1) Il paradosso nella devastazione e nel disastro
La mia interrogazione sulla malattia parte da questa domanda: perché l’uomo si ammala?
La risposta che la psicoanalisi ha costruito, da Freud in poi, è la seguente: L’uomo si ammala per resistere alle cure dell’Altro che lo ha ammalato e si cura contro la sua stessa malattia domandando all’Altro una guarigione che egli stesso rifiuta.
Questa risposta apre a una ulteriore domanda: Perché le cure dell’Altro hanno come effetto la malattia come resistenza?
Il concetto di resistenza applicato alla cura, ma anche alla relazione edipica familiare, venne chiarito nel 1923 da Freud in l’Io e l’Es quando parla della resistenza terapeutica negativa intesa come resistenza alla cura in quei soggetti dove non si manifesta una particolare volontà di guarigione, bensì si sviluppa un attaccamento alla malattia, un rifugio, e al tempo stesso un pensiero che dimostra come la guarigione non sia uno stato di salute particolarmente chiaro: infatti da che cosa bisogna guarire, si chiede Freud, se i pazienti sono profondamente attaccati al loro narcisismo, narcisismo che li sottrae all’influenza della cura dell’Altro?
Evidentemente, nelle cure dell’Altro materno c’è qualcosa che il soggetto umano non tollera, non sopporta, ma ne è sedotto e così, prima sceglie di ammalarsi e poi sceglie di rifiutare la cura invocata; in quest’atteggiamento si può notare come è dall’Altro materno che il soggetto eredita quel narcisismo mortifero che alla madre serve per trasmettere al figlio qualcosa che dà soddisfazione soltanto a lei stessa, mentre nel figlio, inteso anche come soggetto in trattamento, la resistenza alla cura, che comincia prima con la madre e poi prosegue nelle cure del trattamento analitico, si manifesta come resistenze nel transfert che diviene un comodo luogo per la ripetizione dello stato iniziale infantile, piuttosto che luogo del cambiamento. Da sottolineare che la resistenza alla cura è un atto non consapevole, infatti è il corpo del soggetto che precocemente sceglie, ovvero risponde a un disagio, e mostra dei segni che si scrivono sul corpo stesso e che poi divengono segni che conferiscono nel tempo un’identità al soggetto, un’immagine e addirittura una personalità e un carattere di cui il soggetto stesso gode nella società utilizzando quei segni come ruolo oppure per darsi un nome anche con la malattia; è il corpo, in definitiva, che sceglie la propria identità malata non il soggetto che aderisce a quest’identità. Ovviamente, quando parlo di malattia e guarigione, tengo conto in primo luogo dell’esperienza concreta della pratica psicoanalitica che direttamente può constatare questi stati corporei ascoltando il soggetto portatore di un sintomo o in modo più generico di un disagio. Pertanto, la constatazione di un limite all’influenza dello psicoanalista sulla cosiddetta guarigione, conduce Freud a mostrare che il paziente in cura tiene inconsciamente – ovvero su un altro piano rispetto a ciò che dice e dichiara di volere – alla sua sofferenza e alla sua malattia, e che il suo sintomo non è soltanto un segno clinico da cui lo si deve liberare ma è qualcosa a cui si aggrappa: infatti esiste un beneficio della malattia che è il nucleo fondamentale della nevrosi sintomatica che Lacan fa rientrare nella dimensione etica dell’inconscio letto dal punto di vista della funzione dei beni goduti dal soggetto. A che serve questo beneficio che ha appunto a che fare con la funzione del bene in psicoanalisi? Lacan afferma che il bene ha dovuto situarsi da qualche parte sulla barriera che separa il soggetto dal suo proprio desiderio: pertanto la malattia è un beneficio per il paziente in quanto è un ostacolo che separa il soggetto dal suo desiderio, dunque è un ostacolo per la psicoanalisi in quanto essa è un’esperienza che invita il paziente che l’ha scelta alla rivelazione del suo desiderio, tenendo presente che non sempre la domanda d’analisi è scelta dal paziente ma risulta essere un invio di qualcun-altro cui obbedire perché non gli costa tutto sommato nulla e anche il denaro investito è un investimento sul nulla, ovvero, in questo caso, il denaro è un oggetto inflazionato che non costa nulla.
Torniamo alla risposta e cerchiamo di capirla definendo meglio chi è l’Altro da cui scaturisce la voglia dell’uomo di resistere alla cura.
Se leggiamo bene la tesi proposta, possiamo osservare in essa un andamento labirintico che si organizza intorno a un posto vuoto chiamato soggetto dell’inconscio che detronizza l’uomo dall’essere al centro della costruzione labirintica che è la vita; infatti l’uomo entra nella vita occupando un posto che l’Altro gli assegna in anticipo anche prima di nascere; basta pensare alle fantasie immaginarie della madre in attesa o alle aspettative del padre. Queste fantasie e aspettative che non si concretizzano nella vita, al tempo stesso procedono tenacemente e ostinatamente contro ogni evidenza perché quel figlio atteso, ora reale, deve corrispondere per forza a quanto desiderato e pensato e questa forzatura paradossale riappare proprio come una delle caratteristiche della malattia che attraversa l’uomo e la sua anima e che comunque anche il corpo registra in forma di tensione forzosa o di stress depressivo o rabbioso.
Il soggetto dell’inconscio, come ente vuoto, viene riempito dai codici significanti dell’Altro genitoriale: i genitori, a loro volta soggetti vuoti, si inscrivono nella dimensione discorsiva culturale e sociale dell’Altro sociale nel quale occupano a loro volta il posto di coloro che debbono occuparsi dei figli e se ne debbono occupare secondo le regole stabilite dalla cultura d’appartenenza: ovvero non sempre se ne occupano secondo il desiderio di occuparsene.
