Recensione di "IN LIMINE a cura di Maria Luisa Califano e Roberto Serino"
Quindici autori.
Un’introduzione.
Una postfazione/intervista.
Duecento pagine di carta patinata battute da caratteri tipografici chiari ed eleganti.
In copertina un’immagine ci conduce verso un dentro, all’interno della suggestiva Villa Oro a Posillipo (di Cosenza e Rudofsky) affacciata sul mare dall’alto di uno sperone di roccia e in cui si passa da un locale all’altro solo salendo o scendendo scale.
Un dialogo tra architetti e psicoanalisti le cui voci si alternano in ordine rigorosamente alfabetico. Alcuni (Capuano (1), a cui dedicherò le righe finali; Sarno, capace di condensare in poco pagine una grande estensione di pensiero; Mattanó, in una colta dissertazione filosofica attorno al non-essere e a nulla negli stili dell’antica Grecia) intrecciano le due discipline, altri, pur restando nel proprio campo di indagine, risuonano degli echi fecondi di due modi di interrogare la realtà e di rispondere alle necessità umane.
Un’esperienza sensoriale che attiva vista, olfatto, tatto, udito per il piacere dei sensi risvegliati dalle pagine che compongono il volume.
Un modo squisitamente psicoanalitico di interrogarsi sul concetto di limite, interfacciato con una molteplicità di saperi e ibridato da conoscenze pluridisciplinari, perché la psicoanalisi non si lascia “maneggiare come un paio di occhiali che si possano mettere quando si legge e togliere quando si va a passeggio” (Freud, 1932), anticipa Califano nelle pagine introduttive agli scritti degli autori da lei coinvolti o, come ama ricordare uno di loro citando André Green, perché la psicoanalisi è anzitutto “un modo di pensare”.
Questo è ciò che ci troviamo tra le mani quando sfogliamo In limine.
Il libro curato dall’amica e collega psicoanalista Maria Luisa Califano e da Roberto Serino, architetto, ordinario di composizione, è stato pubblicato da una casa editrice napoletana, specializzata in architettura, urbanistica, arte e design, e contiene molta mediterraneità, soprattutto nello scritto dello stesso segno e di Andrea Califano, che della casa mediterranea, esempio di “architettura radicata nel luogo”, analizza gli elementi (pavimento, tetto, finestra, ecc.) capaci di integrarsi con il paesaggio di cui diventano parte dialogante.
Un testo che, già dalla fase di elaborazione e dai primi giorni di distribuzione nelle librerie, ha dato avvio a collaborazioni tra architetti e psicoanalisti che siederanno insieme a tavoli di studio e progettazione di spazi e di edifici, con lo sguardo volto a una nuova ecologia dell’abitare. Intento profondamente etico-politico perché la qualità dell’ambiente naturale e artificiale in cui ci muoviamo partecipa della nostra identità e incide sulla nostra storia, è responsabile della nostra nascita sociale e del nostro destino biologico, come l’epigenetica (Marini 2020) e le osservazioni Harold Searles (1960) sulla rilevanza dell’ambiente non umano per la formazione psichica ci spiegano.
L’idea di raccogliere contributi e riflessioni sul tema dell’abitare e del confine interno/esterno è precedente alla necessità di proteggerci imposta dalla pandemia che ci ha costretti a ripensare la gestione dei luoghi di vita e di lavoro, a riorganizzare gli spazi abitativi, lavorativi, di piacere e socializzazione, pubblici e privati; che ha fatto risorgere confini e frontiere che, almeno in Europa, molti di noi credevano di aver lasciato alle bieche visioni di nazionalisti “folli”, illusi di potersi difendere dal contatto/invasione/contagio/contaminazione con l’estraneo/straniero/diverso costruendo muri divisori. La circolazione del virus, infatti, ha ristretto e reso problematica l’area in cui possiamo dire di “sentirci a casa”, al sicuro, protetti, riparati, creando confusione, se non un vero e proprio rovesciamento, tra ciò che è familiare/fidato ed estraneo/pericoloso. Un’inversione perturbante, riconosciuta e rifiutata.
“Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente” diceva Richard Rogers, progettista di edifici che hanno segnato il passaggio dal XIX al XX secolo (Il Centro Georges Pompidou a Parigi, l’edificio dei Lloyd’s di Londra, il Three World Trade Center a New York costruito dalle ceneri delle Torri Gemelle), perché l’organizzazione dello spazio ha l’obiettivo di dare soddisfazione a esigenze consce e inconsce, bisogni primari, istinti, desideri. L'architetto al lavoro, come lo psicoanalista, è strumento del transfert di sentimenti e pensieri inconsci con cui interpreta il nostro essere al mondo, il nostro presente. Architettura e psicoanalisi hanno in comune la capacità di ascolto e la convinzione che ogni processo creativo nasce dalla relazione con ciò che è già stato e ciò che ancora non si conosce e “confluiscono […] nel desiderio di sviluppare un linguaggio associativo, dove pensieri e suggestioni visive, emozioni e resti del passato concorrono alla creazione di opere - architettoniche o psicoanalitiche che siano - vive, capaci di narrare e di farci sognare e pensare” (Scotto di Fasano, Ferroni, 2011). Oltre ad incontrarsi nelle metafore spaziali che gli psicoanalisti hanno costruito per rappresentare l’apparato psichico come una struttura all’interno della quale possono avvenire movimenti e scambi, la dialettica tra mondo interno ed esterno, tra contenitore e contenuto, lo spazio transizionale (M.L. Califano).
Mi muoverò in modo associativo tra i capitoli di In limine e, senza rispettare l’ordine di impaginazione, seguirò il metodo da cui mi sembra si siano lasciati trasportare alcuni autori, nella “concitazione dell’artista” che, dopo essere “entrato nella composizione, segue la traccia del disegno, ne asseconda per un tratto la direzione, ma poi la interrompe per aver intravisto nuovi tracciati da esplorare mentre la progressione di interferenze discontinue si mostra all’improvviso come sostanza stessa di questo affannato operare” (Serino p. 171).
Un vagare nell’ampio campo semantico di limen 1, concetto contiguo e contrapposto a quello di limes.
Limen è la soglia che consente il passaggio, l’elemento della casa che tra-duce dall’interno e dall’esterno, è ciò che rende possibile il rapporto, l’incontro, la comunicazione. Limes, al contrario, è il confine che termina con un luogo.
Se il limes esclude, il limen, territorio di passaggio e di distinzione, rende possibile l’inclusione. La soglia permette l’accesso che il confine impedisce.
Limen è il tra del tra-nsfert e della sua risposta, il contro-tra-nsfert, della tra-duzione e tra-sformazione di ogni tra-scrizione rappresentativa dalla sensazione al pensiero. È la cesura della ben nota citazione di Bion (1974) che parafrasa Freud: “Vi è una continuità molto maggiore fra i ‘quanta’ specificamente autonomi e le ‘onde’ dei pensieri e dei sentimenti consci, di quanto l’impressiva cesura del transfert e del controtransfert ci faccia pensare. Dunque? Indagate la cesura; non l’analista, non l’analizzando; non l’inconscio, non il conscio; non la sanità, non l’insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans)fert, l’umore transitivo-intransitivo” (1974). Lo spazio in cui siamo “mentalmente vivi” (Maccio, Vallino), dove la separazione non crea solo distanza ma anche la possibilità di transito, l’apertura verso altri stati mentali. [Ritorno a capo del testo]
Tutte le molteplici sfumature della locuzione in limine, come “luogo” dello spirito creativo, della sensibilità poetica, della soggettività e della polis, sono state messe al lavoro dagli autori. Dalla soglia architettonica (nello spazio), al limitare (del tempo), perché “due territori si trovano costantemente a confronto: quello esterno a noi stessi [che] a volte si fa piccolo rispetto a quello interno [mentre], altre volte, il territorio esterno interviene e schiaccia il territorio interno” (Pinna p. 155) e i processi psichici, si muovono tra i due estremi della proiezione paranoica e dell’introiezione nevrotica (Ferenczi, 1909).
