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Elogio della variabilità

9 Ago 22

A cura di antonello.sciacchi16

Che rapporto ha il logos con il bios, la parola con la vita, i due cardini simbolici della cultura occidentale? Il vangelo di Giovanni racconta che in principio era il verbo, fonte di verità e di vita. Logos e bios si possono vedere come i due significanti di un discorso che fa legame sociale, la casa dove l’io diventa noi. Bios è il significante primario S1, ontologico; fissa l’essere del soggetto collettivo; logos è il significante binario S2, epistemico; regola la ricorrenza e la distribuzione di S1nella cultura.
Basata sui due significanti bio-logici, la “biologia” filosofica o letteraria ha l’assetto psicotico della volontà d’ignoranza; fuorclude, infatti, il significante che coordina gli altri. La filosofia, in particolare l’ontologia, non parla né di “variabili” né di “variabilità”; la letteratura è poco diversa; mi si trovi in qualunque letteratura la strofa poetica che celebri la diversità dell’altro. È come se l’essere dovesse non variare mai, ma restare fisso, sempre uguale a sé stesso, pena decadere nel non essere. La fallacia ontologica sopravvive da millenni, da Parmenide a Heidegger, i custodi della civiltà occidentale, che la guerra ucraina sta mettendo a rischio. Compromettere l’essere, sottoporlo a variabilità – l’essere non è più unico – minaccia l’essere stesso della civiltà.

Partiamo ab ovo. Filosofia e letteratura non recepiscono tutta la portata dell’istanza della lettera, come la chiamava Lacan; ne hanno una concezione ristretta, esclusivamente narrativa su singoli casi. La lettera filosofico-letteraria è ontologica; racconta l’essere che è nel caso singolo, all’ombra del non essere che non è; in un contesto binario, tradotto eticamente nel confronto tra male e bene, la verità ontologica è narrativa; narra esperienze di vita in libri di storia, romanzi e giornali quotidiani che ci piovono da tutte le parti; anche i casi clinici di medicina e di psicanalisi sono narrazioni vitalistiche, miranti a coinvolgere e intrattenere più che a dare informazioni corrette; sostengono per lo più teorie di cause ed effetti su calco antropomorfo. Il fenomeno si presenta come umanesimo, ma si dovrebbe dire “biologismo”, nel senso di vitalismo. La facoltà di lettere e filosofia non utilizza le lettere per designare variabili; non le applica al calcolo algebrico; ha evidentemente altro di cui occuparsi. Pratica la variabilità della vita; ogni narrazione è un romanzo diverso dagli altri; narra la vita degli altri ma non la teorizza. La variabilità è il suo punto cieco, oscurato dal particulare dello storico (Guicciardini), ribadito dal filosofo: verum et factum convertuntur (Vico), codificato dal romanziere, oggi per antonomasia scrittore. Dal mito della caverna in poi tutta la teoria si traduce in narrazioni. Ne abbiamo gli scaffali pieni.

(Osservo di passaggio che l’approccio narrativo non può essere scientifico in senso stretto. Infatti, delle due forme elementari che un fattore eziologico può assumere, nell’evoluzione storica se ne presenta sempre solo una sola: il fattore o è presente o è assente, tertium non datur. Quindi, a partire dagli effetti, l’analisi storica non può a rigore eseguire controlli scientifici incrociati sulla portata eziologica della causa supposta. Di solito, l’indagine storica, che mira riconoscere le fonti di un fenomeno, arriva solo a confermare il fattore presente, quasi mai a confutare il fattore assente. La carenza epistemica è poi regolarmente compensata dal ron-ron ideologico della scienza ufficiale, che tappa i buchi della storia e ristabilisce l’ortodossia. Certo, nella vita quotidiana queste considerazioni rigorose non si applicano, perché complicherebbero l’esistenza. Bisogna fidarsi dell’altro come ce la racconta.)

