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Prescrizioni, interdetti e ostracismi intorno alle mestruazioni nella Bassa Murgia: primi appunti.

31 Lug 22

A cura di dinange

ad Antonia,
nel giorno del suo compleanno,
Reggio Emilia, 25.5.22

(la foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Altar_Selene_Louvre_Ma508.jpg)
 

 
 
1. “U mése”, cioè le mestruazioni: un vulnus nella mia ricerca sui modelli di temporalità a Locorotondo
 
Fra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 avevo fatto una trentina di interviste sulla temporalità a Locorotondo, diventate poi il fulcro di un testo inizialmente uscito ‘a puntate’ proprio sulla rivista “Locorotondo”, e poi confluito ne Il sole, la campana, l’orologio” (Angelini, 2013). Una buona metà di quelle interviste erano state fatte a donne locorotondesi: contadine, artigiane, operaie, impiegate.
Nei mesi che precedettero la prima tranche di queste interviste avevo messo per iscritto quelli che mi parevano gli argomenti più rilevanti dai quali potessero emergere le componenti essenziali che andavano indagate. E fra quegli argomenti avevo compreso le mestruazioni, a partire soprattutto da ciò che esse rappresentano sul piano del passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, ma anche -da lì in avanti- nel loro ciclico riproporsi.
È noto infatti che il menarca[1] rappresenta per la ragazza la prima tappa -quella biologica- di quel radicale passaggio (Van Gennep) che in un tempo più o meno lungo conduce dall’infanzia all’età adulta.
Silvia Vegetti Finzi (1990) – che avevo già letto e compulsato in proposito, facendo il paragone con l’avvento del più rapsodico segnale -la capacità erettiva- che attesta il passaggio che sempre sul piano biologico avviene nel ragazzo neo-pubere, afferma che è proprio il ciclico riprodursi delle mestruazioni che implicitamente non può esimere la ragazza dal prendere atto di non essere più una bambina. E ciò normalmente comporta -aggiungeva- il fatto che in quel lasso di tempo le ragazze siano più autoconsapevoli della natura del passaggio.
Mi era chiaro anche che l’arrivo del menarca, così come quello della capacità erettiva per i ragazzi, di per sé non implica l’accesso all’età adulta; che per le une e per gli altri richiede anche sia la capacità di comprensione di ciò che sta avvenendo sul piano emozionale, con il sempre più marcato investimento sui legami esogamici; sia la conquista dell’autonomia, che significa lavoro e, prima ancora, formazione che avvii al lavoro. 
Maturità biologica (e cioè menarca e capacità erettiva), piano emozionale e piano autonomia sono cioè come tre luci di un semaforo, che si accendono in successione. E solo quando l’ultima di queste tre luci si accende è possibile definirsi adulti[2].
Nella mia indagine sul tempo a Locorotondo però, pur avendo ben chiaro il fatto che in tema di temporalità non ci si potesse esimere dall’affrontare l’argomento delle mestruazioni, di fatto ben presto rinunciai a farlo da una parte poiché notai nelle poche donne cui chiesi di esprimersi in merito una profonda reticenza a trattare questo argomento. Ma soprattutto perché spesso mi fu difficile intervistarle separatamente dai loro mariti o dai loro parenti. Per cui, pur avendo indagato sui diversi percorsi della maturità emozionale e dell’autonomia[3], nonostante i miei propositi iniziali, di fatto avevo trascurato di approfondire ciò che avviene, o meglio ciò che avveniva[4] sul piano della maturità biologica, e in particolare sull’insieme dei significati e degli ostracismi che si aggrumavano intorno al menarca ed alle mestruazioni.
Da un po’ di tempo per vari motivi sono tornato a riflettere su quella ricerca e, riguardando i miei appunti, il tema delle mestruazioni è riemerso costituendosi come un non detto le cui ragioni penso vadano analizzate almeno per due ordini di motivi. Innanzitutto perché nel frattempo la reticenza a riflettere sui vissuti e sui significati delle mestruazioni tende sempre più a venir meno[5]. Ma anche perché -come spero di mostrare con questo mio scritto-  un recentissimo lavoro di scavo va ponendo in luce il rapido dileguarsi nella memoria collettiva degli abitanti della bassa murgia di fenomeni legati alle mestruazioni che pure fino a qualche tempo fa erano presenti, e non confinati nel chiuso e serotino mondo femminile in cui solitamente venivano confinate queste faccende.
 