Il limite è separazione, soglia, spaziatura necessaria di ogni possibilità discorsiva, è la piega riflessiva del soggetto, possibilità stessa di ogni relazione, misura dell’umano. Il senso del limen è l’apertura originaria del pensabile, l’evento della cultura che nella pratica architettonica si traduce concretamente nella costruzione delle mura (Vecchio p. 166-168).
Dal titolo passo alla post-fazione: Cosimo Schinaia, rispondendo alle domande dei curatori, ci restituisce il valore e la pregnanza della fertile collaborazione tra le due aree disciplinari e ribadisce quanto sia necessaria la “costituzione di uno spazio elaborativo trasversale” (p. 183) dialogante che sappia rispondere alle richieste che la complessità odierna ci pone.
Secondo Schinaia gli adattamenti resi necessari dall’attualità si sono iscritti in una evoluzione già in atto nel modo di pensare, progettare, vivere gli spazi, frutto delle interconnessioni tra psicoanalisti e architetti che, superate le contrapposizioni, hanno saputo coniugare passato e presente, individuale e collettivo, noto e ignoto. Un “miscuglio di nostalgia e anticipazione estrema”, come Baudrillard (2003, cit. da M. Capuano p. 52) descriveva l’architettura, di novità che sconcertano e impressionano tanto da provocare, a volte, un iniziale rifiuto e, allo stesso tempo, centrano il punto perché rispondono ai bisogni dell’uomo e del tempo.
Proprio le soglie, ci dice lo psicoanalista genovese, stanno riconquistando un ruolo di primo piano; gli spazi necessari, anche protettivi, di separazione e passaggio dall’interno all’esterno e vice-versa, dal prima al dopo, dall’intimo al pubblico, piccolo/grande, allievo/maestro. Corridoi, anticamere reali e simboliche, riti di passaggio, aree transizionali che non possono essere né eliminate, né troppo ristrette o abbreviate, come i cambiamenti culturali messi in moto nei decenni appena trascorsi spingevano a fare. È necessario all’umano mantenere un’area intermedia, transitabile, dove sia consentito sostare, esitare, attendere il tempo necessario prima di passare al di là.
Del tempo in cui viviamo ci parla Sarantis Thanopulos. Attraversando i temi che più gli sono cari e muovendosi tra diverse soglie, ci accompagna a vedere che solo nell’area in cui “coesistono senza tensione” il tempo lineare della veglia e il tempo circolare, eterno, dell’inconscio, è possibile l’esperienza potenziale della percezione affettivamente investita e creativa della realtà.
Con dispiacere, Thanopulos ci segnala le conseguenze dell’ “eclissi di kairòs”, come intitola il suo scritto, del tempo potenziale che è sempre inattuale, che “ci aggancia al tempo tragico: il futuro anteriore (come andrà a finire: predizione e incertezza) nella forma di memoria del futuro: presentire, immaginare, intuire ciò che accadrà, configurandolo come potrebbe accadere. Sostare nella mancanza come apertura all’essere che ci impegna nell’attesa trasformativa di sé …”. Non ricordiamo il passato e da esso non impariamo perché abbiamo perso la “memoria del futuro”, che insieme alla memoria del passato costituisce la continuità del nostro Sé, e questo ci impedisce di stare nel tempo opportuno, nell’hic et nunc, in quel presente da cui il futuro si sviluppa.
Memoria del futuro, la trilogia bioniana, sono i dialoghi tra personaggi immaginari che parlano tra loro e con sé stessi, cercando di afferrare e illustrare la realtà psichica, il tempo interiore del kairòs. Il tempo della cura analitica che, come opportunamente rimarcano Laura Ambrosiano e Eugenio Gaburri (2013) “è innanzitutto un recupero del futuro […] perché è alla ricerca delle possibili prospettive di sviluppo del singolo e del gruppo”.