Di conseguenza, senza variabilità, filosofi e letterati non concepiscono la generalizzazione scientifica, che pone una variabile astraendo dai suoi valori. I cosiddetti quantificatori universale o esistenziale della logica scientifica affermano la verità dell’enunciato che, “per ogni” o “per almeno un” valore della variabile, avviene questo o quell’evento. La famosa questione scolastica dell’esistenza degli universali fu un falso problema, dovuto all’incompetenza nell’uso dei quantificatori logici, per assenza del significante primario, la variabilità. I medievali arrivarono alle soglie della teoria degli insiemi, ma si fermarono prima, terrorizzati dallo scoprire la variabilità dei molti nell’uno, che metterebbe a rischio la consistenza dell’uno. Agli albori del secolo scorso la versione moderna dell’antica impasse filosofica si ripresentò proprio nelle antinomie della teoria degli insiemi che non appartengono a sé stessi, gli insiemi che sono insiemi se non lo sono; testimoniarono l’ingenuità dell’uso autoreferenziale delle variabili che designano insiemi.[1]

Per trattare la variabilità, e quindi la generalizzazione, senza riconoscerla come tale né affrontare le potenziali contraddizioni dell’uno-molti, i filosofi hanno fatto le capriole. Aristotele parlava di transizione dalla potenza all’atto; Hegel di dialettica tra tesi, antitesi e sintesi; Heidegger dell’esserci dell’essere, del Dasein, senza mai nominare la variabilità, lasciata alla scienza “che non pensa”. Gli psicanalisti non se la cavano meglio dei filosofi. “Variabilità” e “selezione” di valori diversi di variabili soggettive sono termini ignoti alla psicanalisi di Freud. A prescindere dalle scienze dure come fisica e chimica, nel XIX secolo variabilità e selezione diventarono i significanti guida del discorso prima genetico di Mendel (variabilità), poi generalmente biologico (selezione o evoluzione adattativa) di Darwin, entrambi impensabili fuori dal contesto del probabilistico. Dopo Galilei S1 e S2 trasformarono la biologia da filosofia a scienza. Siamo passati dal significante primario, S1, che ora significa la variabilità, al significante secondario S2, che inaugura il discorso delle probabilità come ricorrenza di S1.

Infatti, nell’innovazione scientifica del XVII secolo gioca un ruolo essenziale, dipendente dalla variabilità, la nozione di probabilità, ignota agli antichi; è lei, la probabilità, a dare dignità scientifica alla dimensione dell’incertezza, propria della scienza moderna. Infatti, nella metafisica antica solo il certo ebbe la dignità del vero. Per Platone il falso era impensabile, perché inesistente; il probabile era inconcepibile, perché relativo a un ente che c’è e non c’è. Ancora oggi per la cultura ufficiale è così: l’istanza della lettera non è riconosciuta in tutta la sua portata: è ammessa solo la lettera che racconta la verità, nient’altro che la verità. Solo dopo Boole e Frege si iniziò a sdoganare il falso, parlando di valori di verità: il vero e il falso come 0 e 1, soggetti alle determinazioni probabilistiche del calcolo “letterale” algebrico. Gli antichi non riconobbero la verità dell’affermazione che il lancio di una moneta dà Testa nel 50% dei casi e che la condotta razionale di gioco è pagare 50 centesimi per guadagnare 1 euro se esce Testa. Non la riconoscevano perché la verità probabilistica non si racconta. Qualsiasi racconto della serie aleatoria Testa-Croce non è quello “vero”, perché un’altra serie equiprobabile, anche quella di Testa-Testa-Testa-…, avrebbe pari diritto narrativo. Cosa c’è di più irregolarmente variabile dell’esito del lancio di una moneta? Come farne una teoria scientifica? Sembra impossibile per la mentalità idealistica, non per quella scientifica.