Questo duplice alienazione del piccolo d’uomo e dei suoi genitori è causata dall’Altro della cultura, con cui ogni soggetto in gioco nell’esperienza familiare ha che fare, che decide, produce una dimensione che designa sempre uno scarto, un resto che non permette mai il realizzarsi dei desideri e dei bisogni di chi li pensa. Questa dimensione di scarto è la dimensione detta, dalla psicoanalisi, del reale del godimento che riguarda non solo tutto ciò che fa resto e scarto rispetto a ciò che l’uomo vuole e desidera, ma che designa, anche, la dimensione paradossale del ripetersi della resistenza umana alla guarigione, infatti designa un amore per la vita malato di masochismo, masochismo che ha come caratteristica principale l’amore per il disastro e l’amore per la devastazione: ed è questo paradosso che governa e che muove l’inconscio, in quanto è il vero padrone dell’esistenza dell’uomo. Quanto ho detto non è mera teoria ma emerge dalla clinica del colloquio e dalla narrazione della malattia così come i pazienti la raccontano in analisi e così come descrivono il loro rapporto con il disagio che la vita procura loro a partire dal paradossale, e per questo motivo mal tollerato, legame affettivo con l’Altro genitoriale e l’ambiente di formazione.
Nel paradosso c’è sempre, direi per struttura, uno scarto tra il primo momento (malattia come resistenza alle cure dell’Altro) e il secondo momento, (resistenza alle cure che il soggetto stesso domanda all’Altro) l’uno in direzione contraria all’altro e lo scarto sta proprio in ciò che unisce due elementi contrari, lo scarto sta proprio nel fatto che ciò che unisce i contrari è un elemento che come il godimento è anch’esso paradossale; l’inconscio è dunque paradossale per struttura ma non conosce la contraddizione, pertanto nemmeno il paradosso nell’inconscio è dell’ordine del contraddittorio ma è dell’ordine della univocità e quindi non ha senso scioglierlo perché non esiste come elemento patologico da eliminare. Il godimento che è connesso all’inconscio è una dimensione da cui l’inconscio non si può e non si deve sciogliere in quanto gli appartiene come accessorio fondamentale. Invece l’uomo, nella sua vita quotidiana, così come nella sua vita interiore, essendo implicato nell’inconscio come soggetto, dà una risposta all’inconscio stesso facendo di tutto per eliminare il paradosso del godimento cui appartengono l’inconscio e le sue manifestazioni perché, appunto, all’inconscio come discorso dell’Altro, si unisce la relazione con la risposta del soggetto che cerca invece il senso (della vita).
Infatti per es. se prendiamo la devastazione e il disastro, che sono tra le categorie cliniche in cui il soggetto patologico contemporaneo manifesta il proprio sintomo, queste dicono qualcosa, ci dicono del tentativo del soggetto di azzerare e svuotare ogni cosa di positivo che si forma dal suo essere, cioè dal suo corpo pulsionale, ovvero ci dicono del tentativo di annullare ciò che si costruisce o che si sta costruendo come desiderio nel proprio orizzonte personale o sociale: desiderare infatti significa misurarsi con la propria mancanza e ciò spaventa il soggetto moderno perché egli non riesce a capirne il senso e non riesce a capire dove collocarsi rispetto a questa mancanza.
Il soggetto disastrato o devastato non tollera il vuoto parziale perché prodotto dal desiderio, è un vuoto circoscritto, cioè sentito come circoscritto a un oggetto pulsionale personale e dunque tende il soggetto paradossalmente a svuotare tutto quello che gli appartiene perché in questo modo, nell’azzeramento di ciò che è suo, viene mantenuto ancora il suo legame con l’Altro materno e con le sue attese che dispensa la sua sostanza scopica emanando uno sguardo che incenerisce e impedisce al soggetto la via della separazione soggettiva: svuotarsi significa rigettare ogni cosa incorporata e rendere lineare, cioè fare di tutta un’erba un fascio, fare un Unico godimento dell’eguale, buttare via il bambino e l’acqua sporca.
Gli effetti clinici del legame con l’Altro sono rovinosi e tenaci, infatti vi è una forte resistenza al cambiamento perché guarire è una promessa che non concerne la psicoanalisi e dunque nemmeno l’inconscio. Erroneamente guarire significa per il soggetto devastato o disastrato essere pieno, quel pieno che viene desiderato e rincorso dal soggetto contemporaneo che lo desidera perché ha paura del vuoto, ed è da questa paura che derivano altre forme patologiche che tendono a eliminare per altri motivi il paradosso del desiderio (come accade nelle forme bulimiche e tossicomaniche).
La psicoanalisi dunque, come si può capire, mette in evidenza con la stessa sua pratica, quanto sia necessario per il soggetto poter pensare di non poter sciogliere né eliminare il paradosso che costituisce l’inconscio perché il paradosso come elemento contradittorio nell’inconscio non esiste come tale, infatti perché ci sia contraddizione è necessario introdurre la dialettica con il soggetto che dà una risposta all’inconscio stesso. Al contrario è necessario saper abitare il paradosso utilizzando lo scarto di godimento che deriva dal mantenere, sapendosene servire, sia il vuoto che il pieno, il vuoto utile per metterci qualcosa di proprio come controparte rispetto a quanto i significanti dell’Altro familiare hanno prodotto all’interno del soggetto; dunque si parla di un vuoto controllato e di uno svuotamento almeno parziale dei significanti. Per quanto riguarda il pieno dei significanti, questo è utile proprio perché all’inizio della vita di un soggetto questo tipo di riempimento dei significanti dell’Altro materno è necessario perché senza di essi il soggetto non esisterebbe come soggetto parlante e non potrebbe nemmeno separarsi dall’Altro e dunque non potrebbe svuotarsi dell’Altro . Questa ultima considerazione ci fa capire come, sia nelle patologie derivanti dalla devastazione che in quelle derivanti dal disastro, il soggetto in realtà lavora per non separarsi dall’Altro.
Infatti Freud scoprendo l’inconscio ha scoperto come il soggetto che coincide con esso sia determinato e dipendente dal discorso dell’Altro e dalle sue regole e leggi. Quando un bambino viene al mondo è accolto dentro queste regole e leggi determinate storicamente, occupa un posto in un contesto che si chiama ambiente familiare che è l’insieme delle dinamiche e delle vicende che la famiglia mette in scena nel mondo e la cui trama, composta da significanti, si chiama romanzo familiare.