Dalla definizione di limite avvia la sua riflessione anche Paolo Cotrufo puntualizzando che, sebbene sia un concetto inaugurato dalla logica aristotelica, “tutto ciò che ha a che fare con i limiti, i contenitori, i confini, le superfici, le barriere di contatto” da qualche decennio è al centro della riflessione teorica e clinica della psicoanalisi e il funzionamento della maggior parte dei pazienti - degli esseri umani - è collocato tra i cosiddetti casi-limite o border-line, tanto che l’area intermedia compresa tra le strutture psicopatologiche è diventata la più densamente popolata.
Una metafora di Cotrufo vivifica la spiegazione dell’idea di limite più conosciuta in Freud (1915), quella usata nella definizione del concetto di pulsione, al “limite tra lo psichico e il somatico”. Lo psicoanalista napoletano ci invita ad immaginare “che il soma e la psiche partecipino alla determinazione della pulsione […] come un albero […] cresciuto al confine tra due terreni che danno in nutrimento il proprio suolo […]. Magari la fonte e la spinta della pulsione sono radici che affondano nel terreno del soma, mentre la meta e l’oggetto sono radici della pulsione che insistono sul terreno psichico. Ergo: i frutti e le efflorescenze dell’albero pulsionale sarebbero prodotti del limite tra psiche e soma …”. Scena che mi evoca l’agrumeto sul confine Cisgiordano nel film di Eran Riklis Il giardino di limoni, nutrito da “due terre” che sono la stessa terra, artificiosamente suddivisa tra territori palestinesi e israeliani, fertile suolo, custodito e protetto da una donna, che la miopia e la paranoia del Ministro della difesa farà sostituire da un muro di cemento.
Di muri (o reti metalliche) e confini mutevoli ci parlano anche le pagine militanti di Antonio Angelillo che osserva gli effetti della barriera costruita nel ’47 (poi abolita con l’allargamento dell’EU) per dividere politicamente Gorizia tra Italia e quella regione della ex-Jugoslavia che oggi chiamiamo Slovenia (l’ovest dall’est, il capitalismo dal comunismo) senza, tuttavia, creare una vera e propria frontiera, perché poggiata su un territorio composito tanto da assumere “la caratteristica di una fascia di incontro dove hanno confluito due mondi, anzi tre […] uno spazio di condivisione e dialogo”, e del perimetro abbattuto dalla riforma Basaglia che ha integrato i malati psichiatrici nel tessuto cittadino, mantenendo dentro i confini istituzionali solo la cura, non più la vita. Mentre Sara Marini ci accompagna a capire come nel tempo il muro abbia assunto un ruolo centrale nel caratterizzare le abitazioni prendendo il posto del tetto che è stato nei secoli sinonimo di casa, riparo, rifugio e ci illustra alcune interpretazioni ed evoluzioni dell’elemento murario realizzate da grandi architetti chiamati a soddisfare desideri ed esigenze specifici.
Pensare alle differenze che ibridandosi danno vita alle novità più feconde e promettenti è ciò che propone il concetto di confine articolato da Virginia De Micco. A partire dall’esperienza psichica primaria del neonato, i cui confini si costruiscono nei processi di scambio e transizione attivati da tutti i soggetti che con lui si relazionano. La separazione tra Sé e non-sé si struttura proiettando all’esterno tutto ciò che è male, spiacevole, cattivo, ‘strano’, pericoloso e sconosciuto e trattenendo all’interno solo ciò che è buono, bello, noto e culturalmente conforme, fidato e familiare.