Il calcolo delle probabilità nacque nel 1654 nel carteggio tra Pascal e Fermat, agli albori del capitalismo. Non meno del discorso scientifico, il capitalismo è, infatti, inimmaginabile senza calcolo delle probabilità. Ma non fu una nascita festeggiata. Si può dire che il modo di calcolare l’incerto non sia ancora entrato nel senso comune. Come Freud, Marx nel Capitale parla di probabilità solo per enunciati verosimili, sfruttando l’equivoco del tedesco wahrscheinlich che significa sia “probabile” sia “verosimile”. Il determinismo del dottor Freud e del professor Marx, il malfamato freudo-marxismo, sostenuto dall’“imperativo bisogno di causalità” di entrambi gli autori, è roba vecchia; censura il probabile, cioè il reale della scienza moderna, censura che fa comodo al dittatore per imporre le proprie certezze. Con aspetti ridicoli: verosimilmente i numeri del Lotto sono ritardatari rispetto alle attese, non equiprobabili.

Ma torniamo al punto di partenza. Cosa ci sta sotto S1 e S2? Consideriamo il discorso principale alla Lacan. Sotto S1 c’è il soggetto sbarrato $, sotto S2 l’oggetto del desiderio a. Nel caso biologico sotto S1 ci sta il soggetto collettivo o la popolazione biologica, mentre sotto S2 ci sta l’alimento della popolazione S1, che è regolarmente un’altra popolazione biologica S2. L’interazione tra alimento e alimentato produce un’oscillazione delle due popolazioni, accoppiate dalle equazioni differenziali di Lotka e Volterra (1925-26), modello di equilibrio variabile tra prede e predatori. Lo stesso concetto di interazione tra individui, nelle sue varianti dall’affettiva alla commerciale, è impensabile fuori da un contesto di variabilità; consegue all’appaiamento di valori di due variabili: valori concordi o discordi, interazione positiva o negativa. Lo stesso percorso educativo individuale è impensabile senza interazione tra individuo e collettivo, in particolare senza interazione tra generazioni.

La popolazione diventa soggetto della variabilità che ospita. Non c’è variabilità nell’individuo, che subisce l’effetto della variabilità collettiva; propriamente c’è variabilità solo nel collettivo. Di conseguenza non c’è scienza dell’individuo, come pretendono la clinica medica o psicanalitica; c’è scienza solo nel e del collettivo di molecole o di umani. Nel collettivo opera un sapere che trascende l’individuo; è un sapere inconscio che l’individuo non sa di sapere. L’intuizione di Jung dell’inconscio collettivo è giusta; corregge la visione individualistica di Freud, pesantemente medica. Nel collettivo risiede la rimozione originaria (Urverdrängung, 1915), che non sapremo mai come Freud sia arrivato a intuire; è formata da rappresentanti di rappresentazioni, le Vorstellungsrepräsentanzen, i significanti che non sono mai giunti né mai giungeranno alla coscienza individuale, perché giacciono nella coscienza collettiva, ma ciononostante operano nell’individuo, producendo effetti soggettivi a insaputa del soggetto individuale. La selezione naturale promuove la forma di coscienza vincente rispetto ad altre forme di coscienza nella cosiddetta (male) lotta per la vita. Per ora la coscienza di Homo sapiens ha vinto il confronto con forme di coscienza di altre specie umane, per la sua capacità di trattare e sfruttare la variabilità ambientale; senza prenderne coscienza si sta avviando all’autodistruzione, diventando competitordi sé stessa, attraverso la distruzione della variabilità ambientale. Quanto durerà?

E l’individuo che fine fa? L’individuo è semplicemente un corpo; i corpi sono portatori dell’anima collettiva in forme diverse. Con intuizione molto profonda lo riconobbe il diritto anglosassone che afferma habeas corpus: tu hai un corpo che non è tuo, vere parole di vita, pronunciate dal re, sommo sacerdote e padrone. Il collettivo è la somma variabile di corpi inalienabili. Per convincersi della variabilità basta scorrere i diversi risultati di un campionato di atletica. Il corpo è il substrato della variabilità, alimentata dal nascere e dal morire. La freudiana pulsione di morte è l’ultimo effetto sulla o della variabilità individuale, che Freud non riconobbe, tanto meno Empedocle: io nasco e muoio per far posto alla variabilità dell’altro, al diverso da me.