Ebbene, al centro di questo romanzo allargato c’è l’ambiente familiare che ruota intorno al dramma edipico che coinvolge il bambino-infans e l’Altro genitoriale: questo dramma riunisce il meccanismo della gelosia, con quello dell’invidia che sono forme erotiche e tanatologiche assolutamente consustanziali alla realtà familiare che a sua volta mette in moto quel sentimento paradossale avvertito dal paziente durante l’analisi che Freud chiamò perturbante che indica un sentimento che il soggetto prova e che è un misto di familiarità e di estraneità che procura angoscia: ovvero ciò che è familiare e vicino, il soggetto lo avverte come pericoloso, estraneo e lontano e ciò che è salutare, il soggetto lo avverte come malato, ma anche, all’opposto, ciò che è lontano ed estraneo, il soggetto lo avverte come familiare, vicino e salutare.
Sia nella devastazione che nel disastro e nelle patologie che ne derivano, l’elemento perturbante e paradossale viene azzerato, o meglio, il perturbante familiare si mantiene ma viene confuso con gli scenari fantasmatici inconsci che si mostrano nel sogno e nelle fantasie diurne dei paesaggi deserti, spopolati e vuoti oppure paesaggi rovinati e neri; pertanto l’angoscia non causa apprensioni al soggetto, non essendo visibile l’oggetto specifico del suo tormento: in questo modo non compare il paradosso legato all’ambiguità del familiare e dell’estraneo, di nuovo è tutto lineare e piatto, tutto finisce per avere lo stesso valore confusivo che è pari allo zero. Voglio concludere questo paragrafo con una frase di Lou Andreas Salomè nella sua Corrispondenza con Rainer Marie Rilke: «Se ti avventuri libera nel non conosciuto, non sarai responsabile che di te stessa».
2) Il corpo e la malattia
È con questo aspetto paradossale dell’inconscio che il soggetto deve continuamente fare i conti.
Riassumendo: il soggetto è un posto vuoto riempito da ciò che avviene nell’Altro genitoriale e ciò che riempie il soggetto lasciandolo però paradossalmente vuoto, è l’insieme dei significanti che lo rappresentano nel mondo. Ora, il significante che rappresenta il soggetto presso un altro significante, quello della cultura dell’Altro paterno, del sapere da cui dipende la vita del soggetto, riguarda anche ciò che definisce la malattia e la salute del soggetto stesso e questo determinismo derivato dai significanti dell’Altro genitoriale non è biologico-organicistico, ma linguistico, ovvero è il linguaggio la dannazione del soggetto, la sua condanna ma anche la sua vitalità: rispetto al determinismo biologico di ordine medico la psicoanalisi ha scoperto il determinismo del linguaggio inconscio derivante dai significanti dell’Altro da cui discendono il modo di parlare e di agire del soggetto la sua propria malattia e il modo di rispondere a essa.
Si può dire che l’uomo è strutturalmente patologico cioè sofferente in quanto affetto da passioni e il suo essere dunque è sempre mancante di qualcosa e quindi egli deve necessariamente dipendere dall’Altro, ma questa dipendenza necessaria può essere non tollerata o mal sopportata dal soggetto e dunque quest’ultimo può organizzare, anche senza rendersene conto, risposte che hanno a che fare con la malattia o anche con la resistenza alla cura dell’Altro perché l’Altro gli fa sentire in qualche modo il peso di queste sue cure e lo riporta al determinismo iniziale.
La potenza del significante dell’Altro inizia a farsi sentire sul corpo del soggetto fin dalla nascita e tale potenza consiste nell’ascrivere all’infans, cioè nell’attribuirgli un carattere che lascia un segno sul corpo, segno che determinerà il modo del soggetto di sentire il dolore, così come il piacere: ma questa iscrizione del significante porta sul corpo, inevitabilmente, tutto il peso della potenza e della presenza necessaria, comunque, dell’Altro, necessaria nell’inconscio del soggetto e incisiva sugli effetti sintomatici della vita del soggetto medesimo.
C’è un significante che nella storia del soggetto umano ha determinato più di ogni altro la vita del soggetto stesso, un significante che fa della potenza della scrittura del segno sul corpo la sua funzione, tanto che si mette al servizio di tutti gli altri significanti. Questo significante ha una funzione precisa, quella di ascrivere al soggetto un limite detto da Freud principio di realtà, realtà entro cui il soggetto deve muoversi in quanto ne è obbligato; questo significante speciale e potente si chiama Super-Io ed è il significante della Legge dell’Altro genitoriale. Il soggetto fin da subito risponde al programma che l’Altro ha in serbo per lui costruendogli una mappa corporea oggettiva (il corpo che ho) fatta di precetti, regole per la salute, ma anche di sentenze (tu sei colitico e lo sarai per sempre, tu sarai per sempre ansioso è la tua indole, ecc.). Questo insieme di attribuzione di significanti si configura come il corpus oggettivo in cui il soggetto è preso e alienato, ma questa imputazione non è una semplice attribuzione di caratteristiche soggettive ma è anche un’incisione del padrone sul corpo che non sa che cosa gli stia succedendo, ma che al tempo stesso sente qualcosa di ciò che gli sta succedendo. Intorno alla dimensione del sentire la psicoanalisi, con Lacan, ha scoperto l’altro elemento che connota la dimensione soggettiva del corpo e che si traduce nella frase «io sono il corpo»: questa dimensione soggettiva del sentire il corpo non riguarda più il livello di attribuzione del significante genitoriale che lascia una scrittura sul corpo del bambino, ma riguarda la risposta del soggetto al comando del significante: «il soggetto è dunque sottomesso ad una indeterminazione primaria alla quale risponde. È questa risposta stessa che lo costituisce come soggetto. Il soggetto è dunque risposta, risposta del reale». (Scilicet, Scritti di Jacques Lacan e di altri, Feltrinelli Milano 1977, pag. 358).
Il soggetto organizza la propria risposta nei confronti della potenza del significante dell’Altro che lo costituisce come soggetto, senza tuttavia sapere cosa stia facendo, (il soggetto è ignorante); tale risposta si avvale sia della parola, che è un dono del linguaggio dell’Altro, sia di ciò che il corpo sente nella sua dimensione d’essere corpo emotivo-affettivo: questa dimensione Lacan la chiama godimento ed è una dimensione psico-affettiva che eccede il piacere e tende semmai verso una sofferenza mortifera che il soggetto è obbligato a ripetere sia nelle forme meno organizzate, quelle del corpo che gode rivelato dal segno (psicosomatica), sia in quelle più organizzate e articolate nella vita dell’uomo che ricorre alle patologie nelle quali il godimento del corpo si esprime nei comportamenti e nella condotta quotidiana che scandisce l’agire del soggetto.
