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LO STIGMA DEI DISTURBI MENTALI. La guida per combatterlo di Antonio Lasalvia

24 Set 22

A cura di Paolo F. Peloso

 
Autore: Antonio Lasalvia
Titolo: Lo stigma dei disturbi mentali. Guida agli interventi fondati sulle evidenze
Editore: Giovanni Fioriti
Pagine: 148
Costo: 15 euro
 
Mi sonoo avvicinato al libro di Antonio Lasalvia – che appartiene a quello che considero uno dei più interessanti gruppi universitari italiani, quello di Verona diretto un tempo da Michele Tansella e oggi da Mirella Ruggeri, oltre a essere per me un amico – Lo stigma dei disturbi mentali. Guida agli interventi fondati sulle evidenze (Fioriti, 2022) da un lato con molta curiosità, per la stima che ho per Antonio, ma dall’altro anche scontando io stesso un qualche “stigma”  che devo confessare nei riguardi della “lotta allo stigma”.
Personalmente, tendo infatti a diffidare un po’ – pur essendomi cimentato anch’io una quindicina di anni fa in iniziative un po’ artigianali e su piccola scala in questo campo che mi hanno, per ciò che vale, insegnato qualcosa e la lettura mi ha fatto ritornare in mente – delle iniziative di lotta allo stigma, in particolare di quelle condotte su larga scala e attraverso i grandi media. Mi pare, se posso espimermi con sincerità, che assomiglino a volte un po’ troppo alla pubblicità dei prodotti, e come in genere la pubblicità dei prodotti o le campagne elettorali scontino il rischio di essere percepite da chi ne è bersaglio (o almeno da me) come probabili fregature. E, d’altra parte, mi pare che la lotta contro lo stigma sia difficilmente affrontabile in se stessa, e non come parte della lotta (politica) all’esclusione, che abbia per obiettivo generale quello di una società più equa e più giusta con tutti.
Lottare contro lo stigma delle malattie mentali non significa dunque sostenere che sono malattie “come le altre” (lo sono perché possono generare sofferenza e, almeno temporaneamente, disabilità, ma non lo sono per molti altri aspetti); o che non sono “malattie”, nel senso suddetto, ma semplici variabili dell’umana esperienza; o che il disagio e la paura che a volte si possono provare di fronte a chi in un dato momento le manifesta non abbiano un fondamento, che merita di essere a sua volta tenuto in conto e compreso. Credo piuttosto, e mi sono sentito in questo in buona parte confortato dalla lettura del libro, che significhi cercare di evitare le generalizzazioni e i pregiudizi: cioè, senza negare che alcuni problemi possano verificarsi con più frequenza in presenza di una malattia mentale rispetto ad altre situazioni,  non fare di tutte le malattie mentali uno stesso calderone e non considerare tutti coloro che ne soffrono come un’unica “categoria” o un unico gruppo umano; né considerare tutti coloro che soffrono di una data malattia uguali tra loro; né dare per scontati sintomi, decorso ed esiti di una malattia, che possono essere molto diversi; né appiattire chi soffre di una malattia mentale su questa sola dimensione della sua esistenza, perché ne ha sempre molte altre (il libro parla correttamente di “persone con….” evitando termini che possano evocare l’idea di una totale egemonia della malattia sulle altre dimensioni della persona); e soprattutto dare, in generale e anche caso per caso, ai problemi che possono accompagnare una malattia mentale la giusta dimensione, in termini di frequenza, durata, consistenza ecc.




Superato questo iniziale “stigma”, dunque, mi sono impegnato nella lettura di un testo che mi ha decisamente soddisfatto per onestà intellettuale, per completezza e rigore metodologico, per la ricca bibiografia cui fa riferimento, oltre che per una buona leggibilità anche, che non è certo scontata in un testo scientifico.
