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In memoria di Maria Immacolata Macioti (1942-2021) Sociologa degli ultimi.

25 Feb 22

Di Sergio-Mellina
Giusto trent'anni orsono, usciva il n. 104 de “La Critica Sociologica” (Roma), la Rivista di Ferrarotti, che riportava puntualmente e diffusamente le ultime novità apparse nel panorama sociologico italiano e mondiale del trimestre invernale 1992-1993, fra le quali la presentazione di un libro curato da Maria Immacolata Macioti, “Per una società multiculturale” il cui vernissage -se cosi si può dire -si tenne a Palazzo Valentini di Roma, sede dell’amministrazione provinciale di allora. Questo è il pretesto, il capo del filo che mi vede legato alla Macioti, perchè nella circostanza fui tra i tre relatori della presentazione ufficiale, ma il primo e vero motivo, è il desiderio di ricordare Maria Immacolata Macioti, maestro illustre e sapiente di sociologia. “Minette”, per i più vicini collaboratori, ci ha lasciati il 10 luglio 2021. Una perdita enorme e improvvisa. In moltissimi l’hanno ricordata e non è ancora trascorso un anno. Per quel che risulta e me e a Chiara, mia figlia, – “Minette” – è stata una ricercatrice infaticabile e tenace, ma il suo stile, la sua inventiva geniale, il suo garbo, la sua gentilezza, non disgiunta da quel fonema della sua erre bagnata alla francese, appena scivolata, per non disturbare e celare delicatamente i suoi legami comitali, sapevano motivare tutte le persone che hanno avuto la fortuna di lavorare con lei. Io sono stato a lungo fra costoro e in più occasioni, per via dei temi complessi dell’immigrazione straniera in Italia, sui quali avevo iniziato ad interessarmi fin dalla fine degli anni Sessanta, del secolo passato, lavorando nei manicomi della Sardegna.

Per quanto ne so io, Maria Immacolata Macioti (1942), “Minette”, ha inventato la sociologia della condizione dei lavoratori stranieri immigrati in Italia, in una “task force” sociologica, nello storico “Planetario” di Roma in piazza Esedra, quando ospitava la Facoltà di Magistero. Correva l’anno 1989, e lei vi tenne un Convegno, il primo, a quanto mi risulta, intitolato “Per una società multiculturale” Furono tre giorni di novembre dal 20 al 22, densi di idee e di riflessioni teoriche, ricerche empiriche, indirizzi di lavoro, proposte pratiche, intorno a un tema assolutamente nuovo per l’Italia: gli immigrati! Ma come? Noi lo siamo stati dall’unità d’Italia … “partono i bastimenti per terre assai lontane …” cantava una vecchia canzone. Che succede? Come mai, da terra di emigranti, siamo diventati mèta di approdo della migrazione altrui? Di queste e di molte altre domande relative alle condizioni di lavoro, all’accesso alla tutela della salute e dei diritti minimi degli immigrati si era fatta interprete “Minette” Macioti, trascinandovi dentro studiosi e accademici importanti di varie discipline, per discutere proprio i temi della nuova multiculturalità italiana. Dal canto mio, fui coinvolto dai Colleghi Virginia De Micco e Giuseppe Cardamone, venuti a Roma per presentare un loro saggio “Il corpo che migra. Soggetto, malattia, immigrazione” al convegno della Macioti.


 

A me, che fui presente allora, parve d’intendere – mi si perdoni l’irriverenza del raffronto – una piccola eco di “Woodstock ’69”, sotto l’ampia volta della sala ottagona delle storiche Terme di Diocleziano. Più concretamente, nell’introduzione de libro “Per una società multiculturale” apparso da Liguori nel 1991, da lei stessa curato, Maria Immacolata Macioti scriveva, ricordando l’evento: «Questo testo pur con tutti i suoi limiti, si propone di superare questa possibile dicotomia (tra riflessioni teoriche ed esperienza pratica sul campo n.d.r.) offrendo tanto delle linee teoriche di interpretazione quanto una migliore, relativa conoscenza della realtà e dei problemi della immigrazione in Italia. Si avvale dei contributi interdisciplinari di sociologi, antropologi ed etnologi, studiosi di psicologia e medicina, giuristi che s’interrogano intorno a tematiche di grande attualità: come e perché sono sorti certi stereotipi, certi pregiudizi? Da dove hanno avuto origine i moti di tipo razzistico che hanno caratterizzato tanta parte della storia occidentale? E sopratutto: è possibile prevedere una società di tipo pluralistico, multiculturale oltre che multietnica?»

