Mia figlia Chiara, l’antropologa, mi ha messo sotto l’albero di Natale di questo 2022 un libro di Francesco Pannofino con Roberto Corradi intitolato “Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane”. Il titolo non è proprio in lingua, ma si addice a un protagonista dei “caratteri”, poi il volto dell’attore riscatta e domina completamente la copertina, troppo titolata, dove in basso al centro, occhieggia la piccola salamandra rossa disegnata da Vauro Senesi per la Compagnia editoriale Aliberti di Reggio Emilia. Il regalo era intenzionale sapendo quanto io abbia sempre stimato Francesco in toto e non soltanto in voce. Per una serie di circostanze che sarebbe troppo lungo raccontare, ma che vale la pena richiamare per sommi capi, la sua vita si è incrociata con la mia nel buio delle sale di doppiaggio cinematografico, in un tempo lontano. Ma la cosa straordinaria è che il libro-intervista rivela un tratto, di Francesco, che io peraltro conoscevo benissimo e cioè la sua abilità come calciatore. Agile, scattante, veloce … un prodigio! Ve lo dice un intenditore appassionato, un conoscitore dei movimenti degli arti per essersi specializzato anche in neurologia alla scuola di Mario Gozzano. Con la voce – Francesco – ci poteva fare qualunque cosa, prestarla ai più famosi volti hollywoodiani, ma in presenza, senza pronunciare neppure una sillaba, avrebbe potuto interpretare la controfigura di Pelè “O’ Rej” o di Maradona “El Pibe de Oro”, fate voi, ora che si sono ricongiunti nella Casa del Padre. Anch’io, per una serie di casualità che con un po’ di presunzione mi azzarderei a definire “affinità (alquanto) elettive”, con rispetto parlando, come si dice, e senza offendere Goethe, amavo il calcio, pur consapevole di essere un “pippa”.
Il fatto però è che Francesco Pannofino era ed è tuttora un grande attore di teatro a tutto tondo che sapeva giocare a pallone e faceva (anche) il doppiaggio sfruttando un dono naturale, la sua voce, di straordinaria duttilità. Io invece sono stato un discreto attore-doppiatore sotto lo pseudonimo del maggiore dei miei 5 figli che ha scelto di fare il medico di medicina interna, poi il neurologo e lo psichiatra, con grande serietà, quando ancora c’erano i manicomi, e quando la specialità si chiamava “neuropsichiatria”. Un altro rammarico è di non aver conosciuto prima, Francesco. Quando lui nasceva, io ricevevo il tesserino d’iscrizione all’Ordine dei Medici di Roma, per aver superato l’esame di abilitazione alla professione. Proprio leggendo il suo libro me ne sono reso conto in maniera esemplare. « La vecchiaia è una fregatura » diceva suo padre Andrea «Ehhh, so’ nato troppo presto!» (p. 88). Nel famoso “Palazzo Corrodi” vasto edificio inizio novecento dove tenne studio anche Trilussa, fu insediata la mitica “Fonoroma” fin dal 1931, dove compirono nobili gesta gli antenati del doppiaggio sotto forma di Cooperativa Doppiatori Cinematografici. Tremò il teatro e il fenomeno fu rilevato con preoccupazione dalla critica, perchè subito dopo la guerra, in seguito alla grande produzione cinematografica (autoctona e straniera), molte “Stabili” e celebri “Ditte”, vennero seriamente depauperate di noti attori che preferirono fare tre/quattro turni al giorno e restare definitivamente a Roma, anziché continuare a lavorare nelle Compagnie di giro.
