Il primo motivo, di carattere pratico, per così dire, sta nel fatto che non tutti i colleghi analisti e psicoterapeuti possono facilmente aver accesso alle riviste in cui sono apparsi i saggi che qui Ogden riunisce in volume: parliamo, infatti, di riviste come The Psychoanalytic Quarterly, Psychoanalytic Perspectives, The Journal of American Psychoanalytic Association, e The International Journal of Psychoanalysis. Riviste che si possono reperire facilmente nelle biblioteche degli istituti e dei centri delle società psicoanalitiche e di psicoterapia dinamica, e in pochi altri luoghi universitari o istituzionali, a cui, però, non tutti possono facilmente accedere, e che difficilmente fanno tutte parte del carnet di abbonamenti di un singolo professionista. Pertanto, riunire i saggi in un unico e agile volume è sicuramente una buona cosa.
Il secondo motivo sta non solo nella Prefazione e nella Introduzione che Ogden ha scritto per questo volume (che è appena uscito in inglese: nel 2022) ma soprattutto nel fatto che costruendo l’architettura del testo egli presenta al lettore un vero e proprio percorso nel quale la sua peculiare visione della psicoanalisi e della relazione con il paziente emerge in modo limpido.
In uno dei saggi che sono qui riprodotti – “How I Talk with my Patients” (The Psychoanalytic Quarterly, LXXXVII, 3, 399-413, 2018) – Ogden dichiara che “forse le domande clinicamente più importanti, e le più difficili per me come analista professionista, non sono più quelle che concernono cosa dico ai miei pazienti, ma come io parlo a loro. In altre parole, il mio focus nel corso degli anni si è spostato dal cosa voglio dire al come… l’impossibilità di conoscere l’esperienza di un’altra persona ha importanti implicazioni circa il modo in cui io parlo con i miei pazienti” (p. 399 e 401 del Quarterly). Prendendo spunto da questa osservazione si può dire che questo libro testimonia il cambiamento di prospettiva che ha vissuto Ogden nel corso degli anni, sinteticamente raffigurabile nel passaggio da una psicoanalisi epistemologica (rappresentata da Freud e Klein) a una ontologica, i cui riferimenti sono Winnicott e Bion. Ed è proprio nei confronti di alcune delle opere più significative di Donald Winnicott che l’autore ingaggia un confronto tanto serrato quanto delicato e introspettivo sullo sfondo della concettualizzazione della mente come processo, un processo vivente, che vive nel momento in cui se ne fa esperienza.
Più e più volte tornano in queste pagine alcune domande di base come le seguenti: come funziona la terapia, cosa vuole il paziente, come si può definire la salute mentale, che rapporto vi è tra oggetti fantasmatici e oggetti reali… E, su tutte, emerge la domanda circa il come l’analista (e lo psicoterapeuta, per estensione) possa riuscire ad essere autentico nel colloquio con il suo paziente con il quale co-crea la seduta, con il quale gioca, con il quale è (è lì, presente) con tutto se stesso.
Riprendendo di nuovo Winnicott l’autore si interroga sulla sua stessa capacità di stare – stare ad ascoltare, senza intervenire – e sui possibili errori basati sulla spinta ad interpretare, anticipando il paziente e togliendoli la possibilità di giungere – lui stesso, per primo – a una formulazione creativa, ad una vera scoperta.
Affascinante il capitolo quarto in cui Ogden rilegge, ma soprattutto riscrive, uno dei saggi di Winnicott tra i più importanti ed anche tra i meno facili da comprendere (“L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso l’identificazione” – reperibile in Gioco e realtà. Armando, Roma, 1974) in origine presentato come relazione al New York Psychoanalytic Institute nel novembre del 1968, suscitando numerose perplessità. E per capire come l’autore legge e riflette su questa opera di Winnicott, ecco la sua stessa descrizione: “le idee che svilupperò in questo capitolo rappresentano la mia personale lettura dell’articolo di Winnicott e quel che ne scrivo, che cosa faccio di quello scritto, e soprattutto, cosa faccio con quello scritto” (p. 85).
L’ultimo capitolo – “La scrittura analitica come forma di narrativa” – nella sua semplicità vale da solo l’intero testo: tre sole pagine piene di poesia in cui l’autore esprime ciò che per lui rappresenta lo scrivere di psicoanalisi. Il dialogo interiore, che infine si esprime in un testo che è sempre autobiografico, diviene per Ogden una strada per individuarsi, per diventare autenticamente se stesso. A fronte di tanti casi clinici asettici basati sulla trascrizione delle sedute (in cui gli autori sembrano voler soprattutto mostrare come sono stati bravi nel condurre la terapia), Ogden contrappone la riscrittura, la narrazione, la costruzione, una sorta di fiction che non è assolutamente finzione né falsificazione ma che, al contrario, è vista dall’autore come qualcosa che si avvicina nel modo migliore a ciò che è davvero accaduto in seduta. E qui si collega la sottolineatura della distinzione tra spiegare e descrivere, e tra contenuto e processo, con l’avvertenza di usare pochi cliché, nessun termine tecnico, nessuno standard: “inventiamo continuamente storie sull’‘apparato mentale’ e, troppo spesso, crediamo alle nostre storie. Dimentichiamo che stiamo creando metafore, scrivendo di narrativa” (p. 179).
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