 

Nel più volte citato “scatolone delle badanti” che, gli assidui di Pol it, certamente rammentano, ho ripescato, il volumetto n. 104 de “la Critica Sociologica”, inverno 1992-1993, nel quale sono riportati gli interventi di presentazione del libro sopra citato, curato da “Minette”, tra i quali anche il mio. Un evidente segno di parallelismo, nella trattazione delle tematiche, anche per merito di Chiara, mia figlia, che mi ha sempre sollecitato dal versante dell’antropologia culturale, più che sociale. E veniamo dunque alla trascrizione del testo integrale che tenni a Palazzo Valentini per la presentazione ufficiale del volume della Macioti. Dal sommario del n. 104 de “La Critica Sociologica”, a p. III, sembrerebbe di capire che al capitolo “INTERVENTI” dove si annuncia ”S. MELLINA-A. ROSSI DORIA. “Per una società multiculturale”, ci sia un apparente refuso del proto, in quanto io non ho mai avuto l’onore – e me ne dolgo – di lavorare con l’illustre Storica e accademica, Anna Rossi Doria (1938-2017). Ma errore non è, perchè nella circostanza ufficiale della presentazione del libro al Palazzo della Provincia di Roma, tre docenti di materie diverse, svilupparono le loro riflessioni sullo stesso tema. Dunque, ognuno lesse la propria recensione, che fu pubblicata in ordine d’intervento, nel più rigoroso rispetto della multilateralità dell’analisi del tema osservato. Mi rammarico invece di non trovare il lucido intervento di Clara Gallini (1931-2017) che forse, poi, non inviò il testo. Non si tratta di una pignoleria, ma ancora di un pensiero per la precisione quasi maniacale sul lavoro di “Minette”. È vero che “La Critica Sociologica” è il periodico trimestrale fondato e diretto da Franco Ferrarotti, ma chi lo curava in tutti gli aspetti, passava in tipografia a correggere la bozze e vigilare sul prodotto finito, fino alla distribuzione, è sempre stata Maria Immacolata Macioti, che in pratica faceva casa e bottega, e non per caso. Cosi come risponde a verità anche il dettaglio che durante la ricerca sulle periferie romane condotta con Franco Ferrarotti, il quale diceva che bisognava “sporcarsi le mani”, la Macioti, tanto per dire, a “Valle Aurelia o al “Mandrione”, ci s’inzaccherasse con tutte le scarpe, fino alle caviglie, sempre con grande naturalezza, come fosse nel salotto di casa sua!

 

Ed ecco il reperto storico.

 

Per una società multiculturale”. Presentazione [02] . “La Critica Sociologica” n. 104 (pp. 39-43)

 

Devo confessare un certo disappunto e un certo rammarico il primo perchè data l’ora in cui si tiene questa presentazione. – ora molto vicina alle ipoglicemie – ci spinge a consumare in fretta un rito che, per l'importanza dei contenuti dovrebbe avere ben altro spazio. Il secondo perché nella confusione della presente bagarre elettorale (le ultime della cosiddetta Prima Repubblica n.d.r.), si è naturalmente distratti e si rischia di essere fraintesi o inascoltati nel proporre un discorso di elevato spessore culturale: quello sulla consistenza sociale di molte etnie e di molte culture. Fra morti ammazzati, spari e dossier di ogni genere, si rischia di fare la figura di quelli che gettano coriandoli ai funerali.

Dunque il bel libro della Macioti, altro non è che la materializzazione su carta di un indimenticabile e acceso Convegno tenutosi a Roma in Piazza della Repubblica (piazza Esedra) dal 20 al 22 novembre 1989, presso il Dipartimento di Sociologia dell'Università «La Sapienza» di Roma. Io ho partecipato a quel convegno, come dire, dal vivo e, con estremo interesse, ho annotato i punti salienti delle relazioni che risultavano più congeniali al mio lavoro di psichiatra, spesso a contatto con il disagio mentale degli immigrati. Ma non ho trascurato le altre relazioni per il semplice motivo che mai come oggi è necessario costruire in Italia una cultura della migrazione e in quei tre giorni di semina culturale, di semi ne sono stati gettati parecchi. In seguito ho atteso la «gestazione» di questo libro con un po' d'impazienza sollecitando spesso la Macioti e la De Micco perché desideravo controllare l'esattezza di talune citazioni e appunti che avevo annotato sul mio taccuino nel corso del Convegno e dei dibattiti.