Ebbene, la mia generazione è stata il passaggio tra quei mostri di bravura, in sala buia, praticamente gli antenati, i capostipiti, gli inventori del doppiaggio e la generazione di Francesco Pannofino, gli epigoni o i “pronipoti” (se mi si consente la battuta rubata ai cartoon di Hanna e Barbera), che ne hanno raccolto l’eredità, dopo la morte di Pino Locchi (1994), un gentiluomo d’altri tempi che sapeva fare i cattivi, ma sapeva usare il termine cinema con scene licenziose per definire i porno. Questo è perfettamente raccontato nel libro da Francesco che risponde minuziosamente alle domande del giornalista Roberto Corradi, talora anche interagendo con la moglie Emanuela Rossi, sorella altrettanto famosa di una stirpe di attori doppiatori direttori, improvvisando godibili siparietti. Finché io l’ho frequentato, non ho mai pensato che il suo corpo muscoloso e scattante fosse abbondante. Semplicemente perfetto per fare il pistard, ma adatto all’atletica e al calcio. Sono rimasto stupito nel leggere quell’affettuoso “ciccione” (p. 29) lanciatogli come saluto da Emanuela. Chi avrebbe mai pensato di motteggiare Diego Armando Maradona chiamandolo “ciccione”, ho detto tra me, anche il primo Sante Gaiardoni che ti passa per la testa. Vero è che non l’ho mai visto mangiare «le orecchiette al sugo di carne, le patatine fritte e le polpette di pane» (p. 92) preparate dalla madre Angela, otto anni meno di me, che ancora «sfreccia alla velocità della luce» (p. 91) e, all’occorrenza, sa pure stare sul set con naturalezza «senza guardare in macchina» (p. 81) diretta da Mattia Torre e scusate se è poco!
Il libro è molto istruttivo anche su questioni tecniche relative al “giro degli anelli” (p. 57), al tema rivendicativo “voce-volto” (p. 48), alla sindacalizzazione dei doppiatori a difesa del loro lavoro, questioni che solitamente restano in secondo piano, soverchiate dai volti di attori famosi. Su questo argomento, avevo un esperto, l’amico Sergio Matteucci, uno speaker doppiatore che faceva attività sindacale. Mossi i primi passi nell’ambiente durante il secolo d’oro della leggendaria “CDC”. Proveniente dalla prosa radiofonica della Rai di Via Asiago, approdai nel Tempio della vecchia Fonoroma, mèta di tutti i doppiatori, paragonabile a Delfi. Anche se molti giovani-adulti di oggi, hanno imparato il mestiere, da giovanissimi, doppiando i bambini, quelli nati tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo passato, sono, per me, la generazione dei figli, e visto che notoriamente, secondo i rituali della sceneggiata napoletana “E figl so’ piezz’ ‘e core” Francesco Pannofino, in un certo senso, così me lo sento. Oltre che per il calcio e la sua naturalezza di attore, per moltissime altre coincidenze di esperienze comuni nella vita, che emergono dal libro, sembrerebbero confermare questa affiliazione unilaterale e segreta. Absit iniuria verbis. Chiedo scusa al padre (Andrea) e alla madre (Angela) di Francesco, citatissimi nel testo, come so che i miei non mossero ciglio quando raccontai loro che, laureando in medicina, mi recavo nella pensione di Via Morgagni a curare gli acciacchi del mio maestro di teatro Pietro Sharoff. Gli chiesi di considerarmi come un figlio. Mi rispose «Sciocchezze italiane come padrino – tu diventerai bravo medico, molto meglio di attore».
Più m’inoltro nella lettura di “Dài, dài, dài! La vita a ca**o di cane”, più mi rammenta il clima storico, anzi lo spirito del tempo, lo “Zeitgeist” per dirla fina (una gag tira l’altra e provo a farne qualcuna anch’io) che evoca il lontano tempo del doppiaggio cinematografico italiano dell’inizio, dove ho avuto la fortuna di nuotare anch’io. Fu Renato Cominetti (la voce di “Ferribotte” ne “I soliti ignoti” di Monicelli, 1958) ad insegnarmi il mestiere e ad introdurmi nell’ambiente della Fonoroma e altri stabilimenti ora spariti, come l’Italacustica dell’ing. Wilson a Via XX Settembre, la Nis in Via Urbana, da Fazio in Via Tito Omboni e molte altre. In quel mondo mi ci sono trovato (non per caso) e ho imparato molto, conoscendo tante belle persone. Ho incontrato “Carletto” Romano (inventore vocale di Jerry Lewis che stentava nella distribuzione italiana), Stefano Sibaldi («Sergio, che ti prende, perché non attacchi?» – una fucilata di Mimmo Palmara partita dall’interfonico, lo stabilimento quello di Via dei Villini, me la sento ancora nell’orecchio). Ero semplicemente rimasto folgorato dalla bravura del compagno di leggio. Chiesi scusa arrossendo. Era la prima volta che Sibaldi doppiava fuori dalla “Fonoroma” che era come dire la “CDC” impersonificata. Ho incontrato Cigoli, Emilio Cigoli, che faceva parlare tutti rauchi («Mellina, giù, giù, spinga sul diaframma!», pareva di essere in sala parto). Ho conosciuto Giulio Panicali (il rubacuori con la voce flautata e suadente). C’erano i “birignao” di Tina Lattanzi, rifatti spiritosamente da Elio Pandolfi.
