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IL “MARTIROLOGIO DEGLI PSICHIATRI” Storie di ieri e storie di oggi

2 Mag 23

A cura di martucci

Il giorno di Pasqua del 1936 il Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Nocera Inferiore sta completando la consueta visita di controllo in tutti i reparti, per portare ai degenti «un saluto paterno, una parola di conforto e di umano amore». Il grande manicomio, originariamente intitolato a Vittorio Emanuele II, era stato fondato nel 1883 per ospitare i malati di una vasta area del Meridione, che la precedente struttura (la Real Casa di Aversa, diretta da Gaspare Virgilio) non era più in grado di ospitare per il crescente sovraffollamento. La sede del nuovo ospedale era un ex convento, appartenuto all’ordine degli Olivetani; successivamente la struttura si espanse e, a metà degli anni Trenta, conteneva oltre duemila pazienti. Dal 1931 la direzione non era affidata a un personaggio qualsiasi ma a Marco Levi Bianchini, il “temerario pioniere” che nel 1925 aveva fondato a Teramo la Società Psicoanalitica Italiana, di cui sarebbe divenuto Presidente onorario a vita (1).
Ma quella mattina il percorso del “Don Chisciotte della nuova scienza” rischia di interrompersi tragicamente. L’episodio, sconosciuto ai più, è narrato diffusamente dallo stesso Levi Bianchini nelle sue memorie, sinora rimaste inedite (2).
Uscito dal Reparto femminile, accompagnato da due collaboratori, attraversa il camerone di raduno del Padiglione di sorveglianza speciale del Reparto maschile, dove sono presenti una quarantina di ricoverati con vario grado di pericolosità (“maniaci veri, deliranti persecutori e perseguitati, confusi mentali cronici ed impulsivi”). Prosegue la visita verso le stanze di isolamento, chiuse perché destinate ai malati più temibili, “pronti ad aggredire chiunque si presentasse” e, nel corridoio, incontra un certo Antonio Moffa, “subdelirante a carattere epilettoide, noto per la sua aggressività”.
Moffa ha un passato tipico: internato per 5 anni nel manicomio criminale di Monte Lupo Fiorentino per aver gravemente ferito la madre, “apparendo migliorato” era stato rimandato in famiglia per un breve periodo, ma poi nuovamente inviato al manicomio di Nocera Inferiore, dove vive ormai da un lustro. Nonostante i trascorsi gode di una certa libertà, in quanto “ottimo lavoratore”: Levi Bianchini infatti è sostenitore del non restraint e dell’ergoterapia. Ma quando Moffa incrocia il Direttore, senza alcun preavviso lo attacca “rapido come un lampo”, colpendolo tre volte con estrema violenza, sino a che gli infermieri, dapprima sorpresi, intervengono per bloccarlo e disarmarlo. Risulta subito che il Moffa, per quello che appare un gesto premeditato, si è servito di un rudimentale pugnale, costituto da un grosso chiodo “per le armature di legno dei tetti”, piegato in maniera da formare un’impugnatura, rilegata con stracci di tela, e “affilato in modo da perforare anche il ferro”, un’arma quasi certamente “introdotta da fuori”, forse da un complice e istigatore.  
Ricoverato nell’infermeria, Marco Levi Bianchini può constatare di aver mancato di poco la “brutta morte”, come la chiama: il ferro era penetrato per 6-7 centimetri nei muscoli della coscia sinistra, sfiorando l’arteria femorale. Un altro colpo aveva perforato camice e giacca, limitandosi a graffiare la pelle all’altezza del cuore. Non era la prima volta che il divulgatore italiano di Freud sfuggiva al “libro del martirologio degli psichiatri”, per usare la sua definizione. Già nel 1913 un adolescente, “epilettico pericolosissimo” che non sopportava l’ospedale, lo aveva ferito leggermente con uno stiletto di legno acuminato, ricavato da un pezzo di manico di scopa.