Il libro ricostruisce la storia del termine “stigma” dalle origini nel mondo classico alla riproposizione, nell’attuale significato, da parte di Erwin Goffman nel 1963,  alle applicazioni cui è andato incontro nel campo delle malattie mentali (Lasalvia preferisce il termine un po’ anglosassone di “disturbi”, ma io preferisco parlare più francamente di malattie non perché di “malattie” in senso proprio si tratti, ma perché questa mi pare, tra tutte le possibili metafore con le quali è possibile avvicinarsi a definire queste umane esperienze così difficili da cogliere e definire nella loro singolarità e peculiarità, quella che più ad esse si avvicina) considerate sia nel loro insieme che nel caso delle più importanti e soggette a stigma tra di esse (schizofrenia innanzitutto – con un fuoco particolare sulle situazioni a rischio e sull’esordio – e poi depressione e disturbi d’ansia).
E ripropone una classificazione che distingue due macrocategorie, quella di come lo stigma viene avvertito, dall’interessato e dagli altri; e quella di come esso si traduce in comportamenti, atti,m norme stigmatizzanti. All’interno di esse si collocano i diversi aspetti che lo stigma può assumere.
Ho particolarmente apprezzato, del volume, i capitoli dedicati allo stigma verso le persone con una malattia mentale nell’ambito del mondo sanitario, uno stigma che tende a estendersi spesso tra i colleghi cultori di altre discipline anche al loro atteggiamento verso la psichiatria, i suoi luoghi e i suoi servizi. Non è infrequente imbattersi, nell’ambito del sistema sanitario o del welfare, in luoghi o servizi pensati con la condizione che ”i pazienti psichiatrici”, o con termine ancora più antipatico “gli psichiatrici”, non vi accedano; e ciò a prescindere dalla questione di chi sarebbero poi “gli psichiatrici”, visto che solo tale non lo è mai nessuno, o dal fatto che i sintomi e la condizione clinica di un  soggetto sia o meno effettivamente incompatibile conm la fruizione di quel servizio o la permanenza in quel luogo.
E ancora di più ho apprezzato il capitolo sullo stigma di noi operatori della salute mentale verso i pazienti, perché mi pare che esso corrisponda nella sostanza al concetto di “istituzionalizzazione”, al quale ci si riferiva qualche anno fa, che costituisce uno dei temi centrali del libro che ho dedicato recentemente alla possibilità di un Ritorno a Basaglia?.
Il fenomeno è affrontato qui con grande pertinenza sia per ciò che riguarda i diversi aspetti che può assumere, il riferimento agli studi effettuati indagando con diversi strumenti il vissuto che ne hanno i pazienti, e per ciò che riguarda i modi efficaci di contrastarlo.
Tra questi ultimi, vengono giustamente ricordati quegli interventi volti alla restituzione di responsabilità e di potere all’altro attraverso la promosione dell’autoaiuto.
Lo stigma può consistere, in questo caso, in sostanza in comunicazioni o comportamenti (a volte consapevoli ma più spesso inconsapevoli), che il singolo operatore o il gruppo di lavoro possono mettere in atto nei confronti di un singolo paziente o di “categorie” di pazienti considerate nel loro insieme. Con il termine “alienazione maligna” Lasalvia riporta che ci si riferisce in letteratura a quei casi nei quali l’operatore può mettere in atto, consapevolmente o meno, comportamenti volti all’allontanamento dalla presa in carico e dalle cure dei pazienti il cui decorso si presenta più complesso (quelli che sono di volta in volta definiti come pazienti difficili o, come proponeva qualche anno fa Fabrizio Asioli, i pazienti “ingrati”, o semplicemente possono essere avvertiti come antipatici o pregiudizialmente ostili).
Nei primi anni 2000 è stato condotto a partire dal nostro Centro diurno, e dai servizi di Ceva e Mondovì, una ricerca sugli operatori della salute mentale e sulla popolazione generale (Canavese, Caviglia e Cereghini su Il vaso di Pandora del 2005) volta a cogliere la rappresentazione sociale delle persone affette da una malattia mentale. I risultati in quel caso furono che, forse anche per la limitatezza del campione, tra operatori della salute mentale e comuni cittadini non era possibile evidenziare grandi differenze; ma era possibile cogliere, invece, in entrambi i casi differenze significative tra le risposte fornite attraverso il metodo delle domande chiuse e quelle fornite attraverso le libere associazioni, dalle quali trapelava una percezione più caratterizzata da pregiudizi negativi e ciò faceva pensare che lo stigma era più operante a livello profondo, mentre dava minor segno di sé quando le rissposte erano più in rapporto con il controllo razionale delle proprie emozioni, un livello al quale evidentemente trent’anni di Legge 180 avevano lasciato tracce.  