 
2.”U mèse”: eppure l’etimo parla chiaro
 
U mèse (it: il mese) è il termine col quale nella Bassa Murgia senza grandi ostracismi ci si riferisce alle mestruazioni. ‘Pòrte u mèse’ (“ha le mestruazioni”), diciamo ancor’oggi. E questo modo di riferirci esplicitamente ad esse, senza quel parlare allusivo che solitamente è usato in ogni dove, già di per sé mi pare significativo. Certo, il pudore impedisce un uso frequente del termine, ed anzi comporta una sua circoscrizione ed una sua compartimentazione ‘di genere’ in base alla quale le donne solitamente nel parlano con le donne, e gli uomini con gli uomini. Ma certo è che il termine ‘mèse’, sia pure usato con queste cautele e all’interno di queste compartimentazioni, esiste! appartiene alla quotidianità degli scambi verbali tipici del dialetto murgiano. E questa presenza mi pare molto importante!
Per comprenderne la rilevanza dobbiamo almeno in un primo momento assumere uno sguardo che travalica i nostri confini, e dotarci di un’attenzione a fenomeni che affondano le loro radici nel passato: anche in quello più remoto.
 
Partiamo dall’etimo: afferma il Devoto, il termine ‘mese’ “è una parola fondamentale del vocabolario indoeuropeo, nel quale rappresentava l’unità principale del calendario: dalla radice MË (misurare), successivamente ampliata in -n-, poi in -s-, nelle aree: greca, italica, celtica, armena; oppure nella forma semplificata MË nell’area indo-iranica; con la sola nasale ed eventualmente altri ampliamenti nelle aree tocaria [cioè nella Cina occidentale], albanese, germanica (v. il tedesco: Mond = luna, Monat = mese)…”
Con parentele anche – aggiunge Devoto – con i termini ‘misura’ (mensura), ‘mensa’ (mangiare); ed infine col termine greco ‘metis[6], ‘saggezza’, o meglio quel sapere pratico che nella vita di tutti i giorni era l’equivalente del ‘logos’ dei filosofi.
Stiamo parlando quindi di una parola potentissima, che contemporaneamente: – è testimone della capacità generativa della donna[7]; – si riverbera nella definizione del calendario e più in generale del tempo[8]; – assume in sè il significato di misura per antonomasia; – e si espande fino ad alludere a concetti quali la saggezza e la temperanza.
Una parola quindi che in una società patriarcale non poteva non sollevare invidie, maldicenze, ostracismi e veri e propri interdetti, a partire proprio da quella che era l’unità di misura del tempo al femminile, il succedersi delle 13 lunazioni, che con l’aggiunta di un giorno determinavano il calendario annuale femminile (28X13+1 =365). Così è da sempre nelle tradizioni popolari, nelle prescrizioni e negl’interdetti della medicina greca, nelle credenze dei romani, nei tabù della Bibbia, negli ostracismi antichi e moderni della Chiesa, etc.[9]
 
