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Il soggetto collettivo e il pensiero debole

11 Feb 22

A cura di antonello.sciacchi16

Al bivio

Nel 1983 uscì da Feltrinelli un volume collettaneo intitolato al pensiero debole, curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti. Ebbe lunga fortuna; arrivò alla VII edizione. L’accademia recepì il messaggio come variante nichilista di pensiero ontologico in versione heideggeriana su presupposti nietzscheani. Per me un fallimento. Tuttavia, in quel pensiero c’è una “vecchia” novità, sfuggita agli stessi autori: la verità del discorso scientifico galileiano. La preclusione scientifica è tipica dell’accademia filosofica non solo italiana, in versione sia analitica sia continentale. Si fa scienza senza volerne sapere.

Personalmente, condizionato dalla mia pratica psicanalitica, anfibia, a metà tra scienze dure, più oggettive, e storiche, più soggettive, sono più interessato ai fallimenti che ai successi, più alle confutazioni che alle conferme; parto dal presupposto che non tutto il sapere si può sapere, quindi non si può neppure sospendere, come pretende l’epoché fenomenologica. In particolare, presuppongo che, se un discorso non attecchisce, ci devono essere state buone ragioni a ostacolarlo, a prescindere dalla sua validità. Forse 40 anni non sono sufficienti a individuare le ragioni storiche di un successo o di un fallimento. Allora non tento di spiegare il fenomeno del passato, ma di individuare un fenomeno del futuro potenzialmente riconducibile ad esso.

Il discorso futurologico si scontra con una prima difficoltà. Mi trovo di fronte a un bivio tra due soggetti. Quale soggetto convocare per pensare il pensiero debole: il soggetto della conoscenza, cognitivo, o il soggetto della scienza, epistemico? La scelta ha conseguenze filosofiche rilevanti e ben differenziate.
Con il soggetto della conoscenza mi inserirei in un’ottica ontologica, con il soggetto della scienza passerei all’epistemologia.




Nel primo caso adotto la classica logica binaria dell’essere che è – corrispondente al valore di verità del vero – e del non essere che non è – corrispondente al falso, entrambi stabiliti con certezza assoluta. È la logica aristotelica, blindata da ben tre principi di pari forza sintattica: identità (se A allora A), non contraddizione (non (A et non A)) e terzo escluso (A vel non A), dove è un enunciato qualsiasi, vero o falso.

Nel secondo caso entro in una delle possibili logiche epistemiche, i cui valori di verità – più di due, comprendenti vero, falso e indimostrabile – indicano il grado di consistenza del sapere. Sono tutte logiche congetturali che non danno la certezza assoluta della verità o falsità di un enunciato, ma la plausibilità, direi la probabilità, nel senso di verosimiglianza, l’inglese likelihood.

Personalmente, condizionato dalla mia pratica psicanalitica, scelgo la seconda posizione soggettiva, giusto perché si tratta del soggetto della psicanalisi, un soggetto che opera nell’incertezza, come il soggetto della scienza, con un sapere che non sa di sapere del tutto – Freud lo chiamava inconscio. È un soggetto che non se la fa con le verità dell’essere o del divenire[1] all’insegna della certezza categorica, ma opta per congetture falsificabili nel corso del lavoro analitico; comprende persino verità non concettuali, come le verità (che non esistono) di Ladonna o dell’insieme di tutti gli insiemi. Quella scientifica, ivi compresa la verità psicanalitica, è una posizione innaturale, perché divarica la scienza dalla conoscenza. Aristotele e il suo Liceo non gradirebbero.

C’è un motivo ben preciso per non gradire la scienza moderna, galileiana. L’opzione scientifica non è narrativa. Prescinde dalla storiella biblica di Giosuè che fermò il sole. Prescinde dalla narrazione delle cause che producono effetti, come pretende il principio di ragion sufficiente, che racconta come gli effetti si producano dalle cause, generando storie, magari da raccontare in tribunale. La legge galileiana non chiede giustizia; della caduta dei gravi non racconta come cade il singolo grave, perché stabilisce che nel vuoto tutti i gravi, pesanti o leggeri, cadono allo stesso modo, secondo la legge quadratica dei tempi. Nella formula s = ½ gtnon entra la massa.
 