Mettiamo in serie quattro punti che sintetizzino il rapporto tra il corpo e il soggetto in riferimento alla malattia.
1) La malattia nel soggetto si organizza facendosi spazio attraverso il corpo nella fase primaria detta delle cure materne; questa fase primaria della vita include la risposta psicosomatica come reazione all’azione del significante materno che lascia dei segni sul corpo dell’infans all’interno del complesso di svezzamento, segni che s’incidono come una scrittura soprattutto nell’apparato digerente e nella pelle del soma: il significante materno trasmette e incide dei segni provocando dei fenomeni biologici sul corpo, sul soma esterno e sugli organi interni. E ciò avviene perché la madre e il bambino sono implicati in un incontro (Tyche) emotivo-erotico che promuove nel corpo della madre una sorte di godimento che implica reazioni chimiche e che scatena degli effetti sul corpo del figlio: «L’incontro con il corpo del bambino scatena nell’adulto, volente o nolente, dei sentimenti e degli effetti, mobilita i suoi fantasmi e il suo inconscio». (Debray, Dejours, Fedida, Psicopatologia dell’esperienza del corpo, pag. 83).Questa mobilitazione del corpo dell’adulto provoca a sua volta delle risposte affettive sul corpo dell’ infans chiamate fenomeni psicosomatici.
2) Nella psicosomatica il corpo gode attraverso la fissazione libidica accumulata nei segni e che riappare nei fenomeni che infestano lo spazio somatico interno ed esterno. A questo livello il soggetto non è ancora un soggetto dotato di parola e dunque non si può parlare di godimento del corpo che prevede l’uso della parola – ricordo a questo proposito che Lacan distingue il corpo che gode come nella psicosomatica, dal godimento del corpo nel soggetto parlante. Infatti nel modo di ammalarsi del soggetto parlante, il godimento reale del corpo, passa necessariamente dall’esperienza che il soggetto inconscio vive come risposta alla determinazione primaria legata al significante dell’Altro genitoriale, risposta reale che sta, in quanto godimento, al là della parola, ma che per dirsi e manifestarsi in analisi passa attraverso la parola medesima nella forza della lamentazione e della domanda di aiuto. Anche in questo caso siamo in presenza di un paradosso irriducibile che riguarda il godimento del corpo e il modo controverso per cui si può parlare di questo sentire che però sta al di là di qualunque parola possibile ma che la parola stessa è l’unico modo per arrivare a dire verità su di esso.
3) Far passare la malattia attraverso la lamentazione e la domanda di aiuto significa mostrare all’Altro della cura, il paradosso del godimento, in cui il soggetto dell’inconscio è inscritto, significa anche mostrare come la malattia, che fa presa sul corpo dell’uomo, unisca i due versanti del corpo; pertanto abbiamo io sono il corpo che ho e ho il corpo che sono.
4) La scoperta finale della psicoanalisi, che corrisponde alla struttura paradossale dell’inconscio in riferimento al rapporto corpo-malattia, si riassume in questo modo: io sono il corpo che ho in quanto ho il corpo che sono. In questa scoperta si chiarisce la tesi iniziale per cui nell’inconscio c’è un paradosso che unisce senza mai esaurirsi, perché non si può esaurire né sciogliere qualcosa che per sua struttura ha una articolazione complessa e intricata che unisce, dunque, il godimento del soggetto con la parola del soggetto e con gli effetti che essa provoca sul corpo, corpo inteso come luogo dove il godimento e la parola si mostrano nella malattia sia somatica che psichica.
Vale a dire che il corpo che ho è dato dall’insieme delle attribuzioni che derivano dai significanti dell’Altro materno e paterno a partire dall’infanzia; allora tutto quello che è segnato e registrato sul corpo come malattia si deve alla ‘influenza’ e alla trasmissione di ciò che è stato detto dall’Altro, cioè dall’ambiente familiare a proposito del “mio” corpo, parole che il soggetto ha ascoltato, anche per puro caso. L’essere del soggetto è stato dunque supportato e determinato dalla realtà della malattia che “mi” è stata attribuita proprio a partire dal dire dell’Altro. Ma l’essere del soggetto è anche altro rispetto al corpo che ho. Infatti, ciò che mi riguarda come soggetto malato di qualcosa è dato dall’incontro tra quella parola significante detta dall’Altro secondo una certa sua intenzione, malevola o benevola, e la risposta emotiva dello stesso soggetto a quella parola, risposta che proviene dal modo in cui il corpo che sono è inserito nella sua dimensione di essere vivente; tale dimensione indica il “mio” corpo pulsionale che gode cioè il “mio” corpo avido, oppure trattenuto, in ogni caso un corpo del piacere, un corpo già psicosomatizzato a causa della ripetizione del suo godimento unico e irripetibile .
Pertanto l’insieme degli incontri tra la parola dell’Altro e la risposta erotica del soggetto costituisce la memoria corporea, il patrimonio del “mio corpo”, il mio tesoro, cioè quello che so del mio corpo a partire da ciò che l’infans ha incorporato, cioè ha divorato facendo propria una parola detta dall’Altro che egli ha subito nella primissima infanzia (ordine psicosomatico o violenza della fissazione primaria della parola materna sul corpo del bambino).
L’ordine psicosomatico si collega con quella fase iniziale dell’infans fase pre-edipica che per le sue caratteristiche somiglia molto alla psicosi, anche se non è una espressione di una psicosi vera e propria; il rischio che lo diventi c’è sempre perché lo scatenamento dipende da che cosa avviene nell’Altro genitoriale: a questo proposito, ci ricorda Lacan, che il soggetto si ammala e diventa psicotico, nevrotico o perverso a seconda di che cosa accadde nell’Altro.
Una psicoanalista francese ( Piera Aulagner) ha lavorato molto sulle influenze psicotizzanti della primissima infanzia (0-3 anni) e ha notato come queste influenze dipendano da ciò che lei chiama “ombra parlata della madre” un’ombra che la madre getta con la sua parola , dopo la nascita, sul corpo dell’infans, producendo una forte quantità energetica fatta di parole e discorsi i quali contengono i pensieri che sono già presenti nella madre ben prima della nascita del bambino.