In Rai, come ho accennato, vinsi un provino per essere chiamato come attore professionista nella prosa radiofonica. Me lo ricordo perchè era l’anno santo del Giubileo di Papa Pacelli, il 1950. Mi aveva preparato minuziosamente Paolo Pacetti, uno speaker-attore di successo, che teneva una rubrica serale radiofonica molto seguita intitolata “Siparietto”. Consisteva nella lettura di brevi novelle di autori famosi, per propiziare la buona notte. Preparai Cechov “Morte di un impiegato” e andai benissimo, potevo essere chiamato a “cachet”, ma solo per la prosa, non per la rivista. Me ne feci una ragione, perchè pur ritenendomi un caratterista portato al comico, ero stonato, nel senso che non avevo educato la voce al canto. Mi rincuorò molto quella volta che Pietro Masserano Taricco, regista di grido, ci richiamò in sala lettura, dopo la pausa caffé, con una delle sue battute curiose: «I signori comici sono pregati di accomodarsi in studio per la ripresa della lettura». Ignoro cosa stessimo registrando ma ci fu il solito pignolo di cui non ricordo il nome che disse «Ma dottore, noi siamo attori di prosa!» – «”Che entrino i comici” dice Amleto, atto III scena II» fu la laconica risposta. È da escludere che alludesse a Gianni e Pinotto.
Nel testo di Pannofino, scorrevole e divertente, trovo domande, battute, imprecazioni, parole scurrili, opportune e inopportune, che si debbono fare o non fare, dire o non dire per non intralciare il lavoro di una macchina complessa; questioni che si ripropongono in ogni generazione di attori doppiatori, bravi o meno bravi, specie quelli bravissimi, come Francesco, animati dal solo desiderio di lavorare scrupolosamente, benissimo, anzi, «“presto e bene” … evitando di rompere i coglioni» (p. 51), ma qui sei tu, non “Renè Ferretti”. In Rai ne ho incontrati diversi, sia di quelli che rompevano, che in francese risulta più elegante ancorché più fastidiosa: “Je voudrais planter la question de savoir …”, ossia che piantavamo grane, sia di quelli che raccontavano aneddoti divertenti, specie i più anziani come Giotto Tempestini e Lauro Gazzolo. Un altro grande con cui ho lavorato in Rai è stato Augusto Mastrantoni, forse un semplificatore alla “René Ferretti” ante litteram. Romano de Roma, ti faceva sbellicare dalle risate quando raccontava le recite alla filodrammatica della Stefer a Via Taranto, dove il dialogo di sottofondo per dare colore a un ambiente aristocratico era, molleggiando sulle ginocchia e piegando le braccia ritmicamente, per simulare le redini: «Conte che lei cavarca? Quarche vorta».