Oggi il libro è una realtà, è qui tra le mie mani, e si pone come la prima pietra di quel complesso edificio che a mio modo di vedere si deve costruire per realizzare ex novo una cultura della migrazione; cultura intesa nell'accezione di Ferrarotti «come concezione antropologica della cultura come insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti». L'idea della Macioti di voler proporre una riflessione per una società multiculturale può sembrare un'utopia, ma è certamente una sfida che non va solo condivisa, ma anche incoraggiata. Del resto lei stessa ne è consapevole quando scrive (p. 17) «… la costruzione di una società con maggiori, paritarie possibilità di partecipazione per tutti è difficile: lo è persino in ambito italiano, poiché è evidente che nella supposta società post-industriale restano in realtà ai margini larghe fasce di popolazione. Secondo alcuni, è francamente utopica». Ma poi aggiunge: «Meglio ipotizzare e tentare le vie per un'Europa aperta alle istanze che giungono da altre popolazioni, che si proponga di offrire la possibilità di inserimenti dignitosi, a vari livelli, a chi la abita, piuttosto che relegare gli immigrati nei più bassi livelli della scala lavorativa e sociale, che vivere in un'Europa delle diseguaglianze erette a sistema». Ecco, io direi che più che un'utopia, la costruzione di una società multiculturale riassume i contorni di una scelta obbligata, nella presente situazione che vede molti isterismi e molte epilessie sociali terremotare il nostro nuovissimo e improvviso ruolo di El Dorado migratorio.

D'altro canto come negare le preoccupazioni di Franco Ferrarotti su «razza cultura e pregiudizi»? (p. 25) «I rischi del nuovo Zeitgeist – egli scrive – sono noti e da più parti sono stati puntualmente richiamati. Pare che sia stata troppo corrivamente "offerta una giustificazione genetica allo status quo e agli esistenti privilegi di certi gruppi in base alla classe, alla razza o al sesso» (cfr. E. Allen, e altri «Against Sociobiology» in The New York Review of Books, 13 novembre 1975). A mio sommesso parere, il rischio più serio va invece ricercato nella possibile elisione della dimensione storica dei fenomeni sociali in favore della persistenza di strutture e caratteristiche che si suppongono intemporali e astoriche semplicemente perché la loro evoluzione è lentissima, bradisismica. Lamentevoli sono gli esempi, purtroppo numerosi, delle conseguenze fuorvianti che fanno seguito alla elisione della dimensione storica». E la dimensione storica è puntualmente indicata da Ferrarotti nell'Olocausto. Egli scrive testualmente (p. 29): «L'Olocausto ci richiama duramente al semplice fatto che non ci sono solo i ghetti degli altri, che insieme con i Lager nazisti non va dimenticata quella che era, fino a tempi recentissimi e che continua ad essere, l'Apartheid del Sudafrica, la discriminazione di fatto e la segregazione negli Stati del Sud degli Stati Uniti e delle grandi città del Nord, le emarginazioni a sfondo razziale a Londra come a Parigi, a Francoforte, il razzismo e la violenza anti-minoritaria a Firenze». Razzismo dunque, e come ricordato da Alfonso Maria Di Nola citato da Ferrarotti (p. 33): «… un razzismo anche italiano, che si esprime non già in forme di delirio teorico come in Germania nei gruppi neonazisti, ma si configura come pratica corrente e reale di un pregiudizio del "contatto" contaminante e della considerazione schiavista del "negro”, nel totale disconoscimento non soltanto della cultura di cui è nostalgico portatore ma della sua stessa umanità».