Sembrerebbe che per l’infans rimanere in questo stato permanente di ingarbugliamento proiettivo del discorso materno iniziale, potrebbe anche essere una scelta per proteggersi dall’Altro stesso, successivamente, come a dire che il futuro, viste le premesse, potrebbe essere molto peggio del presente; è ciò che si chiama il risultato autistico di una scelta soggettiva primaria ed enigmatica, ma che né il bambino ne qualcun altro può prevedere con certezza, è dunque solo un ipotesi. Ciò che è certo per la psicoanalisi è che il soggetto gettato nel mondo, ovvero l’infans, incontra la malattia dell’Altro e questo incontro produce di conseguenza degli effetti malati sul corpo dell’infans stesso, effetti che includono anche la sua risposta alla malattia che era già presente nell’Altro genitoriale: la risposta del soggetto si può pensare come una risposta non tanto alla malattia dell’Altro ma agli effetti prodotti nello stesso soggetto in relazione alla malattia che l’Altro gli trasmette. E questo accade perché, comunque sia, anche nella prima infanzia, c’è una reazione soggettiva secondaria che segue a una prima fase reattivo-comportamentale. Il bambino dimostra di non stare al gioco dell’Altro passivamente, subendo quindi meccanicamente la potenza dell’Altro: egli può reagire con una scelta personale nel rispondere agli effetti prodotti su di lui dalle azioni dell’Altro materno. Il bambino, inevitabilmente, subisce questi effetti ma la domanda che egli indirizza all’Altro materno concerne anche una richiesta d’amore che esige di essere soddisfatta in altro modo rispetto alla soddisfazione che è richiesta semplicemente dal bisogno fisiologico. Ma tra le tante risposte soggettive che il bambino può dare, esistono anche risposte mortifere, contrarie alla vita, risposte che hanno tutte la cifra del godimento dell’enigma strutturale del masochismo come ci ricorda Freud: il masochismo è una roccia basilare, un limite estremo, è una equazione cifrata dal godimento, pulsione di morte e narcisismo e infine anche resistenza al cambiamento che si può così riassumere con le parole dello stesso Freud: «Ciò significa che la guarigione stessa è trattata dall’Io alla stregua di un nuovo pericolo, il soggetto in analisi ha paura a star meglio.» (S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, Boringhieri. Torino pag. 521.)
3) La malattia come ostacolo e l’illusione della salute perfetta.
Dalla tesi iniziale, cioè che l’essere umano si ammala per resistere all’Altro che poi invoca per farsi guarire, deriva la posizione di Pierre Marty direttore dell’Istituto psicosomatico di Parigi che afferma: «Sono dunque gli individui ad essere psicosomatici e non le malattie.»
Marty vuol dire in altri termini che è dall’inconscio dell’individuo, che la malattia organica, che implica il corpo come organismo, passa per poi manifestarsi implicando però il corpo perché, come afferma Lacan, «è il primo corpo (quello organico) che fa il secondo (quello simbolico) perché vi si incorpora.» (J. Lacan, op.cit. Radiofonia, pag.159). Lo psicoanalista, in quanto crede nell’inconscio, constata in ogni seduta la presenza di fenomeni psicosomatici nella misura in cui questo fenomeno è sempre collegato a un sintomo come formazione dell’inconscio anche se il collegamento non sta tanto nella causa originaria della malattia che interessa il corpo organico, ma sta negli effetti presenti sul corpo, effetti che derivano a partire dalla rimozione di ciò che la coscienza dell’individuo vive come malefico o negativo. Questa distinzione tra causa ed effetti ci permette di affermare che «Nessuno, dunque, per quanto abbia preso coscienza è al riparo da un eventuale movimento di disorganizzazione somatica» (R. Debray, 1983), cioè ciò che si forma prima della rimozione, del negativo inteso come dispiacere o comunque forme che hanno effetti corrosivi sul corpo all’esterno e all’interno, nella primissima infanzia, quella detta delle cure materne, non può essere annullato, come l’intervento psicoanalitico dimostra; semmai si può parlare di miglioramento, rallentamento o stabilità della portata somatica della malattia.
Ora, il fatto che siano gli individui a essere psicosomatici va inteso nel senso in cui è l’uomo a essere malato e l’uomo si ammala perché è affetto dalla malattia che è il linguaggio; il linguaggio è il verme che parassita la vita dell’uomo ed è un verme trasmissibile, è un verme affetto da un virus.
Ma il linguaggio che parassita l’uomo come un verme virale al tempo stesso permette all’uomo di parlare, gli permette di essere un soggetto parlante, ovvero consente a un individuo, che è inscritto nel linguaggio dell’Altro, di acquisire un corpo simbolico, che è l’insieme dei significanti ereditati dall’Altro e dall’ambiente familiare; questo corpo simbolico incorpora quello organico dando vita al corpo pulsionale che tocca direttamente l’essere dell’individuo dato che il corpo della pulsione coincide con una bocca avida, come si può notare nei segni della malattia bulimica, oppure coincide con lo sguardo ingordo dell’invidioso o del geloso oppure coincide con la voce tonante dell’aggressivo o dell’iroso e dunque in tutti questi casi si può osservare che: quando il corpo si rivela nel suo aspetto di pura ripetizione, di essere sotto il dominio incontrastato di una forza predeterminata che fa irruzione sulla scena del mondo dove trova l’oggetto bramato al quale si consegna lasciandosi essere, allora il soggetto che si trova così soggiogato dal corpo reale-pulsionale non può che coincidere con il suo corpo. Se questa coincidenza il soggetto non la contrasta ma anzi ci si crogiola, si lascia andare a essa, allora si instaura nei comportamenti umani una malattia mortifera che fa resistenza a qualunque guarigione, anzi si insinua nell’uomo un innamoramento per il male, che è una evoluzione adulta del masochismo enigmatico, una sorta di piacevole dolore, detto godimento, che Lacan ha messo, per questo motivo paradossale, più dalla parte della sofferenza che del piacere :
«Il nostro corpo sa che c’è una quantità di vino che gli fa male e una che non gli fa male. Il problema è che il soggetto della parola, il soggetto umano, trova il suo godimento in ciò che il suo godimento non sa. Proprio perché fa male al suo corpo berrà di più ed è ciò che c’è di umano» ( Francois Leguil, Ruoli e impieghi del corpo dopo Freud in La psicoanalisi n°28, Astrolabio, Roma, 1987 pag 145).