Leggendo Pannofino mi sono segnato un passo sulla questione centrale di come si diventa professionisti. Debbo confessare che anch’io, un tempo lontano fui vittima di questa grande domanda e la girai subito ad Augusto Mastrantoni. Mi rispose testualmente “Vedi Melli’, se ti pagano sei professionista anche se sei un cane” – “quando fai la filodrammatica, anche se sei bravissimo, resti dilettante, perché chi ti viene a vedere non passa prima dal botteghino”. Francesco Pannofino scrive «Si, ero diventato un professionista. Anche se cominciava già allora quel modo che hanno le cose di presentarmisi, senza quasi che io possa metterci bocca. La mia è una carriera che mi ha sempre portato dove ha voluto lei. Difficilmente sono stato io a scegliere le cose da fare» e oltre «Diventare professionisti significa capire tutto del mestiere che fai, tutto» (p. 51). Ma vedi Francesco, questa è la domanda delle cento pistole! Pubblicata su POL.it Psychiatry on line ITALIA, Genova, la rivista telematica di Francesco Bollorino, un editore che è anche docente universitario di psichiatria, sarà come gettare un sasso nello stagno delle grandi domande dell’essere umano: da dove vengo, dove sono diretto, chi sono. Tra l’altro, i collaboratori e i lettori sono in gran numero “professionisti” della mente e della salute mentale, oltre che scrittori, storici della letteratura, cineasti, critici cinematografici, intellettuali di ogni genere. Ma non è questo il tema del tuo libro e, se i lettori che avranno la bontà di continuare a leggere la mia recensione saranno semmai incuriositi da come ti sia giunta la “chiamata”, l’attrazione verso il “sacro fuoco dell’arte”, l’impulso a saltare sul palco, una pedana, una sedia, mostrarsi, apparire e dire con o senza microfono: ho qualcosa da raccontarvi, ascoltate. Oppure, gridare, “Italiani …” qualcosa di triste e luttuoso come l’imitazione di Mussolini (tornato di moda, purtroppo). O anche semplicemente con la voce melliflua e nasale del venditore meneghino mai tramontato, giusto quella dell’Omino di burro di Pinocchio: “l’Italia è il paese che amo …”.
Dopo aver letto il libro, Francesco, non saranno sufficienti le tue risposte frettolose su temi che accenni soltanto enumerandoli, come i «rapporti umani», con il pubblico, i fan, gli altri; le «dinamiche» con i compagni di lavoro, i tempi di recitazione e tutto il resto; i «caratteri» dei personaggi; le «tipologie umane» dei personaggi interpretati e/ o inventati. I fan e non solo loro, da te vorranno sapere qualcosa di più sulla tua magia. La risposta a Corradi, per esempio «Ogni volta che penso “vorrei fare questo”, manco mi ci avvicino» e poi regolarmente ti capita, non regge all’ascolto di un analista anche distratto. Infatti, lo sai benissimo e te ne rendi conto. «Guarda … sì. Molti non ci pensano, ma diventare professionista non è ‘na cazzata, non è ‘na frase, non è una cosa detta così per farsi belli» (p. 51) È tutta roba tua Pannofì! Talento di purezza cristallina e ragazzo educato. Ecco, l’ultimo che ho conosciuto, “last but not least”, ma non in Rai, bensì al doppiaggio, è stato l’autore di questo libro che ho qui tra le mani, uno scrigno di bei ricordi per me, ma credo interessante per tutti, raccontati da un affabulatore di professione, che sa anche scrivere poesie, Sequestro di Stato (p. 108) ed ora è sulla cresta dell’onda tanto che “non sa a chi dare i resti”, come dicono a Roma.
Credo di ricordare che fu proprio in un campetto di Tor di Quinto, che portai Pannofino con un altro Francesco, marito di un’altra doppiatrice famosa, Paola alias “Paoletta” Del Bosco e Gianni Simoncelli, un assistente del doppiaggio, altrettanto famoso, per accertarsi che, finito lo svago, le sue voci preziose tornassero in sala buia a doppiare. Per eseguire questi esercizi pedatorii compulsivi, le squadrette le rimediavo accuratamente nei luoghi di lavoro (al di fuori dell’orario di servizio), portandomi da casa per sovrappiù, a garantire la qualità del gioco, Alba Silvia, l’ultima dei figli, “centrale” della Lazio Calcio Femminile, tre scudetti uno primavera e due Serie A (1987 e 1988). Egidio Guarnacci, abbastanza reperibile nei tornei interfacoltà, era troppo occupato con la sua farmacia. Franco Carradori classe 1934, fulgido prodotto del vivaio bianco-celeste, precocemente scomparso (2004), era il primo a dirmi come un bambino capriccioso: «Guarda che se non porti Alba io non vengo!».