Ancora, mi sono parsi molto importanti nel volume i richiami agli aspetti relativi allo stigma internalizzato da parte del paziente, o autostigma, cioè alla misura nella quale lo stigma viene fatto proprio dalla persona che ne è oggetto, la quale finisce così per sentirsi pericolosa, o inaffidabile, o inabile come la vedono gli altri e per rinunciare, di conseguenza, ad esercitare abilità che in realtà non ha perduto o cogliere opportunità che potrebbero giovargli.
Si tratta di un tema delicato, perché credo che possa essere facile, specialmente al momento dell’esordio di una malattia mentale, confondere ciò che può essere ritiro sociale inteso come sintomo della stessa malattia, ciò che può essere interiorizzazione dello stigma del quale ci si sente oggetto e ciò che può essere invece un sentimento che merita credo rispetto di insicurezza e di pudore, che nasce dal un’autopercezione in termini di insicurezza e dalla vergogna nel mostrarsi agli altri in un momento di difficoltà volta anche a proteggerli dall’imbarazzo e dal dolore.
Credo che sia stato questo il caso ad esempio, sul quale ho già avuto occasione di soffermarmi, di Maria, una studentessa di vent’anni che manifesta i sintomi di un esordio schizofrenico e si sente insicura, perciò non si sente di far nulla, e non vuole uscire né rimanere in casa se non in compagnia di un familiare che le garantisca dall’esterno quel controllo interno del quale non si sente più capace. E che prova vergogna di mostrare questa sua nuova condizione a chiunque non appartenga alla cerchia intima della famiglia. Poi, quando se la sente, con il miglioramento dei sintomi è lei stessa a decidere quando riaprirsi, piano piano, al mondo.
In altri casi invece il freno nel quale ci si imbatte quando si propone a qualcunodei nostri pazienti di procedere sulla strada della riabilitazione e della recovery sembra più chiaramente riferibile all’autostigma. E ricordo, quando mi è capitato di trovarmi a offrire le poche e preziose risorse delle quali mi capitava di disporre nei campi della qualità della vita (le gite, lo sport ecc.) o del lavoro, alcune risposte evidentemente condizionate da provvedimenti sociali che, pensati come beneficio, veicolano inevitabilmente lo stigma: “Dottore, ma lei è matto: non sa che sono invalido al 100%?”. “cDottore, lei mi propone di guadagnare 200 euro con una borsa lavoro, ma rischio di  perdere i 500 che ricevo tra invalidità e accompagnamento”.  
Il volume di Lasalvia, oltre ad evocare credo a ciascuno di noi le sue esperienze sulla piccola scala dell’incontro clinico, intende avere anche una fruibilità di ordine pratico ed perciò entra nel merito degli strumenti standardizzati per la lotta contro lo stigma e l’autostigma. Mi è parso particolarmente interessante tra questi, e mi piacerebbe che riuscissimo ad attuarlo nella nostra realtà, il Honest and Open Proud Program, che leggo che è stato reso disponibile in italiano da Giulia Reali e Paola Carozza sul sito della SIRP.
Mi pare importante, poi, l’attenzione di Lasalvia per quel fenomeno, collegato all’autostigma ma ad esso non  corrispondente, che può portare la persona a evitare le cure psichiatriche, o i luoghi dove vengono erogate, per non essere stigmatizzata, il che può essere un evidente ostacolo al fatto che acceda alle cure e le opportunità che gli sono necessarie.
Dello stigma operante nella popolazione generale il libro insiste particolarmente sull’importanza del ruolo, in senso negativo o positivo, che hanno i mass-media, sulla quale non credo di dovermi soffermare. Lasalvia propone vari aspetti del problema e vari strumenti di intervento che sono stati suggeriti per migliorare la rappresentazione delle malattie mentali, o di fenomeni come ad esempio il suicidio, da parte dei media, e fa riferimento al lavoro che tecnici della salute mentale, associazioni e giornalisti hanno fatto insieme per la redazione, nel nostro Paese, della Carta di Trieste, una strada che è stata intrapresa ma sulla quale sarebbe necessario proseguire.