Il nostro corpo è preso in un mondo che è un mondo di linguaggio ed è per questo motivo che l’individuo è affetto dalla malattia del linguaggio ed è questo fatto che bisogna capire bene per avere consapevolezza di che cosa voglia dire ammalarsi per l’uomo in senso psicosomatico, senso che la psicoanalisi inscrive al grado zero della scala epistemologica che riguarda il rapporto tra il corpo , il godimento e la malattia nell’uomo: in questo rapporto il corpo si può definire come il luogo dell’imperium dell’Altro.(Aulagner) Il corpo pulsionale, che è profondamente umano, ed è differente dal corpo organico che è solo biologico, è votato all’eccesso e al capriccio e dunque all’imperfezione. L’imperfezione, che è mescolata alla vita, è la differenza tra il sapere del corpo organico-biologico, che sa cosa che gli fa piacere o meno in quanto basta a sé stesso, e il sapere attraversato dal linguaggio e dalla pulsione che invece non sanno che cosa necessita al corpo; ma non solo non lo sanno, ma non lo vogliono neppure sapere oppure se ne dimenticano facilmente oppure questo non sapere serve al corpo umano per combattere gli effetti stessi del linguaggio che comandano sul corpo e così questo sapere finisce per danneggiare, eccedendo, lo stesso corpo nei suoi organi.
Per Lacan «ciò che l’uomo ha di più umano sono i suoi eccessi, ciò che l’uomo ha di profondamente umano è il modo in cui nuoce alla sua salute. Questo non vuol dire che bisogna incoraggiarlo a fare così, ma ricordatevi del Piccolo Principe che durante un viaggio sulla Terra, l’unica persona che incontra e che gli interessa è un alcolizzato, perché è l’unico, dice Saint Exupery, che sa perché vuole vivere: per continuare a bere.» (Francois Leguil, Ruoli e impieghi del corpo dopo Freud in La psicoanalisi n°28, Astrolabio, Roma, pag. 145).
Tutta questa umanizzazione della malattia, intesa come espressione dell’eccesso di godimento, corrisponde alla normale tendenza amata dall’uomo che Freud chiamò pulsione di morte o spinta alla autodistruzione. Fa parte di quell’umano imperfetto ed eccessivo, votato alla disperata vitalità dell’eccesso e del mortifero, un eccesso autodistruttivo paradossalmente amato dall’uomo per attuare una contromisura alle forme di sofferenza di tipo nevrotico che contengono in sé il conflitto con il vuoto e la ricerca del pieno, caratteristiche che fanno parte strutturale di quel peccato originale che è l’uomo inseguito dalla colpa (si pensi a Giobbe, uomo perfetto eppure condannato a terribili malattie da Dio) che è tragica perché nessuno può alleviarla. L’uomo non riesce a sopportare tali caratteristiche normalmente patologiche che producono sofferenze corporee oppure sociali o affettive: sono tre le forme di sofferenza che Freud ha inserito, non a caso, nel suo lavoro etico Il Disagio della Civiltà e che sono le tre forme maggiori di sofferenza con cui lo psicoanalista ha che fare nella sua pratica.
1)La prima forma di sofferenza che affligge l’essere umano si riferisce a un tipo di malattia che non può essere psicosomatica semmai somatopsichica in quanto si riferisce al progressivo invecchiamento del corpo come a un processo inevitabile, qualunque cosa e qualunque tipo di vita l’uomo faccia: vi è infatti un tempo biologico che scandisce il suo tic-tac e produce l’invecchiamento e la corruzione progressiva del corpo che comporta acciacchi vari e dolori organici progressivi. Di fronte a questo tempo implacabile l’uomo risponde in modo umano, non accetta tale tempo naturale ed eccede, ovvero sotterra, il tempo della natura che procura e prevede l’invecchiamento del corpo e cerca di trasformare il corpo in modi abnormi mascherandolo di ridicolo.
Freud, invece, nella sua vita personale, assumendo con coraggio la maschera del dolore ha affrontato la sua malattia inaugurando la concezione della vita che resiste fino in fondo alla morte senza però dimenticare mai che la presenza della morte va costantemente ricordata se si vuole vivere: si vis vitam, para mortem ovvero se vuoi la vita, se vuoi vivere, preparati alla morte, cioè non dimenticare mai la tua mortalità, il tuo limite.
2) La seconda forma di sofferenza riguarda quei meccanismi psichici, detti edipici insiti nelle relazioni affettive come la gelosia e l’invidia che sono affetti di per sé portatori di sofferenza perché responsabili dell’abolizione del paradosso cioè di quella forma discorsiva che più di ogni altra mette in gioco l’inconscio e dunque l’uomo. L’abolizione del Paradosso scatena gli effetti sociali che sono all’insegna della devastazione, cioè dell’azzeramento delle differenze soggettive, attraverso meccanismi di distruzione come la guerra e l’aggressività. Gli effetti devastanti dell’abolizione della soggettività sono portatori di processi di omologazione che aumentano la possibilità di vivere l’altro come l’immagine del nemico da abbattere o comunque da cui guardarsi le spalle. La sofferenza si manifesta attraverso l’ansia che rende l’uno e l’altro omologhi possessori di cose mercificate e attraverso l’angoscia che al contrario si fa indice della verità di ciò che la stessa ansia mostra, ovvero la riduzione del soggetto a corpo produttore di oggetti del bisogno, un corpo che non pensa ma agisce. Il contagio è la via di espansione dell’aggressività che è una malattia del pensiero in quanto aggredisce le cellule generatrici della differenza mentre attiva quella parte cerebrale che le neuroscienze chiamano neuroni a specchio che possiamo far corrispondere allo Stadio dello specchio che Lacan teorizzò nel 1936, fase dello sviluppo ma anche fondamento strutturale dell’Io immaginario, dove appunto si mette in evidenza come l’immaginario, se rimane vivo e prevalente nell’Io del soggetto e interferisce nelle sue relazioni con l’altro anche in età adulta, allora si sviluppa la malattia sociale dell’aggressività che ostacola una corretta comunicazione con l’altro e favorisce una comunicazione chiusa fondata sul Narcisismo patogeno.