La genetica di Mendel introdusse nella scienza il concetto di variabilità individuale – dei piselli rugosi o lisci – che, con Darwin, trasformerà la genetica in scienza moderna, grazie all’introduzione del concetto di probabilità nel registro delle interazioni tra specie. Nel pensiero biologico di Darwin non opera la nozione di bios. Nel “lungo ragionamento” darwiniano tutto si riduce all’interazione tra componenti delle popolazioni biologiche. Sembra riduzionismo: il microcosmo spiega il macrocosmo, ma bisogna andarci piano. Sono dieci anni che, dopo il bosone di Higgs, il CERN di Ginevra non scopre più particelle elementari nello scontro tra protoni velocizzati. Anche la fisica va ripensata. Oggi l’infinitamente grande fa valere le sue ragioni sull’infinitamente piccolo. La gravità sfugge al riduzionismo. Quale destino per il materialismo? Hawking ha dimostrato che la materia lentamente evapora come radiazione dai buchi neri.

La variabilità è anche la base psicopatologica del comune delirio paranoico dell’io, che si sente perseguitato dall’altro; si sente diverso dall’altro e “interpreta” paranoicamente la diversità come causa della persecuzione dell’altro ai suoi danni, non riconoscendola come dato biologico di base, cioè come occasione di cooperazione sociale. La variabilità innesca perciò una peculiare forma di resistenza alla scienza moderna, che tratta l’infinito, avvertito dall’individuo come minaccia alla propria individualità. Quando parlavo di psicosi in assenza della nozione di variabilità, avevo in mente tale preciso precedente psicopatologico.

È richiesta una radicale conversione mentale per accettare la variabilità del reale. Freud non si convertì mai alla mentalità scientifica; non parlò mai né di variabilità né delle nozioni correlate di interazione tra individui diversi e di probabilità ad esse associate. Freud elaborò una psicologia delle masse individualistica, basata sull’identificazione del singolo con il Führer; trascurò le interazioni tra singoli non derivanti dall’identificazione comune; ammise solo gli affetti tra simili. Lasciò la probabilità al gioco dei tarocchi, cui dedicava il sabato sera. Non riconobbe, perciò, valore scientifico alla nozione di gioco, neppure di gioco linguistico, se non come gioco di parole, a volte poetico, all’interno del linguaggio ma non tra due interlocutori nel senso di Wittgenstein. Trattò solo il gioco autistico del rocchetto legato a un filo, che il nipotino lanciava via e riprendeva, esclamando nei due momenti Fort-Da (“lontano-qui”); lo pose a base della propria filosofia della ripetizione mortifera. Una volta di più non riconobbe la variabilità. Non capì che la coppia di significanti Fort-Da rappresentava una forma di variabilità binaria, di cui il giovane soggetto si impratichiva, isomorfa alla nostra coppia S1 e S2.

In conclusione, per essere freudiani dobbiamo, a differenza di Freud, prima diventare galileiani, magari ispirati dal breve ma trascurato saggio sulla Scoperta dei dadi (1612). Lì, istituendo la nozione moderna di spazio dei campioni, Galilei spiegò il piccolo paradosso di come mai, lanciando tre dadi, sia più facile “scoprire” il 10 del 9, benché sia uguale il numero di somme pari a 10 e a 9 di 3 addendi compresi tra 1 e 6.
 
Digressione etnico-psicologica
Quanto precede ha conseguenze molto semplici ma profonde sul piano psicologico individuale e collettivo rispetto alle tre passioni ontologiche fondamentali dell’uomo: l’odio, l’amore e la volontà d’ignoranza.