Anche io ho iniziato come Francesco facendo le imitazioni «in ambito scolastico» (p. 47). Durante le gite della scuola, poi in uno spettacolino tipo Rivista, che i più grandi del “Liceo Augusto Righi”, fra cui c’era Marcello Aliprandi, organizzarono al “Cinema Teatro Volturno”, più che altro per “rimediare”. L’ultimo anno del liceo lo saltai grazie alle mie performances, imitando il prof. di Scienze, napoletano, il Preside, genovese, e Tino Scotti, quello che parlava velocissimo confondendo le parole, quello di “Arcirivicerci”, per intenderci. Marcello Aliprandi è stato un eccellente professionista della regia teatrale e cinematografica che ricordo sempre con grande affetto, scomparso troppo presto. Dovetti declinare una sua offerta per un provino alla “Compagnia dei giovani" che stavano mettendo in scena una cosa di Peppino Patroni Griffi all’Eliseo, perché avevo vinto la selezione per entrare alla specializzazione in neuropsichiatria da Mario Gozzano. Ecco lì la voce era un dettaglio, bisognava ascoltare, osservare attentamente, parlare giusto e misurato, il corpo meglio se spariva, ma doveva tramutarsi in “presenza”. Irrompe Pannofino «La voce per me è un mezzo di lavoro» (p. 128) concordo perfettamente tanto che ho finito per mimetizzarmi nel doppiaggio. Al mio primogenito, Luca Ernesto gli chiesero «che mestiere fa tu’ padre?» anche lui guarda caso, lavorava in un baretto di Monte Mario dove faceva servizi a domicilio per rendersi indipendente, con un “Morini rosso”, guarda caso, e forse si vergognava di dire che il padre lavorava al manicomio. Gli venne d’impulso «Er doppiatore» – «quanti sete in famija?» – «Semo cinque» – «Ammàzzete! ce deve ave' un gargarozzo tanto», questo in sintesi il dialogo riferitomi molti anni dopo.
A un certo punto l’intervista di Pannofino punta l’obbiettivo sul mondo degli oroscopi. «… vuoi sapere il mio segno? Sono Scorpione. Ma non credo a niente di quello che riguarda l’astrologia. Ho il massimo rispetto per chi si affida agli oroscopi o per chi li fa ma non sono coinvolto dal fenomeno. Mio padre, mio fratello e mio figlio sono nati tutti e tre sotto il segno del sagittario e non ho mai visto persone più diverse tra loro. E quando poi lo dici ti rispondono Eh ma dipendono dall’ascendente … “E allora c’hai sempre ragione te, che te devo di?”» (pp. 127-28). Anch'io non sono particolarmente attratto dalle congiunzioni astrali, dagli oroscopi e dalle fattucchiere che ti fanno le carte, anche se mi rendo conto che l’occulto ha numerosi fan. A cominciare da Pirandello (La Patente), per non parlare dei riti apotropaici che sono sulla stessa lunghezza d’onda. Ma sono convinto che se Federico Fellini, non fosse salito in vetta alla scalinata di Trinità dei Monti per andare in Via Gregoriana, allo studio di Ernst Bernhard (*), per fare quelle tre, quattro sedute di psicoanalisi junghiana del profondo, non avremmo avuto la sua filmografia onirica. «Com’è, com’è, com’è?» grida il cieco al passaggio del Rex e soltanto quella “posa” di “Amarcord” vale 10 anni di psicoanalisi dal pediatra ebreo berlinese junghiano e per giunta, chirologo e astrologo.
Il mio modo di esplicitare la mia presenza nel mondo e quella di Francesco Pannofino, si sovrapponevano e coincidevano in molti aspetti, nelle falde più periferiche dell’Io. Quelle che predispongono e intenzionano gl’incontri sempre secondo tragitti che riconducono alla centralità dell’essere. Vogliamo dire le corrispondenze junghiane che affiorano alla “coscienza”? Troppa antropologia fenomenologica”? fa venire il mal di testa? Ma il metodo Stanislavskij, allora? e l’Actors studio di Elia Kazan e Lee Strasberg? Semplificando al massimo, come avrebbe fatto in “Boris”, il cinico “René Ferretti”, reso popolare da Pannofino, direi che semo du «onnivori» (p. 37), uno grande e uno piccolo, come padre e fijo, che ce piace magna' de tutto e beve meijo, ma anche lavora' bene, anzi benissimo, infaticabilmente, senza “rompe er ca” (scusame Giggi Proietti se t’ho tirato dentro anch’a te).