L’individuo vive l’eccesso patologico del Narcisismo nel corpo dove si scatenano gli effetti somatici dell’invidia e della gelosia, ovvero pulsioni che, accese dall’immaginario, si espandono a macchia d’olio e trasmettono, alla massa del popolo avida, il desiderio di possedere qualcosa di esclusivo rispetto a ciò che possiede un altro popolo, anche forse la stessa aria che respira. E, come possiamo capire, l’effetto che scatena tutto ciò è una permanente e continua aggressività sociale fino alla conseguenza bellica. Anche la pulsione scopica che esplode nello sguardo dell’individuo che è preda di ciò che guarda, cioè la pulsione che è contenuta nel sentimento dell’invidia, spinge l’uomo verso eccessi di potere e di nuovo verso forme di malattia sociale come il fanatismo, malattie che ostacolano il processo di integrazione culturale e di pacificazione, ma, come sappiamo, paradossalmente, sono i processi di pacificazione e di integrazione sociale a non essere così scontati e naturali nell’uomo, anzi, al contrario, si presentano oggi come ostacolo incentivi allo scatenarsi della aggressività che è figlia della pulsione di morte e che corrisponde al godimento che come sappiamo l’uomo ama particolarmente.
In questa seconda forma di sofferenza il punto inevitabile e strutturale, che riguarda l’essere dell’uomo nella sua sofferenza sul versante sociale, consiste nell’essere l’uomo catturato dalla relazione immaginaria con il proprio simile, e dunque consiste nel non poter fare a meno per l’uomo di essere costretto a costruirsi come un individuo sociale, pertanto tutto ciò che accade singolarmente dentro la psicologia del soggetto umano immediatamente accade in modo proiettivo nella psicologia sociale, ciò conferma la potenza dell’immaginario di cui è composta la sofferenza del soggetto nella componente scopica, cioè quella dello sguardo, in quanto ciò che vedo riflesso di me nella immagine dell’altro, è ciò che in effetti accade in me nel mio teatro interiore e che rivedo altrove fuori di me.
3) la terza forma di sofferenza riguarda, secondo Freud, quella sofferenza che fa più dannare gli analisti e che è la forma, come ha fatto notare Lacan, basilare e strutturale per l’individuo tanto che costituisce la forma irriducibile attraverso la quale l’essere umano sperimenta il paradosso del proprio amore per il disastro: questa forma riguarda la relazione affettiva e la relazione d’amore tra uomo e donna.
È la forma basilare di sofferenza perché le grandi domande che l’individuo si pone partono da una domanda che costituisce il tormento per l’individuo: questa domanda è la domanda d’amore fondata sulla semplice richiesta della presenza dell’altro prototipo dell’altro materno: la clinica ha scoperto come l’amore sia dato al bambino o in una forma che lui avverte come eccessiva o in una forma che lui avverte come difettosa e dunque viene in rilievo come tra il dare e il ricevere c’è sempre uno scarto che non fa quadrare i conti mai in maniera sufficiente e calibrata così da non creare danni, e ciò perché tra il dare ed il ricevere c’è sempre il dire dell’Altro che parassita, cioè comanda il soggetto umano: il grande enigma per l’uomo è di dover dire a qualcun’altro qualcosa che esprima in modo esatto ciò che lui sente ma che l’altro capisce come qualcosa di diverso ovvero l’altro capisce ciò che vuol capire in connessione sempre a ciò che lui sente. Ciò vuol dire che nelle passioni è illusorio l’equilibrio, perché all’uomo piace eccedere o essere in difetto, e fa questo perché è ignorante di ciò che prova e forse è anche per questo che, come si afferma nel libro il Piccolo Principe, l’unico a sapere perché vuole continuare a vivere è l’ubriaco che vuole vivere per continuare a bere, cioè egli gode nel bere. Anche in questo caso, però, l’uomo eccede senza sapere quale sia il limite che gli è consentito superare, c’è qualcosa che gli prende la mano e l’uomo non sa regolarsi, non sa regolare ciò che gli manca ma nemmeno sa ciò che all’altro manca e l’Amore mira proprio all’Altro, a colmare la mancanza dell’Altro. L’Amore, insieme all’Odio e all’Ignoranza, è la passione dell’essere che si struttura sulla mancanza a essere ma, mentre l’Amore mira a colmare la mancanza dell’Altro, nell’odio invece il soggetto mira a distruggere l’Altro perché l’Altro ha smesso di colmare la sua mancanza oppure perché l’Altro non è più all’altezza di dare ciò che il soggetto vuole. Ma l’uomo, ed è questa la sua malattia che resiste paradossalmente alla guarigione, ha la passione dell’ignoranza, anzi è ignorante poiché ignora ciò che fa e dice ed è solo dagli effetti delle sue azioni, e a posteriori, che l’uomo può capire qualcosa di ciò che è accaduto, ma le conseguenze di ciò che è accaduto non sono cumulabili, ovvero non sono la garanzia che la prossima volta non saranno ripetuti gli errori precedenti. Il seme dell’ignoranza si trova anche nell’interrogare l’identità su cosa vuol dire essere uomo e essere donna: la sofferenza consiste nel voler sapere cosa vuol dire essere donna e uomo ma al tempo stesso non c’è alcun riferimento né regola definitoria certa che possono garantire il godimento di un’identità; o meglio ci sono regole comuni che ogni volta dicono delle cose su quest’identità ma non garantiscono appunto che colui che le segue rimanga anche soddisfatto di quel modo standardizzato di essere uomo o donna.