Tra gli interventi volti alla lotta allo stigma in popolazioni target, come ad esempio gruppi di studenti, nel volume viene sottolineata la maggiore efficacia di quegli interventi che vedono protagonisti i portatori stessi del problema (meglio se direttamente presenti, e non “da remoto”). Mi pare del resto intuitivo che sarebbe una comunicazione poco credibile quella che dicesse: non è pericoloso, è abile, è una persona con la quale è possibile una normale relazione, ma al posto suo preferiamo proporvi un video anziché la sua presenza, oppure siamo qui noi a rappresentarlo.
Sempre nei primi anni 2000, il nostro Centro diurno ha promosso, in collaborazione con due scuole superiori del nostro territorio, un intervento di lotta allo stigma che abbiamo un po’ pomposamente chiamato “Sestri a-stigmatica”. Ci eravamo rifatti a esempi che erano stati posti in essere in quel periodo a Trento, Cuneo, Busto Arsizio, Cremona, Legnago, Bologna, Piacenza, Rovigo, Roma, Carbonia, Portogruaro e che si basavano sulla proposta di video, la discussione di film (in quel momento andava per la maggiore A beautiful mind sulla storia del matematico John Nash), visite degli studenti al Centro diurno, attività sportive in comune tra studenti e pazienti e incontri e testimonianze dirette nelle scuole.  
Nel nostro caso l’attività prevedeva, prima di proporre la collaborazione di qualche studente più curioso in occasione di iniziative pubbliche del Centro, un incontro tra gli studenti e una “delegazione” del Centro diurno composta da uno di noi che illustrava l’evoluzione del trattamento delle malattie mentali e l’attuale organizzazione dei servizi, cercando di connetterla al programma scolastico di storia generale; l’intervento di una delle studentesse del corso di TeRP che facevano il tirocinio presso il Centro, dunque di una coetanea, quasi, degli studenti; e l’intervento di uno dei pazienti che si era offerto per farlo. Come il testo di Lasalvia documenta sulla base della ricerca internazionale, a destare palpabilmente maggiore curiosità, attenzione e domande era anche nel nostro caso l’intervento del paziente. Il quale ne aveva beneficiato a sua volta, sentendosi chiedere di “esserci” in prima persona e di non delegare ad altri la sua rappresentanza perché la sua, pur dolorosa, esperienza, poteva interessare e non era qualcosa di cui doversi vergognare.
Lui stesso, riportò l’esperienza sul mensile del nostro municipio in questi termini, che mi piace riprendere: “Certo mi sentivo teso e spaventato, non solo per come sarei stato accettato e accolto, ma anche perché quando sarei uscito avrei potuto incontrare i ragazzi fuori. Mi sentivo intimorito, sia perché è una caratteristica del mio carattere sia perché non conoscevo il grado di maturità dei ragazzi e il rispetto che avrebbero avuto per me. Le classi con cui ho avuto a che fare sono state quinte e quarte; sono stato colpito dalla maturità dei ragazzi che non solo non mi hanno per niente disturbato e schernito, ma anzi hanno colto l’occasione per discutere a ruota libera, facendomi anche domande pertinenti su argomenti che avrebbero potuto essere  imbarazzanti (l’inizio dei miei problemi, il rapporto tra malattia mentale e violenza, reddito, relazioni famigliari). Invece mi sono sentito a mio agio e ho provato un’enorme emozione quando alcune studentesse mi hanno chiesto se potevano visitare il centro diurno, in modo da poter vedere com’è una persona con problemi psichici e come si cura. Prima di uscire mi sono complimentato con professori e studenti. E dopo, mi ha fatto piacere incrociarli per strada, e salutarci come vecchi conoscenti”.
