LA RESPONSABILITÀ PENALE DELLO PSICHIATRA - PREMESSA
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Premessa
Il “principio di non contraddizione”, introdotto nel quarto libro della Metafisica aristotelico, governa, insieme al principio di causalità, la struttura della ragione occidentale e, come conseguenza logica, il nostro agire è governato, inconsciamente, dal nostro “essere” oggettivizzato nel mondo e dal mondo (“Umwelt” in tedesco, che sta a significare il mondo circostante, l’ambiente), che per il sol essere venuto ad esistere nella realtà empirica è divenuto “ente” ( “In der Welt”, colui che “è”, sta nel mondo), dunque tutt’altro da quella che è la nostra vera essenza e dal “senso” della nostra esistenza1. Ciascuno di noi – la presenza umana di ogni essere umano (“Dasein”, in tedesco) – esiste nel proprio originario “essere-nel-mondo” (In-der-Welt-sein), senza alcuna distinzione, caricandoci, invece, di caratterizzazioni che ci differenziano2, tuttavia riduttivamente o in peius, per i diversi modi di essere con cui decidiamo di vivere “nel mondo”, anziché “fuori da esso”. Questi diversi “modi di essere” sono da interpretare come funzioni, non dis-funzioni, di una certa strutturazione dell’esistenza, di un progetto (“Ent-wurf”) – che ciascun uomo elabora per sé – che permette di collocarci nel “Welt” e di “aprirci ad esso”, iniziando una relazione con esso definita anche come “Verweltlichung”. È bene precisare ciò in quanto prodromico alla comprensione ed alla giusta considerazione del/dei protagonista/i della trattazione: il medico psichiatra ed il paziente, nel loro rapporto giuridico e metagiuridico3. Come emergerà in seguito, limitandocisi qui a fornire la chiave di lettura corretta, “il sano di mente” ed il “malato” non esistono se non come distinti “modi di essere” perché, come è stato detto, entrambi appartengono allo stesso “mondo” – senza ricorrere a precostituiti modelli, anche, come in questo caso, “nosografici”, o norme generali – ed il secondo, “l’alienato”, vi appartiene in un “modo diverso”, in quanto l’unico possibile, per lui, di realizzare la propria “essenza”, che, come si è lasciato emergere implicitamente, altro è dall’ “essere (-ci, nel mondo)”, (“Dasein”, in tedesco) o “esistere”, questi essendo la sua rappresentazione “menomata” o “esistenza negata”, immanente, e non trascendente, mai libera: colui che è considerato “fuori di testa”, in realtà, ha “consapevolmente” scelto di vivere “fuori” dal tempo (“zeitigt”), dallo spazio (“raumgibt”), dal mondano (“weltlicht”), da un’esistenza “condivisa” (“mit-da-sein”)4. Contrariamente ai nostri comuni dogmi, nessuno di noi è realmente libero di scegliere o agire, quantomeno discostandosi dal modo di comportarsi che gli è solito – nessuno di noi si contraddice mai veramente, quantunque lo volesse – al fine di rispondere non alle proprie esigenze, ma a quelle dettate dalla categoria gutturale, come la avrebbero definita i Greci, della “necessità” (“Anánkē”, che nel greco antico sta a significare la “necessità” immutabile dettata dalla Natura), che viene utilizzata per rappresentare un potere forte ed incontrastabile da parte dell’uomo: siamo mezzi nella mani della danzatrice, la Natura, utilizzati per soddisfare i suoi di bisogni, della sua economia, ovvero la riproduzione della specie5. Fu Parmenide, il primo, che alla base delle sue indagini pose questa affermazione: “l’essere è e il non essere non è”, o, detto in altro modo, che “è impossibile che l’essere non sia e che il non essere sia.” Queste due proposizioni, esprimenti sia pure in modo diverso, lo stesso contenuto, vennero più tardi chiamate, rispettivamente, “il principio di identità” ed il “principio di non contraddizione”. Contro coloro che tentano di negarlo Parmenide inveisce, definendoli “sordi”, “ciechi”, i quali si mettono per una via del tutto inindagabile. In che cosa consista concretamente questa sordità e cecità egli non lo svela. E’ quanto invece farà Aristotele nell’opera di cui in precedenza si è fatta menzione6. Cosa significa esattamente essere “principio”? Se negassimo l’immobilità e la semplicità dell’essere, due importanti teoremi, verrebbe negato il principio di identità-non contraddizione. Infatti qualcosa diviene soltanto in quanto c’è un momento in cui esso non è – ossia o in un primo momento non è e poi è, o viceversa – sì che l’essere divenisse, si dovrebbe affermare che, in un momento del processo del divenire, l’essere non è; e questo è appunto quanto non può essere assolutamente sostenuto7. E, se l’essere fosse molteplice, i termini della molteplicità potrebbero sussistere solo in quanto, oltre al loro essere, fossero altro dall’essere; ma altro dall’essere è solo il non essere; si che dire che il molteplice “è” significa dire che il non essere è; e anche questo è un modo di negare quanto assolutamente non può essere negato8. Da quanto appena considerato sembra evidente che Parmenide fu il primo ad offrirne una “dimostrazione” del significato