Tornando a Francesco Pannofino come attore professionista, tanto nelle serie televisive, che nel film “Boris”, l’ho sempre visto come un concentrato magmatico di voci, rappresentazioni corporee, di calcio, di doppiaggio e di teatro da strada, tipo carro di Tespi, con una precisione maniacale e un tempismo cronometrico sulla battuta per non andare mai “fuori sinc”. Il nostro comune Moloc. Rammento il tempo che abbiamo lavorato e giocato insieme. «Lunga» – «corta», sentenziava Gianni Simoncelli che poi doveva vedersela in moviola per far combaciare il “parlato” col “visivo”, quando s’accendeva la luce alla fine dell’anello. «Meglio lunga che corta!» – sanciva definitivamente la voce uscita dall’interfonico della regia. Il colore prevalente era il biancazzurro, quello della Lazio naturalmente sia in sala che sul campo di gioco, ma senza “tifo”. Dal libro si viene a sapere l’orientamento di Francesco in proposito, il quale ci fa sapere che detesta il tifo come forma esasperata di entusiasmo popolare perché spesso tracima nella violenza.
Mi ha stupito leggere come sia divenuto “Panno”, quando c’è confidenza, e gli sia anche piaciuta la cultrazione del cognome «Un giorno mio figlio mi disse: “Papà io non mi voglio chiamare Pannofino!” Gli ho chiesto perchè? E lui “perchè mi prendono in giro a scuola?” E io “E a chi ti prende in giro tu rispondi e tu come ti chiami di cognome? Troverai sicuramente qualcosa di comico anche negli altri cognomi» (p. 134). Questa l’ho già sentita ho pensato tra me, trasalendo. Mia moglie Silvia 12 anni con la sorella maggiore Ada 14, erano andate a visitare il padre che prima della guerra (quella di Hitler e Mussolini contro il resto del mondo, eh?), ma anche dopo, come docente di chimica (scuola genovese coetaneo di Giulio Natta), dirigeva il reparto merceologico dell'Istituto di Dinamica Sperimentale delle Ferrovie dello Stato nella vecchia stazione di Trastevere con ingresso da Piazza Ippolito Nievo. Una ragazzina, la figlia del custode, le apostrofò mentre si aggiravano incuriosite nel giardino tra i binari e il serbatoio dell’acqua per le vaporiere della storica stazione papalina Roma-Civitavecchia – «Chi siete?» – «Siamo le figlie dell’Ispettore Grillo» – «Uàh, uah, che nome buffo, Grillo» – «Perché tu come ti chiami?» Rispose prontamente Silvia – «Che c’entra? … Cicalotti», fu la risposta divenuta famosa e tramandata ai nipoti e pronipoti.
Con Pannofino concordo su tutto tranne che su tre punti. A me non piace il doppiaggio in “colonne separate” perché si perde quel minimo di collegialità teatrale per guadagnare il microfono al buio, acrobazia non facile. Certamente rallentava il lavoro quello che sbagliava la battuta ma virare verso l’autismo per quelli che sono bravissimi, può essere pericoloso, anche da punto di vista sindacale. Mi vengono due associazioni, in proposito. C’era un volta a Radio Rai un coppia famosa per rubriche brillanti: Gianna Piaz, un’attrice bolognese e Roberto Bertea,un ferrarese di Argenta. Quest’ultimo me lo ricordo perchè affacciandosi in sala per il turno di doppiaggio, si presentava (motteggiandolo) nelle vesti del solerte produttore milanese “Allora gira l’anello? Siete tutti al leggio? La produzione produce?” L’altra è quando mi è capitato di mettere la voce a Rod Steiger in “Specchio per le allodole” (1979). Lui/io faceva una lunga tiritera, di una dozzina i righe a un suo ufficiale che doveva rispondere “si signor generale” e il doppiatore sbagliava. Non mi ricordo chi fosse, ma a citarmi spesso questo episodio era il Collega “Nino” Lo Cascio che mi aveva portato col motorino in questo studio che stava ai Parioli (Via Civinini? Manfredi?) in una pausa di lavoro dalle supervisioni di gruppo che facevamo sul territorio, della psichiatria riformata.