 
3. Prescrizioni, interdetti e ostracismi intorno alle mestruazioni come parte di un ‘dispositivo’
 
È noto che secondo Foucault tutto il nostro processo di soggettivazione[10]  avviene a partire da un dispositivo, funzionale alla società patriarcale, fatto da un insieme di obblighi e di divieti, di prescrizioni e di ostracismi, fra i quali ovviamente sono compresi anche quelli che riguardano le mestruazioni. Dispositivo in base al quale, fra l’altro, vengono determinati i profili di maschilità e di femminilità.
Devereux, e più tardi Bourdieu hanno posto in evidenza come questo dispositivo, pur rimanendo funzionale a livello general-generico alle esigenze della società patriarcale, nel divenire storico si sia sempre declinato in base alle specifiche esigenze di ogni società. E, cosa ancor più rilevante, hanno posto in evidenza come ciò si riverberi non solo negli atteggiamenti e nei comportamenti coscienti, ma anche a livello inconscio. Devereux parla di “inconscio etnico”. E Bourdieu, che critica sotto questo aspetto il concetto astorico di inconscio di Freud, di “inconscio culturale”.
Un ulteriore approfondimento del  tema si ha con la gruppoanalisi, che, ad es., con Jack Le Roy mette in luce come all’interno di ogni individuo si crei un equilibrio dinamico che comprende una matrice culturale di base, una matrice gruppale più circoscritta (la classe, il milieu sociale di appartenenza) ed una familiare, impastati con il Sé individuale. Laddove vanno comprese a pieno titolo anche le varie immagini, così come i vari ostracismi in base ai quali si definiscono dinamicamente i nostri profili culturali, gruppali, familiari e individuali di maschilità e femminilità.
Laddove nelle società statiche, quale quella della Bassa Murgia ieri, i cambiamenti sono impercettibili ed individuabili solo con uno sguardo di lungo periodo. Mentre nelle società dinamiche, come quella attuale, essi appaiono come qualcosa di travolgente, che può generare nell’arco di una o due generazioni nuovi obblighi e nuovi divieti, nuove e specifiche modalità di ottemperanza, o di messa in crisi della logica del dispositivo. È ciò che sta oggi accadendo in generale a proposito dei profili di maschilità e di femminilità, e in particolare a proposito del tema di cui ci stiamo impudentemente interessando: quello delle mestruazioni.
 
Se noi ci chiediamo cosa sta accadendo su questo piano in questi ultimi decenni osserviamo innanzitutto da parte delle femministe e delle psicoanaliste ad una progressiva opera di de-tabuizzazione, educazione e prevenzione tendente a favorire l’emersione del fenomeno.
– In ambito psicoanalitico già Helene Deusch aveva stigmatizzato queste tendenze alla tabuizzazione delle mestruazioni, e ne aveva individuato le cause, ma le sue considerazioni erano rimaste confinate nell’ambito della psicoanalisi e del femminismo. Più recentemente Silvia Vegetti Finzi (2001), attraverso una ricerca che riprende anche alcune intuizioni della Deutsch, ha scandagliato tutti i riti di passaggio che scandivano l’ingresso della donna nel mondo adulto ateniese, riuscendo a mettere in evidenza non solo quali timori a quali angosce da parte dello Stato imponevano alle donne ateniesi di sottoporsi a questi riti, ma anche i legami fra quelle vecchie usanze e gli attuali ostracismi[11]. Anche questo lavoro di scavo però è rimasto circoscritto in un ambito specialistico.
– In ambito etnologico ed etnografico sono noti gli studi ormai ‘storici’ di Piero Camporesi, che ha indagato “il simbolismo e la magia del sangue” fra le classi subalterne italiane;  e soprattutto quelli di Ernesto De Martino, centrati sull’analisi della “bassa magia cerimoniale lucana”, in cui i riti e le formule magiche, legate fra l’altro al sangue catameniale, rappresentano molto da vicino (la Lucania è a un tiro di schioppo dalla Bassa Murgia) un mondo magico che aveva il suo vertice nelle ‘masciàre”: cioè nelle donne di magia appulo-lucane, potremmo dire oggi.
Più recentemente molto interessante mi è parso il N. 58 di “Rivista folklorica”, intitolata significativamente “Linee di sangue”, ed in particolare l’introduzione di Cozzi e Diasio da una parte, e dall’altra l’analisi da parte della francese Vinel dei processi di torsione simbolica cui sono sottoposte le mestruazioni in un contesto urbano multietnico.
– Sulla stessa linea vanno inquadrati i già citati studi etnoanalitici di Devereux, e quelli di carattere sociologico di Pierre Bourdieu.
– Finché oggi nuove studiose e ricercatrici operanti in vari ambiti[12] e, sulla loro scia ottime divulgatrici[13] sono riuscite a squarciare il velo di silenzio che avvolge il fenomeno delle mestruazioni, e a concorrere nel ridefinire il senso dell’appartenenza di genere delle donne.
Venendo a noi, il fatto che il termine ‘u mèse’ nei dialetti della Bassa Murgia faccia riferimento non solo al calendario, ma per estensione anche alle mestruazioni (‘porte u mèse’)  in certo qual modo è significativo, e probabilmente testimonia una minore propensione alla tabuizzazione del fenomeno. Né mancano qui da noi esempi che, pur tra mille difficoltà, testimoniano la presenza oggi di un lavoro che va in questa direzione[14]
 