Capisco quanta resistenza debba suscitare una legge scientifica, fino al limite della negazione tipo no-vax. Galilei fu condannato da un tribunale no-vax: la Terra non si muove, cioè non cade. L’immobilità della Terra fu la certezza di cui il pensiero religioso di redenzione dalla caduta nel peccato aveva bisogno. Il pensiero prescientifico si basa su un’eccezione, intorno a cui ruotano gli eventi normali, diversi. Anche la psicanalisi freudiana ha le sue eccezioni: l’eccezione è il padre, l’unico non castrato.
 
Il pensiero debole

Adottando una logica congetturale, per esempio la logica intuizionista, che sospende il principio del terzo escluso, il pensiero scientifico si configura da subito come debole. È debole perché non gode di certezze metafisiche. È debole perché è essenzialmente “fisico”; le sue certezze, soprattutto quelle morali, sono provvisorie, par provision, diceva Cartesio; sono verità contingenti, non necessarie, legate al sapere parziale del momento, valide fino alla prossima confutazione. Per il pensiero metafisico quello scientifico non solo non è certo, ma non è neppure pensiero, come sosteneva Heidegger. “La scienza non pensa”, perché non pensa l’esserci dell’essere. Evviva la scienza, allora, se non pensa secondo schemi filosofici.

La debolezza del pensiero scientifico ha un punto caratteristico di fissazione, anzi di mobilità: per esso non vale il principio di ragion sufficiente, secondo cui ogni evento è l’effetto di una causa, storicamente determinabile. Non vale lo scire per causas, il modello del sapere cognitivo, che il sapere scientifico sospende, mentre o ammette nelle scienze di alto valore sociale come la storia e la medicina. La quale continua a funzionare secondo il modello ippocratico. Per Ippocrate, in Antica medicina, se c’è l’agente morboso, c’è il morbo; se non c’è l’agente morboso, non c’è il morbo e il ripristino delle condizioni di salute. Non avendo il concetto di probabilità, Ippocrate ignorava l’esistenza di falsi positivi, senza il morbo in presenza di supposte cause, e di falsi negativi, con il morbo in assenza di supposte cause.
Questa falla concettuale è intrinseca a tutta la medicina classica, che solo da poco sta risvegliandosi dal sonno ippocratico, ammettendo diagnosi di probabilità. Ancora mio padre, medico nato nel XIX secolo, biasimava le diagnosi di probabilità dei colleghi. Invece, la probabilità, che insegna a ragionare in termini di certezza “media” in regime di incertezza generale, è un dato acquisito dal discorso scientifico, codificato nell’epistolario Pascal-Fermat solo nel 1654, ma non diventato ancora patrimonio comune del sapere filosofico. (Freud parlò di Wahrscheinlichkeit solo nel senso di “verosimiglianza”, non di “probabilità”). Si è certi in media che il lancio di una moneta equilibrata dia Testa in metà dei lanci. Oggi, come evidenzia la recente covidemia, si è ostili all’incertezza probabilistica in nome di certezze fasulle, in genere gradite al potere. Così si giocano i numeri ritardatari al Lotto, vera e propria truffa di Stato.

Dico “in genere”, perché non saprei dire quale sia il vantaggio per il potere del delirio no-vax. Devo ammettere con Freud che nel soggetto moderno esista un’innata tendenza inconscia alla negazione (proto-rimozione o Urverdrängung). È, secondo me, la negazione che nega l’esistenza del soggetto collettivo. Per i no-vax esiste solo il soggetto individuale, causa delle proprie gesta, per lo più esecrabili, fatte passare per espressioni della volontà collettiva. Addirittura Freud ridusse la psicologia del soggetto collettivo a quella del soggetto individuale, cioè del leader (v. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, http://www.psychiatryonline.it/node/9386). Trascurò completamente le interazioni individuali, positive o negative, piccole o grandi, ad eccezione di quelle derivanti dall’identificazione al leader comune. La sua Massenpsychologie fu a tutti gli effetti una monadologia; i soggetti di tale psicologia sono monadi senza finestre, a eccezione di un lucernario sul tetto per prendere luce – leggi, ordini – dall’alto, cioè dal Super-Io.