Non sono d’accordo con lui sul fatto che i cartoni animati siano i più faticosi da doppiare. Quando doppiai il prof. Tornasole con suo cognato Massimo Rossi che dava la voce al protagonista nella famosa serie di Tintin, non sentivamo la stanchezza, anzi, erano fonte di gag e risate interminabili. Quelli veramente tosti erano i film giapponesi. Ci fu un tempo che strinsi amicizia con Vinicio Marinucci, un nome importante nella critica cinematografica, ma anche un letterato che conosceva il giapponese, più volte presidente di giuria alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Gli avevano affidato una serie di film d’arte giapponese da ridoppiare, rivedere e ritradurre. Aveva stima e simpatia per me sia come doppiatore che come psichiatra. Era la moda del film d’arte giapponese dopo che al Festival di Venezia, “Rasciomon” (1951) di Akira Kurosawa con Toshirō Mifune aveva strappato a tutti il “Leone d'oro” (1952) come miglior film straniero, e un Oscar con “I sette samurai (1954).
Francesco Pannofino sa benissimo che nel doppiaggio ci sono quei professionisti che io chiamo “di voce” e quelli “di intenzione”, come quella che lui deve ricostruire sillaba per sillaba doppiando Tom Hanks in Forrest Gump, dove «lui si appoggiava molto all’accento dell’Alabama … mi si richiedevano l’ingenuità, la tenerezza e un modo di parlare strano di un personaggio complesso. Li ti affidi alla tua sensibilità e magari ti rifai a gente che hai conosciuto, con le stesse caratteristiche di quel personaggio e poi ci metti del tuo» (p. 60). Bravo Pannofino! Questa cosa che tu dici è una di quelle tre/quattro cose “immortali” (copyrigt Pietro Masserano Taricco) per cui vale la pena comperare il libro, consultarlo spesso, tenerlo sul comodino. È proprio quel “naturalismo psicologico” che hanno insegnato prima della rivoluzione russa, Stanislavskij e Nemirovič Dancenko al teatro d’Arte di Mosca e dopo la seconda guerra mondiale Elia Kazan all’Actors Studio.
Tornando al doppiaggio degli attori giapponesi devo dire che a mio avviso sono i più difficili da doppiare. Naturalmente il primo giro dell’anello va fatto in originale per sentire come parla quello a cui devi mettere la voce, ma le intonazioni della lingua nipponica sono talmente lontane dalla nostra con alti e bassi talmente marcati, improvvisi e imprevedibili che se non li cancellassi totalmente dalla percezione rischieresti di fare l’imitazione del somaro. Dal punto di vista neurologico per doppiare il giapponese bisogna che l’attore sia in grado di annullare le percezioni uditive afferenti al lobo temporale (corteccia uditiva primaria e secondaria), basta non prendere la cuffia. Poi cercare di utilizzare l' area di Broca, sede cerebrale del linguaggio, avvalendosi esclusivamente degli input che giungono dalla retina alla corteccia visiva primaria ossia vedere come si muove la figura, dimenticando assolutamente di come l’aveva sentita parlare nel giro di prova. Poi in pieno silenzio e sul muto, l’attore di doppiaggio che presta la voce ai giapponesi, opera questo miracolo di contorsionismi neuronali per parlare in italiano fluente.
Per ultimo vorrei invitarlo a ripensare i suoi pregiudizi verso le melanzane. Sono frutti, bacche, importate dal medio oriente che nel medioevo erano ritenute dal popolino “mele non sane” per il colore e l’amaro della scorza. Se Francesco farà pace con le melanzane non solo gusterà la caponatina agrodolce di Montalbano, la parmigiana di melanzane, quelle a funghetto, quelle tagliate sottili fritte e messe sopra a guarnire spaghetti con la colatura di alici di Cetara, ecc. «La pasta alla norma» (p. 63) si potrebbe evitare per via del valore calorico.