 
3. Un’usanza caduta in disuso: ‘la garza alla caviglia’
 
Quando ero l’università il docente di linguistica per farci comprendere meglio la distinzione fra significante e significato ci fece l’esempio delle statue dell’isola di Pasqua, che sicuramente avevano un significato per coloro che con sforzi immani secoli fa le eressero, ma che, almeno all’inizio degli anni ’60 (epoca in cui ero studente universitario), per noi risultavano prive di significato.
Mi è venuto in mente questo esempio per illustrarvi un fenomeno legato alle mestruazioni, di cui non tutti oggi hanno memoria, ma che pure è esistito, sicuramente nei territori Martina Franca, Locorotondo e Monopoli[15]. Alcune giovani quando avevano le mestruazioni usavano legarsi alla caviglia una garza di tre o quattro centimetri. Io, che fra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 ho frequentato il Liceo Tito Livio di Martina Franca, posso testimoniare che più volte mi sono trovato insieme ad amici coetanei martinesi che, nel vederle dicevano invariabilmente “porte u mése” (ha le mestruazioni).
Nel ritornare col pensiero alle mie amnesie ed alle mie ritrosie nel momento della ricerca sul tempo a Locorotondo mi è venuto in mente questo vivido ricordo, di cui fra l’altro sono stato testimone più volte. E ho cercato di saperne di più indagando fra gli amici e le amiche martinesi, locorotondesi e monopolitane con cui sono ancora in rapporto (e che qui ringrazio vivamente per la disponibilità dimostratami).  Riporto qui due testimonianze scritte:
  • La prima e di un uomo ultraottantenne, di origini martinesi: “Di solito era un invito a non procurare spavento a chi portava la fascia alla caviglia. Si trovava in un momento … fragile..”
  • La seconda di una novantasettenne monopolitana, intervistata da sua figlia, mia amica e collega psicoterapeuta: “Ti confermo che anche mia madre di 97 anni era a conoscenza dell'usanza di alcune donne di indossare un segnale della presenza di quel periodo, come dicevi tu e che indicava una sofferenza in corso. Mia madre inoltre ricorda anche un filo rosso al polso o appuntato con la spilla al vestito, usato soprattutto dalle persone di origine contadina. Secondo il suo ricordo era volto a segnalare una sorta di intoccabilità della donna essendo, sempre a suo dire, le mestruazioni oltre che oggetto di vergogna e tabù, anche vissute come "colpa" per la sporcizia e il cattivo odore ( era fatto divieto di lavarsi)! che potevano trasmettere.”
Più consistenti, ma sempre limitate a soggetti attualmente ultrasettantenni, sono quelle orali. Ciò che finora è emerso pare presentare alcune convergenze: – questa usanza aveva come protagoniste alcune giovinette; – di trattava di un messaggio che ‘indicava una sofferenza in corso’, ‘un momento .. fragile’; – era ‘un invito a non procurare spavento’; – rivolto sia agli uomini che alle donne; – ed infine sembra si trattasse di un’usanza di gruppi sociali circoscritti, paesani, probabilmente ascrivibili a tradizioni più che altro familiari[16]; – a fianco a questa usanza, ed in maniera sempre circoscritta, ce n’erano altre, più contadine: “il filo rosso al polso o appuntato con la spilla al vestito”, come dice la mia informatrice 97enne, ma anche l’usanza di alcune contadine locorotondesi di allacciarsi intorno al collo un fazzoletto dentro al quale erano inserite cinque pietruzze.
 