Analogamente, mi pare facilmente intuibile il fatto, che il testo documenta, che anche iniziative di protesta e di advocacy che hanno per oggetto gli interessi dei portatori di una malattia mentale e dei problemi che questa comporta vedano, tra i protagonisti, i diretti interessati e le realtà associative alle quali sanno dar vita. Lasalvia considera nel volume le campagne anti-stigma poste in essere negli ultimi vent’anni nel mondo in Nuova Zelanda, Australia, Scozia, Inghilterra, Canada, Svezia, Danimarca e Spagna e individua tra esse alcuni elementi comuni nel fatto che la leadership sia assunta da persone con diretta esperienza di problemi di salute mentale e di empowerment; nel fatto che i messaggi siano volti a trasmettere una sensazione di speranza, recovery e dignità e a promuovere l’uguaglianza e i diritti umani; che siano implementati il più possibile gli interventi basati sulle evidenze; che siano individuati come duplice target degli interventi la popolazione generale e le persone con problemi di salute mentale e le loro famiglie; che questi programmi siano concepiti come interventi sul medio-lungo periodo e non abbiano carattere solo estemporaneo.  
Insieeme all’analisi sempre riccamente documentata di tutti questi aspetti della lotta allo stigma, Lasalvia considera – e questa credo che sia, almeno nella letteratura scientifica italiana, l’elemento di maggiore novità del volume – i diversi strumenti che possono essere presi in considerazione, illustrati in rapporto alla rispettiva efficacia e ai diversi modi per misurarla.
Prima di giungere alla conclusione, non trascura un dibattito che vede in questi anni impegnato il mondo degli specialisti e delle associazioni, e che ha visto impegnato anche Mario Maj negli anni nei quali presiedeva la WPA, sull’opportunità, o meno, di consegnare il termine “schizofrenia” alla storia cercando, per la definizione di questa sindrome (di questo “gruppo” eterogeneo di sindromi, personalmente mi ostinerei a dire con Bleuler) un’altra definizione. Certo gli argomenti a favore di questa ipotesi, alla quale mi pare che lui guardi con interesse, non mancano: il vissuto di inguaribilità ed esito ineludibile in cronicità e depauperamento intellettivo che accompagna questo termine nella pubblica opinione, non senza responsabilità da individuarsi nella storia della psichiatria certo; l’impropria associazione con la violenza; e, ancora più grossolana, la persistente confusione tra schizofrenia e disturbo di personalità multipla.
Tuttavia, personalmente io sarei portato a guardare a questa operazione terminologica (sempre che dopo oltre un secolo di “schizofrenia” sia possibile, e non lo darei per scontato) con un certo scetticismo, come a una sorta di “maquillage”, alla quale mi parrebbe preferibile un – altrettanto difficile, me ne rendo conto – lavoro di de-stigmatizzazione (e magari anche pluralizzazione) del termine ”schizofrenie” da parte in primo luogo della comunità scientifica al suo interno, e poi fuori. Non mi piacerebbe, domani, dover usare il nuovo termine (sempre che si trovi un accordo su quale) con un paziente che mi chiede di conoscere la sua diagnosi, per poi di fronte alla sua espressione perplessa dovergli dire “sì, sa è quella che prima si chiamava schizofrenia”.
Meglio mi parrebbe mantenere questo termine, e accompagnarlo con le informazioni scientifiche del caso sugli esiti in guarigione e sui pregiudizi errati e i pregiudizi dai quali occorre guardarsi.
Della difficoltà di questo cambio di denominazione e dei limiti che quest’operazione potrebbe avere mi pare consapevole Lasalvia, il quale scrive a questo riguardo: «Cambiare semplicemente nome non risolverebbe il problema dello stigma, che origina da assunti di fondo (errati) sulla natura dei disturbi mentali e da reazioni irrazionali nei confronti di questi. Tuttavia, cambiare nome può rappresentare un primo passo importante».
Dunque, il dibattito è aperto e ad esso può senz’altro contribuire questo libro, il quale ci presenta lo stigma nella molteplicità delle angolazioni sotto le quali si può presentare per rendere più dolorosa e più difficile la vita di chi già soffre per una malattia mentale, tanto da spingere qualcuno a riferirsi allo stigma come a una seconda malattia che si aggiunge alla prima. Lasalvia ci invita a combatterlo, in primo luogo dentro noi stessi, i nostri gruppi e nei nostri pazienti e le loro famiglie, e poi tutto intorno in un mondo che a volte i pregiudizi contribuiscono a rendere più impaurito, più egoista, più chiuso proprio quando più l’apertura all’altro sarebbe necessaria. E ciò riguarda chei è affetto da una malattia mentale, ma tanti altri che sono oggetto di esclusione e di stigma insieme a lui.

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