Come solo grazie alla rêverie materna l'esterno può animarsi di oggetti buoni, anche la comunicazione tra mondi e culture diverse potrà scampare al ritorno del rimosso e all’identificazione proiettiva solo mediante uno sforzo costante di elaborazione delle aree cieche da entrambe le parti. Le culture vicine, confinanti, le più simili e più in lotta tra loro, sono proprio quelle che si caricano reciprocamente di differenze rinnegate e di estraneità. Chi attraversa le frontiere superando a ritroso “le colonne poste da Ercole […] [come] segno differenziante tra mondo conosciuto e mondo sconosciuto, tra sicurezza e pericolo”, “tra ciò che è noto e rassicurante e ciò che è ignoto e popolato da fantasmi persecutori”, oggi rappresentate della Porta d’Europa di Mimmo Palladino (M.L. Califano p. 25), im-migra ed entra nell’area da cui in passato soltanto si usciva. Se non ha le condizioni per stare nella parte egemone, finisce per trovarsi in uno stato di “doppia assenza” (p. 95), sia dal paese di origine sia da quello ospitante/rifiutante. Infatti, quando diventa impossibile insediarsi perché le condizioni abitative mantengono il carattere della precarietà, non ci si può sentire ‘a casa’, sicuri, protetti, riparati, neanche dopo anni: la posizione raggiunta nel paese di adozione resta fragile ed è continuamente a rischio di essere perduta. Allo stesso tempo, la presenza di immigrati fa sentire meno a casa e meno al sicuro anche chi è nato e cresciuto nel paese che li accoglie/rifiuta: crea una doppia estraneità confondente e carica di conseguenze pericolose.
La casa “luogo psichico, relazionale e simbolico”, l’ambiente che sentiamo nostro, elemento identitario che riunisce i simili; usiamo la locuzione ‘senza casa’ (homeless), sinonimo di ‘senza tetto’, perché il tetto è stato nei secoli l’elemento primario del luogo di riparo (Marini p. 101), per indicare vagabondi, profughi, sfollati, indigenti. Persone, come noi, ma che sentiamo profondamente diverse, lontane ed estranee, in cui rifiutiamo di rispecchiarci.
La prima casa che abitiamo, il corpo della madre, da cui ci allontaniamo sperimentando la cesura che è matrice di tutte le successive, il taglio, la pausa ritmica tra un prima che si prolunga in un dopo, nell’ambiente di contenimento fornito dalla funzione materna il cui “sentire originario anoggettuale, atmosferico estatico […] migra, si estende sull’ambiente esterno”. Così, le parole poetiche di Sisto Vecchio, che riportano la scena schermo di un tra-sloco, riconoscono l’origine della soglia tra familiare ed estraneo di ciascuno disegnata sulla traccia inconscia delle sensazioni avvertite e trasmesse nella relazione con chi ci ha portato in grembo.
È questa la base, aggiunge Vecchio, che ci guiderà, tra continuità e discontinuità, per la vita nelle costruzioni, che saranno sempre anche ri-costruzioni, per tornare alle atmosfere del luogo delle origini, in ambienti che ci facciano sentire sicuri, protetti, “a casa nostra”, al paradiso che abbiamo perduto con l’uscita nel vasto giardino che ci accoglie, l'esterno da noi (Capiello p. 55). “Forse gli architetti ereditano il ruolo della madre che propone oggetti” suggeriva Marta Capuano in un seminario del Centro Psicoanalitico di Roma.
È questo lo spazio originario su cui diserta Paola Galante che vede l’equivalente della ricerca di sé nella ricerca di uno spazio di intimità dentro le architetture che designano l’uso delle aree che costruiscono attribuendo loro un nome.
La casa, che nei sogni e nei disegni raffigura il Sé, lo schema corporeo - “la scatola muraria [ha] a che fare con il corpo” scrive Marco Sarno (p. 109) - che contiene il mondo interno e la vita familiare, rappresentazioni che si diversificano e complessificano con l’evoluzione soggettiva. La casa, trascrizione reale di un ideale di vita, che parla di chi la abita, svelandone gli interessi, le passioni, la posizione socio-economica-culturale, sin dal tempo paleolitico quando gli uomini adornavano di graffiti le pareti delle caverne in cui trovavano rifugio; la casa in cui il corpo abita e costruisce attorno a sé le condizioni dell’agio; la casa che, come la pelle del nostro corpo, ci restituisce un’immagine unitaria di noi stessi, ci difende dalle intrusioni dell’esterno e ci permette il contatto con gli altri (Anzieu, 1985).