L’aggressione del 1936 ebbe un seguito bizzarro.  Nonostante il Direttore di Nocera Inferiore avesse raccomandato di trasferire l’aggressore in un manicomio criminale senza procedere nei suoi confronti, una nuova perizia disposta d’ufficio lo aveva valutato sano di mente e di conseguenza era stato avviato un processo presso la Corte d’Assise di Salerno. Convocato all’udienza come parte lesa e testimone, Levi Bianchini non mancò di esprimersi con estrema franchezza col Presidente della Corte, che gli chiedeva un parere circa la sanità mentale del suo aggressore, riconosciuta nella perizia d’ufficio. La risposta fu: «Sign. Presidente, i casi sono due: o è un asino il mio Collega, o sono un asino io stesso. Voglia, la prego, giudicare». E proseguì argomentando: «Nella malattia mentale, il paziente non è sempre necessariamente demente: cioè può non aver perduto del tutto la capacità dell’intelletto, come il caso attuale; ma è sovente un soggetto, come l’attuale, incapace a comprendere la realtà, a condursi di conseguenza in modo da non nuocere a sé stesso oppure al suo prossimo, per avere perduto in parte o quasi del tutto il controllo della coscienza morale (il Super- Io di noi psicoanalisti). Questo è il caso di Moffa». E in effetti quest’ultimo – mai pentito e anzi dispiaciuto (come affermò) di non aver ucciso il Direttore – fu poi riconosciuto non imputabile e internato nel manicomio criminale di Aversa.
A proposito di quell’esito, Marco Levi Bianchini osservò che «molti troveranno strano che io abbia difeso il mio assassino (…) ma io non sono affatto pentito di averlo dichiarato irresponsabile, come era mio dovere di psichiatra, e perciò non punibile; pur riconoscendo, come è logico, la necessità di isolarlo dalla società a titolo di difesa altrui e di adibirlo ad una terapia del lavoro». «Anzi – ribadiva, con l’enfasi che era propria al personaggio – avevo buon motivo di ringraziare il Signore Iddio di Israele (…) quando penso che un altro mio Collega, Michele Bombarda, Direttore del Manicomio di Lisbona, veniva barbaramente ucciso nel 1910, con sei colpi di pistola da un ufficiale paranoide suo antico ricoverato; e già morente, esclamava alle persone che avevano attorniato l’uccisore: “non gli fate del male, perché è un alienato!”. Quanta grandezza sconosciuta! Quale sublime esempio ai giovani ed ai venturi!!» (3).
L’omicidio di Bombarda era ben conosciuto da Levi Bianchini, perché nel 1933, sull’Archivio Generale di Neurologia, Psichiatria e Psicoanalisi (la rivista da lui fondata e diretta), aveva pubblicato una breve ma densa monografia intitolata Il suicidio e l’omicidio degli alienati negli ospedali psichiatrici (4). Il saggio – per certi aspetti e per quei tempi unico nel suo genere – sotto i titoli Martirologio dei direttori e dei medici di ospedale psichiatrico e Martirologio degli infermieri di ospedale psichiatrico, riporta estesamente circa 80 casi di medici, sorveglianti e infermieri uccisi o feriti da degenti durante il servizio ospedaliero. L’elenco, raccolto con pazienza certosina anche tramite questionari diffusi presso le Direzioni sanitarie, riguardava fatti avvenuti in Italia e all’estero (soprattutto in Francia e in Germania), a dimostrazione che «Solo chi vive nel manicomio giorno e notte, per anni e decenni, sa di quali diuturni sacrifici e di quali indicibili difficoltà siano materiate la vita e l’opera dei Direttori, dei medici e degli infermieri di manicomio, in confronto di quelle, così comode e serene, del personale direttivo e subalterno degli ospedali civili e sanatoriali». 
Tuttavia la ricerca tentava di allargare l’orizzonte al quadro generale della violenza legata al disagio psichico e alla sua istituzionalizzazione, presentando anche un Martirologio degli Alienati internati, con statistiche dettagliate sui pazienti psichiatrici deceduti o feriti per maltrattamenti posti in essere dal personale dei manicomi, o da altri alienati. Né mancava un Martirologio Sociale, con i delitti contro le persone commesse da “alienati in libertà”. Nell’ampia trattazione l’Autore si proponeva di analizzare le “causali psicopatologiche endogene ed esogene” delle aggressioni, le eventuali caratteristiche differenzianti rispetto alle condotte violente ordinarie e i rapporti di causa ed effetto “con la organizzazione tecnico-sanitaria, disciplinare ed amministrativa dell’Ospedale psichiatrico”.