Come vedete si tratta solo di lembi di un fenomeno che va indagato più a fondo. Cosa è possibile dire finora in proposito?
Vi è una convergenza sul fatto che si tratta di un messaggio rivolto al pubblico. Un messaggio che invia ad un ostracismo apparentemente mite: la necessità di una difesa e di una tutela in un momento di fragilità. Ma che in effetti presenta tutte le sembianze di uno stigma che, al di là delle esigenze di tutela della giovane, sembra alludere ad altre, più sociali e più ostracizzanti esigenze di tutela: quelle della comunità posta patentemente di fronte a qualcosa di ‘sporco’ e di vergognoso. Il fatto che tutte queste usanze appaiono come circoscritte a tradizioni poco più che familiari a mio avviso è riconducibile ai forti processi di tabuizzazione delle mestruazioni, che impedivano il passaggio e la confluenza di queste usanze circoscritte in quelle più condivise della comune matrice culturale di base della Bassa Murgia. Che la memoria di queste tradizioni esista oggi solo negli ultrasettantenni ci lascia intendere che esse siano cadute in disuso negli anni ’60 del secolo scorso.
Interessante infine -ma anch’essa da indagare più a fondo- mi pare l’usanza (solo contadina?) del fazzoletto con le pietruzze al collo. È noto infatti che il trasferimento del ‘male’ dal proprio corpo ad un elemento naturale (in  questo caso le cinque pietruzze che  alludono evidentemente a ‘quei’ cinque giorni) sia un tipico procedimento folklorico in diverse culture.
 
Confido però nel fatto che, così come alla fine quello che era il significato delle statue dell’isola di Pasqua sia stato scoperto, nel nostro piccolo sia possibile scoprire con più precisa approssimazione cosa volessero dire queste usanze, che per il momento restano solo come delle ombre che alludono a quella che per noi  rimane una sfuggente presenza.
 
(apparso anche su: "Locorotondo: rivista di economia, agricoltura, cultura e documentazione della Valle d'Itria", N. 55, Agosto 2022, pp. 23\40)
 
Bibliografia:
– Angelini L., 2013, Il sole, la campana, l’orologio, Psiconline, Francavilla a Mare
– Baccari G., 1968. Memorie storiche di Locorotondo, Biblioteca del lavoratore. Cisl, Locorotondo.
– Bourdieu P., 2009, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano
– Camporesi P, 1984, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Ed. di Comunità, Milano
– Cozzi D., Diasio N., Introduzione. Linguaggi e legami di sangue: dono, corpi, appartenenze, in: “Ricerca folklorica”, N. 58, Grafo, Ottobre 2008, pp. 3 \17
– De Martino E. 1966. Sud e magia. Feltrinelli. Milano
– Detienne M., Vernant J.-P., 1984, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Bari
– Deutsch H., 1949,“Psicologia della donna”, Boringhieri, Torino
– Devoto G., 1979, Avviamento alla etimologia italiana, Mondadori, Milano
– Foucault M., 2004, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino
– Giani Gallino T., La ferita e il re. Gli archetipi femminili nella cultura maschile”, Raffaello Cortina, Milano, 1986
– Graves R., 1992, La dea bianca, Adelphi, Milano
– Guaraldo O, Assoggettamento e soggettivazione del femminile: la mistica della maternità, in: AA.VV., 2008, Biopolitica, bioeconomia, e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata, pp. 283 \ 294
– Le Roy J., Gruppoanalisi e cultura, in: Brown D., Zinkin L, La psiche e il mondo sociale, R. Cortina, Milano, pp.  186 \ 207
– Licinio R. 1985. "Elementi di economia agraria del territorio nel basso Medioevo", in Società, cultura, economia nella Puglia medievale, a cura di V. L'Abbate. Dedalo. Bari.
– Pomian K., 1992, L'ordine del tempo, Einaudi, Torino
– Sgrena L., 2016, Dio odia le donne, Il Saggiatore,
– Thiébault E., 2018, Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabù delle mestruazioni. Einaudi, Torino
– Van Gennep A., 1981, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino
– Vegetti Finzi S., 2001, L’età incerta, Mondadori, Milano
– Vegetti Finzi S., 1990, Il bambino della notte, Mondadori, Milano
– Vinel V., Ricordi di sangue: trasmissione e silenzio sulle mestruazioni nella Francia urbana, in: “Ricerca folklorica”, N. 58, Grafo, Ottobre 2008, pp. 79 \ 90
– Zerubavel E., 1985, Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, Il Mulino, Bologna
 
 
 