Abitare è il nostro modo di essere, abitiamo il «frammezzo» (Heidegger) e le pareti che erigiamo sono luoghi di conflitto, di tensioni che si incarnano nell’idioma che ci è proprio, destinati ad abitare «sulla oscillante bilancia dell’equilibrio» (Vecchio p. 168).
Chiudo questo sorvolo tra alcune suggestioni fornite dagli autori di In limine con una nota sulle pagine avvincenti di Marta Capuano che, muovendosi tra psicoanalisi, architettura, arte e cinema, mi ha immerso in risonanze familiari. A partire dall’interrogazione sull’utilità dell’architettura disegnata nella citazione di Lebbeus Woods, che valorizzava il disegno presentandolo ai suoi studenti come “la più alta e chiara espressione dell’architettura” (p. 47), perché “l’architetto pensa con la matita in mano”, come piaceva ripetere a un amico, ordinario di composizione, nelle sue animate discussioni. Fino all’attenzione alle “parti della città periferiche e poco qualificate, dismesse per incuria o per decadimento di funzioni” (p. 50) prestata dall’artista, i cui disegni futuristici, mirabili per la precisione tecnica, dove l’estetica è spinta oltre i limiti (p. 52) servono da spunto alla riflessione sviluppata da Marta Capuano, che pone al centro la questione più appassionatamente studiata e dibattuta dall’urbanistica contemporanea.
Il limes mi impedisce di superare le pagine previste e, giunta a questo punto, non posso che invitare chi ha avuto la disponibilità di seguirmi a proseguire con la lettura del testo generosamente curato da Califano e Serino.
BIBLIOGRAFIA
Ambrosiano L., Gaburri E. (2013) Pensare con Freud, Raffaello Cortina, Milano
Anzieu D. (1985) L’Io-pelle, Borla, Roma
Baudrillard J., Nouvel J. (2003). Architettura e nulla. Oggetti singolari, Electa. Milano
Bion W.R. (1974). Il cambiamento catastrofico, tr.it. Loescher, Torino 1981.
Capuano M. Una visione d’insieme su Darwinismo Architettonico in: Psicoanalisi ed Arte: un
fertile incontro. Ciclo di seminari organizzati dal Centro Psicoanalitico di Roma
Ferenczi S. (1909) Introiezione e transfert, tr. it. Guaraldi
Freud S. (1915) Pulsioni e loro destini, OSF 8
(1932) Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni) Lezione 34 - Schiarimenti, applicazioni, orientamenti OSF 11
Macciò M., Vallino D., Bion, la cesura e la cesta di Newton,
Marino M. (2020). Riflettere sull’abitare. Intervista a Carlo Sini,
https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Riflettere_sull_abitare.html
Scotto di Fasano D., Ferroni A. (2011). Una salita a scendere, Riv. Psic. (57)(3):773-782
Searles H. F. (1960). L’ambiente non umano, Einaudi, Torino. 1968.
(1) Mentre scrivevo queste note, mi è giunga la triste notizia dell’improvvisa morte di Marta Capuano, collega molto stimata e autrice di un saggio qui contenuto in cui si respira il suo idioma vivo, ricco di suggestioni sempre emozionanti e creative. Alla sua memoria vorrei dedicare questa recensione.
(2) Riporto dal dizionario latino: līmĕn, -ĭnis - 1. limitare, soglia, ingresso, uscio; 2. confine, frontiera; 3. casa, dimora; 4. principio, inizio, esordio; 5. linea di partenza; 6. sbarra, steccato; līmĕs, -ĭtis: 1. limite; 2. confine; 3. differenza; 4. frontiera, baluardo, bastione; 5. sentiero, via, strada; 6. tratto, traccia; 7. vena