Tutto dipende dalla variabilità. L’odio nasce dalla percezione della diversità dell’altro. Se è diverso, non vorrà cancellarmi, per rimanere lui l’unico? Dalla percezione della diversità dell’altro nasce il “normale” (per Bleuler) delirio di diffidenza e di persecuzione. La scintilla dell’amore scocca, invece, tra due soggetti diversi, ma supposti uguali nel senso di complementari. Ci si innamora della propria immagine speculare, ritrovata per caso. L’odio esalta le differenze, l’amore le somiglianze; entrambi giocano con la variabilità; non ci sarebbe né odio né amore se non esistesse la variabilità. Il gioco, poi, sfocia e termina nella più comune volontà di ignoranza, che non vuole sapere né di uguali né di diversi, per chiudersi nel proprio narcisismo: esisto solo io, uguale a me stesso; non esiste variabilità, cioè non esiste l’altro.[2] Il populismo incarna l’identico a livello collettivo. In questo gioco narcisistico la filosofia fa la sua parte di prima donna, recitata in modo esemplare dalla monadologia di Leibnitz, dove abitano monadi senza finestre, cioè senza interazioni reciproche tra individui.

La psicologia delle masse di Freud è un artefatto leibniziano.[3] Gli individui freudiani sono monadi con una sola finestra, aperta verso l’alto, un lucernario che prende luce dal Super-Io collettivo, che li sovrasta. Ovviamente senza variabilità individuale non ci potrebbe essere interazione tra diversi; il mondo sarebbe immobile e non evolverebbe; resterebbe bloccato nelle mani del Führer, particolare che sfuggì a Freud.

Per questa via si crea il noi delle unità popolari, in versione populista, ontologicamente nemiche l’una dell’altra. La guerra è l’esito di una forma di paranoia collettiva; perciò dal neolitico in poi è esistita da sempre, e continuerà a esistere, alimentata dall’odio per il diverso, che è semplicemente odio per l’uomo e la sua umanità. Chi dichiara di non volersi integrare con altre razze, perché il diverso è il barbaro, riconosce la diversità degli uomini in modo narcisistico. Quello di razza non è un concetto scientifico ma politico, della politica più disumana. Allora il pacifismo è un’illusione filosofica; è il modo ingenuo di negare la variabilità; afferma che siamo tutti uguali, a eccezione di qualcuno; trasforma il variabile in eccezionale; crede così di promuovere la vita, invece pone le condizioni della sopraffazione violenta dei diversi, emblematicamente ebrei e omosessuali.
 
Postilla non filosofica
Senza variabilità non si può parlare di infinito, giustamente concepito da Aristotele come sempre più grande o senza limiti (apeiron), variabile per antonomasia. Basti dire che l’infinito è sempre diverso; a prescindere dalla relazione quantitativa, l’infinito è per antonomasia variabile. Perciò è osteggiato dall’umanesimo, che non sa ridurlo a una qualche forma di unità di cui narrare la storia. L’approccio umanista, che censura la variabilità, censura al tempo stesso l’oggetto del desiderio, l’infinito di Leopardi.

In conclusione, come signora della variabilità e custode della biodiversità, oggi la matematica si candida a essere la scienza regina della nostra civiltà. Tanto tempo fa regnava la storia, sempre parziale, scritta dai vincitori. Oggi vince la variabilità sulla fissità storica. Forse è meglio.



[1] Per precauzione Lacan dirà che il significante non significa sé stesso ma il soggetto per un altro significante. In matematica è scontato: la variabile x non vale “x”.
[2] L’altro, immaginario, o speculare, e simbolico, o linguistico, fu il modo antropomorfo di Lacan di trattare la variabilità. Anche a Lacan sfuggì la variabilità del reale, ridotto a impossibile, che non cessa di non scriversi. I numeri come pi greco sono “reali”.
[3] Ma Freud non aveva Leibnitz in biblioteca. Non lo citò mai nei suoi scritti.

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