Nelle conclusioni, circa le motivazioni psicopatologiche delle aggressioni, Levi Bianchini evidenziava come il “rancore” per la perdita della “libertà fisica e sociale” fosse alla base della maggior parte dei fatti, un rancore “così violento” negli alienati «che la proiezione di questo loro complesso ideoaffettivo sulle persone dei medici è così stabilmente fissata (…) che anche rimessi in libertà, essi cercano spesso di uccidere quei medici dell’ospedale psichiatrico, anche mai visti, che essi ritengono autori del loro internamento o della loro detenzione». Rispetto a queste dinamiche, le strutture asilari andavano migliorate in termini di ampliamento e specializzazione per superane “la insufficiente organizzazione edilizia” e impedire il sovraffollamento, obiettivi difficili da perseguire data la cronica insufficienza delle risorse economiche.
Quanto alla sorveglianza sui degenti, non era proponibile accentuarla oltre certi limiti, sia per impossibilità organizzative sia, soprattutto, per motivi etici: «se tutti i malati di ospedale psichiatrico venissero sorvegliati a vista, l’ospedale si trasformerebbe, nella migliore delle ipotesi, in un reclusorio, per non dire in un ergastolo: oppure – nella peggiore ipotesi – in un carnaio umano, nel caso in cui la sorveglianza, od i suoi risultati, venissero realizzati sia con la contenzione fisica portata alle estreme conseguenze, sia con la contenzione chimica ottenuta avvelenando cronicamente i ricoverati con gli ipnotici morfinici e malonilureici, o con i sedativi paralizzanti, ioscino scopolaminici».  In definitiva la difficoltà della sorveglianza sui malati pericolosi era determinata soprattutto dall’affollamento dei reparti, un inconveniente che “esiste allo stato di cronicità in moltissimi ospedali psichiatrici italiani ed esteri”, per motivi essenzialmente finanziari.
Stando così le cose, «ogni attività umana ha i suoi rischi; ogni essere umano ha le sue incognite; ogni professione ha il suo martirologio. Quella dei (sic) psichiatri ospedalieri ha mille doppi più di qualsiasi altra. Che non si pretenda adunque, da questi uomini di buona volontà, nulla di più di quanto possano dare, al di sopra della loro completa dedizione al proprio dovere e della loro modesta ma salda scienza ed esperienza».
Purtroppo, a distanza di novant’anni, soppressi i manicomi, trasferita la cura sul territorio, rivoluzionate le terapie, il martirologio degli psichiatri non si è ancora chiuso.
 
NOTE
 
  1. Cfr. CORSA R. (2015), Marco Levi Bianchini. Lo psichiatra temerario che fondò la Società Psicoanalitica Italiana, in Rivista di Psicoanalisi, 3, 751-782.
  2. Una copia dattiloscritta dell’autobiografia di Marco Levi Bianchini, dal titolo La vita tormentata di un (sic) psicoanalista è stata depositata nel fondo Alessandro Levi del Museo Correr di Venezia, su iniziativa della dott.ssa Marilì Cammarata, ricercatrice di judaica, e da alcuni eredi. Le notizie sulla vicenda qui rievocata sono tratte dal cap. XVI dell’opera.
  3. Miguel Augusto Bombarda (1851-1910), fu un medico, psichiatra e uomo politico portoghese, uno dei leader della rivoluzione che, due giorni dopo il suo assassinio, portò alla caduta della monarchia e all’instaurazione della repubblica.
  4. LEVI BIANCHINI M. (1933), Il suicidio e l’omicidio degli alienati negli ospedali psichiatrici, in Archivio Generale di Neurologia, Psichiatria e Psicoanalisi, XIV, 205-278.

 

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