Il concetto di «Nemesi storica» è elaborato originalmente da Vittorio Lanternari (p. 39). «Oggi il Terzo Mondo riversa inattesamente i suoi uomini e la sua forza-lavoro nei paesi europei. Oltre un secolo prima, l'Europa colonialista riversava altrettanto inattesamente i suoi uomini e la sua potenza militare, organizzativa, espansionistica, nelle terre d'Africa. C'è una nemesi chiara, che nessuno ha messo in luce finora, nei due processi storici, così strettamente interconnessi». Il boomerang del vecchio colonialismo viene da lontano, è stato elaborato nel profondo dell'etnocentrismo della cultura cosiddetta occidentale – e Lanternari Io dice molto bene (p. 43). «Nasce così, sul fondo d'una memoria storica depositata nelle zone dell'inconscio collettivo dal periodo coloniale, il mito apocalittico, angosciante, di un annunciato rovesciamento dell'ordine generale del mondo nei rapporti tra "noi" e gli "altri". Si divulga l'idea paurosa d'una minaccia incombente sulla civiltà europea, di un attentato all'identità nazionale, al valore dell'intera storia della quale noi siamo l'estremo prodotto. Balibar parla, per la Francia, di "politica della paura", di "fobia degli immigrati". Noi potremmo dire la stessa cosa dell'Italia».

Mi piacerebbe molto chiosare la sottile relazione di Felice Dassetto di respiro senz'altro europeo – sulla penetrazione islamica nel «vecchio continente» (come si diceva un tempo), sulla sua visibilità pubblica e sul suo dubbio divenire di transazione convissuta, completamente nelle mani delle potenzialità intellettuali della 2° generazione di immigrati. Ma il tempo stringe. Sono d'accordo con lui che non si tratti più di «un semplice tema di erudizione, ma di una realtà collettiva e popolare». Tuttavia vorrei solo osservare che non dobbiamo temere il fenomeno come una sorta di rivincita di Roncisvalle!

Mi piacerebbe anche richiamare alcuni spunti di Umberto Melotti sulla specificità della immigrazione straniera in Italia distinta nelle sue 3 fasi: '50-'67 / '67-'80 e dall'80 in poi; sui caratteri di «fuga verso la sopravvivenza»; sulle due versioni dei nuovi paesi industriali: quella «Sub-imperialistica» e quella di «Vassallaggio» e anche qualche arguta battuta al fulmicotone di Enrico Pugliese sulle colf-immigrate cristiane – lavoratrici-dipendenti («ospiti» delle case della nostra medio/piccola borghesia) e del maschio/islamico/lavoratore/autonomo (Vu' cumprà) … ma non lo farò per brevità. Se mi è concesso qualche altro minuto, vorrei dire che il libro della Macioti si compone di 7 parti. Io, come psichiatra, sono stato particolarmente attratto dalla 4a laddove si parla delle «Psicopatologie dell'immigrazione, eguaglianza e devianza» – e ne raccomando la lettura agli operatori della salute mentale. Dato il rilievo che meritano, voglio sottolineare le sottili argomentazioni di Michele del Re, sull'equivoco dell'eguaglianza e sull'ambigua pendolarità tra l'obbligo di conformità e il diritto alla diversità per l'immigrato; e il pregevole saggio di Virginia De Micco e Giuseppe Cardamone sul Corpo che migra, che meriterebbe molto più di una semplice menzione.

Infine, vorrei concludere con qualche citazione presa dalla ricchissima e puntuale relazione di Delia Frigessi su Migrazione e malattia mentale. L'Autrice è ormai un'esperta consacrata di questo tema, ancorché orfana dell'indimenticato Michele Risso. La Frigessi, partendo proprio da un'analisi storica della nostalgia svizzera la “Heimweh” ci dimostra come si possa passare, con un'operazione metonimica, da ciò che è economico e sociale a ciò che è medico; da ciò che è situazione esistenziale pesante dell'immigrato a ciò che è condizione psichiatrica. Ci racconta come quasi 300 anni fa Jacob Scheuchzer sia riuscito abilmente a rovesciare una strana «malattia» dei soldati svizzeri (“Heimweh”) in una, per così dire, mollacchiosa «costituzione psicofisica» di Italiani e Francesi: la mai troppo vituperata e razzista “Zartlichkeit des Leibs” – una sorta di tara biologica, genetica, ancor oggi dura a morire in Svizzera e dintorni, e perché no, anche oggi, forse, da noi in Italia..