Lo psicoanalista si imbatte in questa resistente ignoranza che riguarda l’enigma dell’Amore nel doppio tempo del soggetto amato e soggetto amante; è questa ignoranza che il paziente porta cercando in analisi di dire qualcosa intorno alla sua posizione soggettiva e intanto dice qualcosa intorno alla sua sofferenza cioè intorno alla sua malattia senza rendersi conto che ciò che dice riguarda sia la resistenza alla sua malattia, in quanto essa stessa fa da ostacolo a una presunta guarigione, senza peraltro sapere cosa vuol dire guarire, sia riguardo la sofferenza corporea, attraverso la quale il corpo parla e manifesta il dolore che il soggetto avverte come degrado pulsionale, cioè come degenerazione pulsionale che la fa da padrona, come avviene nell’ubriaco del Piccolo Principe: si tratta allora non del corpo che ho ma del corpo che sono. Dunque parlando in analisi i pazienti non fanno altro che parlare d’amore, e lo fanno anche quando parlano dell’odio verso qualcuno oppure lo fanno anche quando parlano del proprio corpo in cui si condensa il valore erotico del proprio godimento soggettivo che cercherebbe di ostacolare il degrado progressivo del corpo ed il dolore ad esso connesso. La grande lotta che il soggetto esprime con la sua malattia riguarda dunque i due versanti della sofferenza: l’uno è il versante del reale, è il versante del dolore anche fisico che non lascia scampo alcuno all’ignoranza, perché il soggetto si trova sotto la pressione del reale del dolore che lo incalza senza sosta, e se ne frega della ignoranza, sia permanentemente come accade nella gravi malattie degenerative o organiche, sia occasionalmente, come accade per esempio per un mal di denti o un mal di testa. L’altro è il versante della sofferenza che si presenta nell’ambiguità paradossale del godimento come è nel mal d’amore che non cessa in quanto il soggetto che lo vive non vuole cessare di sentire male, data la sua stessa malata ricerca dell’altro nell’illusione che questo soddisfi la perfezione cercata: l’altro in questo caso è l’orizzonte del soggetto, è l’orizzonte e la sua illusione, ma è la sua eterna sconfitta e rappresenta dunque l’eterno dolore dell’anima e delle malattie affettive.
Freud ci fa capire le ragioni per le quali afferma che le relazioni tra l’uomo e la donna, e in generale le relazioni affettive fanno più confondere l’analista: le ragioni consistono nel fatto che queste relazioni sono necessarie per costruire una società fondata sulla differenza di genere ovvero fondata su ciò che è il principio di realtà, cioè fondata sulla constatazione di un incontro iniziale tra un uomo e una donna e da quest’incontro è nato un terzo, un figlio che ha introdotto nuovi sentimenti nella coppia; ebbene, tutto ciò che è stato prodotto di nuovo, sia come sentimenti che come comportamenti, genera da sempre conflitti perché si è creato accanto all’identità dell’uomo e della donna, anche la funzione materna e paterna che ha raddoppiato la coppia uomo-donna. E questo raddoppiamento ha portato, inevitabilmente, a un’intensificazione del conflitto tra l’uomo e la donna perché il terzo – cioè il figlio – diviene l’oggetto d’amore ma anche ostaggio dell’amore della madre e da questa posizione in cui si trova il figlio dà una risposta personale a seconda che sia maschio o femmina, tenendo conto anche di ciò che passa a lui, figlio o figlia, dal padre-uomo o alla madre-donna.
Le cose si sono complicate sia all’interno del nucleo familiare sia nella famiglia allargata detta sistema sociale. L’ulteriore complicazione del sistema familiare sta nella trasmissione generazionale sia affettiva sia educativa che biologico- genetica: ebbene tutte queste componenti sono entrate sempre di più in conflitto tra loro perché le tre passioni principali, Amore, odio e ignoranza, hanno mostrato il loro volto più radicale che induce l’essere umano a non cedere facilmente a compromessi con le relazioni affettive che invece sono più plastiche e dinamiche ma anche più appiccicose e soprattutto di natura emotiva. Il punto di incontro, ma anche il punto di cedimento, tra la componente passionale e quella affettiva ha costituito nel tempo una vera e propria conflittualità che è il motore vitale dell’esistenza dell’uomo ma anche il suo tormento quando il soggetto deve scegliere la strada del proprio desiderio. Dalla stagnazione del conflitto che non si risolve e non sparisce è nata la malattia che è uno stato patologico se è a carico delle passioni (da patos, sofferenza estrema) oppure un’affezione se è a carico delle relazioni dell’anima, cioè della sfera emotiva degli affetti, oppure è un fenomeno psicosomatico se riguarda il corpo che gode nella ferita o nel segno lasciato da una madre troppo esuberante nelle sue cure e infine una stato somatopsichico se è una malattia organica che colpisce il corpo in modo degenerativo; in questo caso lo stato psichico è uno risposta conseguente alla degenerazione progressiva del corpo. Si può ben capire che questi diversi modi di ammalarsi che rientrano nella terza forma di disagio, di cui parla Freud, coinvolgono, cioè hanno a che fare con le altre due forme di disagio quella relativa al corpo nel suo processo d’invecchiamento e quella che comprende le forme aggressive diffuse nel sociale.
Per concludere si può dire che sono gli uomini psicosomatici mentre le malattie sono le risposte, cioè sono gli effetti, sviluppati nel tempo, dell’attitudine psicosomatica dell’uomo, che vive la sua condizione paradossale psicosomaticamente.
La malattia è dunque una cattiva risposta a una psicosomatica che l’uomo non ha saputo gestire in quanto essendoci dentro, ovvero essendo il suo bersaglio, non ha saputo interrogare ciò che lo vedeva coinvolto: ci è voluto un uomo come Freud per capire che questo coinvolgimento per essere dipanato, aveva bisogno di essere condiviso con un altro essere speciale che sapesse decifrare il linguaggio ingarbugliato in cui ogni soggetto è preso. Ed è per questo motivo che è nata la psicoanalisi la quale fa della malattia una risorsa creativa proprio togliendo ogni illusione in merito alla salute perfetta dal momento che la psicoanalisi considera l’imperfezione uno stato salutare a patto di saperlo interrogare. Posso chiudere con una affermazione di Lacan che sembra fatta apposta per descrivere l’antidoto che può servire nella vita quotidiana, che è la grande alleata della malattia stessa, a contrastare l’eccesso della pulsione di morte: l’amore, dice Lacan è quando il godimento si mette al servizio del desiderio, cioè c’è nell’amore per la verità la possibilità di sperimentare il godimento, nella sua accezione positiva, e quindi nel suo legame con la parola e nel suo legame con la stessa verità che è la sorella del godimento e ambedue sono i referenti del sapere inconscio.
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