[1] Etimologicamente il termine ‘menarca’ viene dal greco mḗn/mēnós = ‘mese’; e archḗ = ‘inizio’.
[2] Anche se opportunamente Winnicott ci fa comprendere come il processo che porta all’autonomia ed  all’adultità praticamente non termina mai: “Ci si dovrebbe attendere che gli adulti continuino a crescere, giacché di rado raggiungono la piena maturità. Ma si può anche dire che la vita adulta ha avuto inizio una volta che uno abbia trovato una nicchia nella società mediante il lavoro, e magari si sia sposato e sistemato in un qualche schema che rappresenti un compromesso fra il copiare i genitori e l’instaurare in modo provocatorio una identità personale”, In: Winnicott, D. W. Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1993, p. 115
[3] ammaestrato, peraltro dall’eccellente lavoro che sul piano etnologico era già stato fatto da Anthony Galt, in Paese e campagna a Locorotondo, recentemente edito in italiano su questa rivista (cfr. il monografico N. 50)
[4] Ricordo che stiamo parlando di interviste effettuate all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, cioè oltre 30 anni fa.
[5] La bibliografia sulle mestruazioni, che negli anni ’90 del secolo scorso era ancora alquanto striminzita, oggi è amplissima, soprattutto ad opera di ricercatrici e divulgatrici donne, e spesso femministe. Cfr.: https://www.mestruazionisenzatabù.it/2020/04/libri-sulle-mestruazioni/
[6] Sul significato che il termine ‘metis’ aveva nel mondo greco vedi Detienne e Vernant.
[7] Afferma Tilde Giani Gallino: “La donna non solo aveva manifestazioni periodiche e uguali alle fasi lunari, ma poteva anche essere considerata immortale grazie al fatto che si rinnovava nei suoi stessi figli: rinasceva attraverso le creature cui dava la luce … ecco perché quando compaiono sulla scena le divinità maschili esse assumono la sorprendente e ripetitiva caratteristica di morire e rinascere ogni anno ..”
[8] Fra gli studi sul tempo vedasi soprattutto Pomian; sul calendario quelli di Zerubavel. Mentre sul tempo lunare, cioè sul tempo al femminile vedasi il classico di Graves “La dea bianca”.
[9] Per un elenco non esaustivo, ma significativo di prescrizioni, interdetti e ostracismi cfr. Luciana Sgrena, pp.54\61
[10] Interessante mi è parsa l’analisi dei processi di soggettivazione del femminile da parte della Guaraldo, più in generale l’analisi dei processi di soggettivazione del testo all’interno del quale è apparso questo lavoro.
[11] Sui riti di passaggio cfr. Von Gennep.
[12] Vedi ad esempio il testo dell’antropologa Elise Thiébaut: Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabù delle mestruazioni, SuperEt, Opera viva, 2018
[13] Per farsi un’idea di quanto ricca e argomentata sia l’editoria per donne e ragazze in tema di mestruazioni basta andare su Google e scrivere “libri sulle mestruazioni”
[14] lo Sprar, cioè il Servizio di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati di Martina Franca – ad esempio – fra mille altre cose, va da tempo  proponendo un ciclo d’incontri rivolti alle donne autoctone ed immigrate, proprio su questo tema
[15] Sul legame quasi ‘originario’ fra Monopoli, Locorotondo e più in generale il territorio della Bassa Murgia dei trulli vedasi Raffaele Licinio, che suddivide il territorio di Monopoli nel basso Medioevo in quattro aree, l’ultima delle quali viene così da lui definita: “La quarta area infine si riferisce «alla zona più interna, a ridosso e all’interno dell’area collinare murgiana. È il regno della macchia mediterranea, dei boschi, dei querceti e dei fragneti, delle macchie selvose, a tratti interrotte da zone di sfruttamento colturale. In questa quarta area è soprattutto la caccia e l’allevamento intensivo la destinazione produttiva prescelta” (Licinio, pp. 33-53). E noi sappiamo dal Baccari lo stretto legame di sudditanza che unisce Locorotondo a Monopoli proprio in questo periodo dapprima nei confronti dei benedettini, ed in un secondo tempo attraverso i gerosolimitani.
[16] Anche se cercando in rete ho trovato questa nota, proveniente dalla zona dei Campi flegrei (in provincia di Napoli): “Le donne con il ciclo dovevano circolare con un nastrino bianco avvolto attorno alle caviglie perchè erano considerate impure” (da: http://www.comefaccioper.it/rimedi-medicina-popolare/)
 

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