Permettetemi di leggerne qualche passo significativo «Negare la diversità degli immigrati nei confronti del disturbo psichico, sostenere che essi non sono vulnerabili, induce anche a misconoscere l'importanza dello sradicamente e l'esperienza dell'espropriazione, che tuttavia essi vivono intensamente. Si finisce così per gettare via l'acqua sporca, vale a dire le teorie esplicitamente costituzionaliste e razziste, insieme al bambino, insieme cioè alla specificità della migrazione. In Italia i riflessi, le ripercussioni di questi dibattiti – che non sono puramente accademici come a prima vista potrebbero sembrare – sono stati flebili fino al momento in cui è incominciato l'esodo di massa dal mezzogiorno. Ma il dibattito su disagio psichico e migrazione ha continuato a essere poco vivace; i punti fermi sono rappresentati da due convegni: a Milano nel 1963, a Varese nel '74» (p. 158), cui si potrebbe aggiungere anche il Convegno di Roma dell’89.

E ancora: «L'immigrato ha poche scelte; la sua è una cultura dominata, egli trova ostacoli a quasi tutte le sue compensazioni. Così, l'aggressività che nasce nel campo sociale, si esprime nel corpo: de "fausses" maladies cachent parfois de juste révoltes». (p. 162) [03]. Così, infine, conclude la Frigessi: «Questo percorso, che alcuni psichiatri francesi hanno descritto come esemplare, riguarda il caso di un immigrato tipo che soffre di nevrosi invalidante. In questo genere di riflessione, la correlazione tra disturbo psichiatrico e migrazione perde ogni connotato meccanicistico, biologizzante. Si riesce a cogliere la specificità, l'essenza della sofferenza dell'immigrato, si "leggono" le ragioni della sua malattia, dei suoi sintomi che sono espressione di una situazione contraddittoria e paradossale. Appunto la malattia – cito Abdelmalek Sayad [04] – nega l'immigrato nella sua funzione essenziale di lavoratore ma finisce per costituire un suo alibi. Fondamentale, per concludere, appare una idea di prevenzione che rinvii all'analisi dei problemi socio-economici dell'immigrazione. Finalmente anche per gli psichiatri l'essenziale sta altrove» (p. 163).

Anche la Macioti mette il dito su questa piaga osservando: «Si tratta di soggetti particolarmente inclini a forme di patologia psico-fisica, di devianza? A sfogliare le pagine di certi quotidiani e settimanali sembrerebbe di sì: di immigrati si parla, nei mass media, per lo più in relazione a risse, ferimenti, spaccio di droga e simili, con un evidente intento di spettacolarizzazione, con una particolare enfasi sul negativo. È più raro che se ne parli in relazione allo sfruttamento da parte italiana, alla precarietà delle situazioni, alle ingiustizie subite, alle difficoltà della vita quotidiana». (p. 13) Il clima complessivo che si è respirato al Convegno e la riflessione più importante che si ricava dalla lettura del libro è che bisogna assolutamente costruire – qui in Italia – una nuova cultura della migrazione: meditare sulla nostra e ripensare su quella degli altri. I terzomondiali poveri non portano da noi soltanto i loro corpi e la loro fame, ma anche la loro cultura.

 

 

Note

01. Scatoloni e badanti. Una biblioteca molto colorata ma inutilizzabile di Sergio Mellina. POL.it Psychiatry on line Italia, 13 maggio, 2019.

02. La presentazione del testo “Per una società multiculturale”, curato da Maria I. Macioti, ed. Liguori, Napoli 1991, è stata fatta presso i locali di Palazzo Valentini, in Roma, da Sergio Mellina, docente di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, Università « La Sapienza » di Roma, Capo Dipartimento di Salute Mentale USL n. 5 di Roma, da Anna Rossi Doria, docente di Storia presso l'Univ. di Arcavacata, da Clara Gallini, docente di Etnologia presso l'Univ. di Roma La Sapienza.

03. Cfr. J.N. Trouvé et al. “Aspects sociologiqes des troubles de l’identité”. Annales médico-psychologiques, 141, 1983, p. 1058.

04. A. Sayad. “Les trois àges dell’émigration algérienne en France”. Actes de la recherche en sciences sociales. 15, 1978, pp. 59-79.

 

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