Promuovere il soggetto collettivo, come quello scientifico, che produce certezze solo probabili, mi sembra il compito principale di un pensiero debole, privo di certezze categoriche aprioristiche. È un programma fuori dal comune, perché pretende promuovere collettivi fondati sull’incertezza, quando tutti i movimenti epocali, dalle religioni alle politiche di liberazione, battono la strada delle certezze dogmatiche. “La verità vi farà liberi”, è il loro motto, già bimillenario (Giovanni, 8, 32). Padre nostro, dacci oggi la nostra probabilità quotidiana; liberaci dalla verità assoluta.[2]
 
Il soggetto collettivo, il nostro capitale sociale

Non si valuta in dollari. “Capitale sociale” è un termine usato dal rieletto Presidente della Repubblica nel giorno del suo giuramento a Montecitorio, il giovedì 3 febbraio 2022; fu analizzato in contesto extra-finanziario da Robert D. Putnam in Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America.[3] Cosa si intende? Ce lo spiega Nancy Everett. “Il capitale sociale è la capacità di risolvere problemi e crescere tramite la formazione di relazioni e reti di fiducia e coinvolgimenti reciproci. Spesso questi specifici rapporti sociali portano a risultati positivi che non sarebbero raggiunti da individui isolati”.[4] Gli autori di riferimento di questo scritto rientrano nella cerchia di N. Luhmann, M. Tomasello ed E. Wilson, il grande mirmecologo, di recente scomparso, cultori a diverso titolo di teorie dei sistemi, basate su interazioni transindividuali.

Conosco e condivido la preoccupazione di Freud di non ipostatizzare il soggetto individuale come soggetto collettivo. In Freud c’era una non piccola punta di vis polemica nei confronti di Jung, che mi è estranea. Soggetto individuale e soggetto collettivo sono soggetti diversi ma tra loro interagenti. L’interazione avviene attraverso un discorso, che costituisce il legame sociale tra soggetti individuali in un soggetto collettivo, secondo la suggestione dell’ultimo Lacan.

Qui si innestano le considerazioni sul pensiero debole e i suoi rapporti con il soggetto collettivo. La “debolezza” si realizza attraverso la molteplicità. La molteplicità è il cuore del capitale sociale, che è in effetti un complesso di sotto-capitali sociali diversi. Il rispetto delle diversità culturali è la base del patrimonio civile così come la biodiversità è l’essenza dei sistemi biologici in ambienti diversi. Non esiste il discorso unico che codifichi il legame sociale “giusto”, con la giusta interazione tra elementi. Esistono tanti discorsi cui corrispondono altrettanti legami sociali differenti, che vantano pari diritti di riconoscimento da parte di tutti gli altri. Lacan segnala quattro discorsi fondamentali differenti: del padrone, dell’Università, dell’isteria e dell’analista.

Lo schematismo lacaniano è semplice e suggestivo. Secondo Lacan, un discorso è una quadrupla di quattro elementi: soggetto, oggetto, significante ontologico o principale e significante binario o epistemico. Delle 24 permutazioni di quattro elementi, Lacan ne selezionò 4, le quattro che costituiscono il sottogruppo ciclico formato dal discorso del padrone, dell’Università, dell’isteria e dell’analista, come ho detto. Non è l’unica formalizzazione possibile, perciò non entro nei dettagli, per i quali rimando al seminario XX di Lacan. Mi basta aver aperto un discorso “debole” che prevede diverse possibilità, vorrei dire, diverse opportunità soggettive.
 
L’etica minima

Che si concludono sull’etica. La domanda è: “Come si accede al capitale sociale?” La risposta è: “Con l’etica, con una particolare etica”.

