era se non la spinta iniziale che doveva permettere l’innesco di tutto il processo di cui abbiamo parlato sopra.
Come acutamente mise in luce Pierfrancesco Galli, in psichiatria (e in psicologia, potremmo aggiungere noi) tutto ciò all’inizio avvenne con l’emergere di una doppia leadership: “la prima, che si muove per piani esclusivamente burocratico-amministrativi, completamente sganciata dalla linea operativa, che è assegnata alla seconda, .. dei dirigenti di primo livello, che rimangono ancora sul campo ad operare e che assieme al proprio personale devono  prendere delle decisioni nella quotidianità e che su questa base non hanno più nessuna identificazione  con quegli stessi colleghi che si muovono nei livelli burocratico-amministrativi del sistema”.. “il punto critico”, secondo Galli, “ è rappresentato dal fenomeno della penetrazione dei linguaggi ‘non psichiatrici’ nell’ambito della psichiatria stessa: vent’anni fa  era quello politico, oggi è quello burocratico-aziendale”[1]
Potremmo dire che oggi, con la Buona Scuola e con l’Invalsi, questo viene infine esteso anche all’ultima istituzione che ancora – almeno in certe sue casematte – resisteva contro questa deriva neoliberista, che ha corroso alle radici quelle che furono le nuove istituzioni italiane.
I giovani colleghi quasi non hanno più memoria di questa nostra storia e – quando non si siano ritirati nei loro anfratti privatissimi – abitano, spesso in posizione subalterna, gli svariati luoghi della diaspora: e cioè quelle porzioni di welfare passate al privato no profit o profit.
In questi luoghi essi ritrovano i dirimpettai di quella leadership burocratico-aziendale che – come diceva Galli – presiede ciò che resta (e non è stato ancora svenduto) delle vecchie istituzioni pubbliche. Si tratta anche qui di una leadership burocratico-affaristica, che spesso pensa solo ai denari.
A mio avviso finché nel pubblico rimane questo ceto dirigente assimilabile alla “borghesia compradora” (che vende tutto e non produce niente) è impensabile operare per una ri-pubblicizzazione, poiché l’elemento costitutivo di fondo del vecchio welfare era la sua funzione di “bene comune”. E, come dice Zamagni, non è detto che un bene pubblico sia ipso facto un bene comune: ce lo dimostra – come abbiamo appena visto – la triste storia del declino del welfare nella seconda repubblica.
Ciò che si può e che si dovrebbe fare oggi è una riforma del welfare che miri alla trasformazione del welfare mix in ‘bene comune”. A mio avviso ciò richiede un profondo cambiamento che si basi su alcune regole certe; e cioè:
1. analisi delle reali esigenze del territorio da parte di ‘entità terze’, non coinvolte nella logica degli appalti;
2. verifica del fatto che il pubblico sia o no in grado di rispondere a queste esigenze, così individuate;
3. E, qualora il pubblico non sia in grado di rispondevi, affido di questi servizi per mezzo di pubblici concorsi ad entità private non oligopolistiche, che cioè non controllino il mercato attraverso logiche di ‘cartello’;
3. premiare le strutture che garantiscano formazione permanente e supervisione;
4. laddove sia impossibile creare lavoro a tempo indeterminato (come dovrebbe tornare ad essere, ad esempio, il lavoro nel pubblico) prevedere dei ‘paracadute sociali’ che coprano in ogni caso i lavoratori nei momenti in cui non abbiano lavoro;
5. e, come plafond di base, trasformare la formazione a tutti i livelli ponendo al primo posto la conoscenza e il sapere critico, più che la competenza professionale.

 

 

[1] cit. da Angelini, Bertani: “Le unità operative di psicologia clinica, l’aziendalizzazione e l’accreditamento. alcune note critiche”, da L. Angelini, “Quando saremo a Reggio Emilia. Gli psicologi, il welfare e le trasformazioni della società reggiana dal dopoguerra ai giorni nostri, Psiconline, Francavilla al Mare, 2014
 

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