Ho letto con attenzione il capitolo 4 dedicato a Moro (p. 99). Anch’io guarda caso, quel mattino del 16 marzo 1978 salivo dalla Trionfale e, girando su Via Fani, come facevo abitualmente mi fermavo da “Olivetti” a prendere il caffé e il giornale nell’edicola accanto e proseguivo per andare a lavorare al manicomio di Monte Mario. Per fortuna arrivai, quando il criminale attentato di cui Francesco fu testimone oculare si era già consumato. C’era un gran trambusto e m’intimarono di proseguire, no sapevo nulla e un’ora dopo quando arrivai al Santa Maria della Pietà fui informato dell’accaduto. Concordo perfettamente col suo commento, peraltro di buon senso comune. «Un’idea me la sono fatta ma la verità proprio incontrovertibile non la conosceremo mai». (105)…
Penso che la lettura del libro sia di grande interesse perché racconta nei minimi dettagli cosa ha significato per molto tempo, mettere la voce in bocca a volti di attori stranieri provenienti in maggior parte dall’industria holliwoodiana, in una popolazione, quella italiana, allergica per pigrizia alla sottotitolazione, ma ancora, subito dopo la guerra, in gran parte analfabeta. Anni 1960-1968, Maestro Manzi, “Non è mai troppo tardi”, per intenderci. Una intervista preziosa, quella di Pannofino, sul lavoro complesso e minuzioso di tante professionalità straordinarie di un tempo, come quella del “rumorista” Cacioppolo che ho conosciuto personalmente in Rai mentre mi mostrava i gusci delle noci di cocco per simulare il rumore degli zoccoli sul selciato. Un mondo scomparso nelle “colonne separate” inviate via e-mail. Un’altra dimensione della parola, del racconto, dell’ascolto, massacrati nei telefonini di adesso. Vere e proprie moviole tascabili micidiali, velocizzano il parlato e il visivo di qualsiasi comunicazione, causando dipendenza nei bambini, come stanno notando i pedo-psichiatri.
Per quanto mi riguarda, dopo la prima lettura, ho chiuso gli occhi e mi sono allungato sulla chaise-longue. La mente mi si è affollata di una quantità irrefrenabile di ricordi personali, lontanissimi come accade quando si è distesi sul divano dello psicoanalista, sia in versione tradizionale freudiana, o vis-à-vi come in quella junhiana, o lacaniana, o comportamentista o come altrimenti si voglia immaginare. Fu Silvia, mia moglie, diplomata all’Accademia Sharoff, a trascinarmi al “Teatro della Cometa” un gioiellino in Via del Teatro di Marcello. «Stasera dobbiamo assolutamente andare a vedere Pannofino, è bravissimo, fa una cosa con Anna Foglietta … » non vorrei sbagliare, la memoria mi si sbiadisce, doveva essere fine anni Novanta, secolo passato, ma mi conferma ciò che avevo sempre sospettato. Francesco è nato per fare teatro, la sua passione primigenia il suo talento assoluto! Tutte le attività che svolge nel campo dello spettacolo – a mio giudizio – sono orbite satellitari, in attesa di scendere sul pianeta Teatro. Infatti, anche quest’anno ho dovuto faticare per fargli gli auguri. Era scappato a Torino al “Carignano” per continuare la tournée di “Mine vaganti” una trasposizione da cinema a teatro dello stesso Ozpetek. Tutta questa girandola di sentimenti mi ha rievocato la lettura del libro-intervista che Francesco Pannofino ha reso a Roberto Corradi, ma in compenso mi ha alleviato la tristezza dalla perdita di Silvia che ci ha lasciato tre anni fa. Buona lettura.
(*) Per una serie di circostanze mirabolanti, Bernhard, era stato catapultato in Calabria nel campo di concentramento in quel di Ferramonti di Tarsia, il più grande dei 15 costruiti da Mussolini per compiacere Hitler nella politica contro ebrei, apolidi, stranieri nemici e slavi, nel 1940. Vale la pena sottolineare come possa diventare pericolosa l’ignoranza sospettosa in tempi di guerra. Ad Ernst Bernhard fu rifiutato il visto in Inghilterra, dove aveva cercato rifugio nel 1938, con la moglie Dora, perchè nel questionario d’ingresso, nella casella professione era riuscito ad infilare “medico pediatra, psicoanalista junghiano, chirologo e astrologo”. (Luciana Marinangeli, I Ching di Ernst Bernhard, La Lepre ed., Roma, 2015, p. 134).
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