Vengo a sapere che a Trieste Pier Aldo Rovatti ha aperto una scuola di filosofia che propone un programma pratico di etica minima. Di che si tratta? Alla luce di quanto sopra svolto si tratta di un’etica quotidiana, “debole”, non categorica, non necessariamente uguale per tutti, perché senza Super-Io, senza giudice che giudica in nome di verità certe e universali. È un’etica valida nelle circostanze particolari del qui e ora del quotidiano, non necessariamente universale né generalizzabile. Per essa non vale il criterio di verità della fenomenologia hegeliana: “Il vero è l’intero”. Si tratta – perciò mi colpisce – di un programma antifreudiano. Freud propose, infatti, di raddoppiare il Super-Io. Alla fine del Disagio nella civiltà (v. http://www.psychiatryonline.it/node/9333) ammise un Super-Io collettivo accanto a quello individuale, in nome di un programma più conformista che scientifico. È forse il conformismo il fine ultimo della pratica analitica?

 

[1] Sul piano ontologico Parmenide ed Eraclito si equivalgono, l’uno in versione statica, l’altro in versione dinamica.
[2] La probabilità ha in sé qualcosa che trascende la sintassi. Non si può scrivere; non esiste infatti l’algoritmo per generare numeri perfettamente casuali, come quelli prodotti da un esperimento quantistico. Per definizione, infatti, un algoritmo è deterministico e può generare solo numeri pseudocasuali. Una sequenza algoritmica può avere solo il sembiante della casualità. Così le cosiddette associazioni libere non sono mai casuali, ma hanno un soggetto che le produce. La difficolta a pensare la probabilità è di essere irregolare localmente e regolare globalmente.
[3] Trad. A. Patroncini, Il Mulino, Bologna 2004.
[4] N. Everett, Resilienza sociale, in “Le scienze”, trad. A. Tutino, 642, gen. 2022, p. 74.

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1 commento

  1. renato.carlo.moglia

    L’anno prossimo saranno
    L’anno prossimo saranno passati ben 40 anni dall’uscita del volume collettaneo “il pensiero debole”. I contributi erano molto eterogenei ma vedo che Sciacchitano ha ben inteso, dal suo punto di vista, l’etica di fondo di quel lavoro: l’etica del capitale sociale nella sua molteplicità. Ora ci si dovrebbe chiedere se quel capitale sociale e la sua etica son riusciti a sopravvivere alla guerra, al bombardamento, al tentativo di annientamento a cui sono stati sottoposti in questi 40 anni. Se sono sopravvissuti sarebbe da analizzare in quale forma si svolga oggi la loro vita, il loro bios, e in quale ambiente . Dicevo che nel 2023 saranno 40 anni da quell’esordio e ricordo lo svolgersi (a partire dal n. 60 con un intervento inaugurale di Rovatti) di una rubrica su Alfabeta titolata appunto Debole/Forte ( con interventi di F.Rella e E. Greblo nei nn 62-63,, di G. Jervis, Bottiroli e Illuminati nel n. 64, di G. Franck nel n. 65, di C. Sini nel n. 66, di Vattimo, A. Sciacchitano e Diego Marconi nel n. 67, di R. Gasparotti nel n. 68). Sarebbe interessante riprendere oggi quel dibattito per verificare o falsificare le ipotesi allora sul tavolo, riprendendo di nuovo il senso, la direzione di allora nell’oggi. Oggi, ovvero nel Day After ,interminabile , relativamente all’impatto che l’informatizzazione ha avuto e ha sulle nostre vite e sul rapporto che il capitale sociale intrattiene con quelle che genericamente possiamo chiamare le pratiche del potere. Insomma : che ne è oggi del pensiero debole, e che ne è del postmoderno? Penso che potrebbe tirare le fila di questa “ripresa” oggi il solo Rovatti , magari in compagnia proprio dello Sciacchitano.
    ps : a proposito: la prossima settimana vado al primo di una serie di incontri presso l’univ di Bologna (ideato e tenuto da studenti senza prof) titolato: “Seminario Disperso sui modi di nascondersi”. Primo incontro : “Sociologia Segreta” e il 22 febbr “Cosa significa nascondersi in filosofia?” (e tanti altri a seguire). Nascondersi per sopravvivere……..

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