filosofico, primario che questo termine possiede. Nella logica classica, per fornire un’applicazione ed illustrazione pratica di quanto dichiarato, si definisce “dimostrata” una proposizione A, in senso rigoroso o filosofico, quando e soltanto quando si è in grado di mostrare che la sua negazione implica necessariamente la negazione del principio di identità-non contraddizione, ossia implica la negazione di ciò che non può essere negato, sì che nemmeno la A può essere negata9. Con ciò diventa chiaro che quel principio che sta “alla base” è principio di altri asserti, nel senso che la sua affermazione implica necessariamente l’affermazione di quegli asserti: la implica perché la negazione di questi – per Parmenide “l’essere diviene”, “l’essere è molteplice” – implica necessariamente la negazione di quello. Sia Aristotele che Platone, confermando la validità assoluta del principio di non contraddizione, ne accolgono necessariamente una formulazione diversa, che si fonda su un intendere diverso il concetto dell’essere: l’essere come ente (ὄν), come ciò che è (id quod est, ὁ ἐστί(ν)). Su di esso si concentra l’attenzione di Aristotele e la dottrina platonica dei due sensi del non-essere si completa nella dottrina aristotelica dell’ente in quanto ente e dell’analogia dell’ente10. Il quarto libro della Metafisica di Aristotele si apre con la seguente osservazione: l’essere può essere scientificamente indagato in quanto è come ente oppure in quanto è quella certa determinazione che differisce dalle altre. Solo la filosofia prima o metafisica considera dell’essere le proprietà conferitegli dal “qualcosa che è”, le quali “gli convengono essenzialmente” – o per se (tò kath'autò) – non potendo rilevare qualità accidentali (per accidens)11. “È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga e per il medesimo rispetto”12. È infatti impossibile che uno stesso creda, ad un tempo, che la stessa cosa sia e non sia: se così fosse ogni uomo si ingannerebbe da sé, avendo opinioni contrarie. Perciò ogni dimostrazione viene ricondotta alla convinzione per cui il principio in questione è fonte di ogni altro assioma ed il più saldo di tutti. Esso è la prima e fondamentale proprietà dell’essere in quanto essere, ossia affermazione che non si basa su altra, è vera per se stessa, non può essere negata: nell’atto stesso in cui tale principio è negato, esso è implicitamente affermato, poiché lo si può negare solo a parole, confermandone la validità ed esistenza13. Il principio di non contraddizione trova diverse formulazioni, soprattutto nella branca della logica classica, di matrice aristotelica: la stessa cosa x non può convenire e insieme non convenire per il medesimo rispetto alla stessa cosa y, perché per rispetti diversi, la stessa cosa x può convenire e insieme non convenire alla stessa cosa y. Altro modo di applicare questo principio si rinviene nei contrari, non soltanto rappresentati dalle nozioni (es: bello-brutto, vero-falso, ecc.), ma anche dalle proposizioni. Si consideri che il genere G sia il giudizio sul colore di x (dove x sta ad indicare una superficie qualsiasi)14. Dunque, la proposizione “x è colorato” sta a G così come “bianco” sta al genere colore. Infatti come il bianco è un certo colore, ossia è una specificazione del genere colore, così la proposizione “x è colorato” è un certo giudizio sul colore di x, ossia è una specificazione di G, la quale, in relazione alla proposizione “x non è colorato” (che è anche essa una specificazione di G), costituisce la differenza o opposizione massima di G. Le due proposizioni, “x è colorato” (sia p questa) e “x non è colorato” (sia q questa) sono pertanto due termini contrari tra loro. P e q valgono primariamente, o per se (ex se), come contrari15. Il significato delle espressioni “per se”, “per accidens” possono essere chiarite con due esempi: se un architetto costruisce una casa, l’architetto è per se, ossia come tale, in quanto tale, costruttore della casa; se poi l’architetto è vegetariano – se cioè all’architetto capita, accidit, di essere vegetariano –, si dirà che un vegetariano è per accidens, costruttore di quella casa. Per riassumere quanto appena illustrato si può dire che è impossibile che la stessa persona insieme creda che una cosa sia e che questa cosa non sia16. Una riflessione su tale principio, o come si suol dire nel linguaggio giuridico, un norma generale o generalissima, è necessaria non solo per chi è interessato al sapere filosofico, in quanto suo incipit, ma essenziale ancor più per comprendere uno dei fondamenti dell’ordinamento giuridico, in particolare nella sua branca penalistica, secondo una concezione sistemica. Le prospettive ed il modus operandi adottati dalle due scienze, quella giuridica e filosofica, che sono l’una coessenziale all’altra, sono le medesime. La ricerca dell’elemento assoluto, generale ed astratto, il primo regolatore e da nient’altro ulteriormente regolato, generatore di altre e nuove regole, ma non preceduto da altre a priori esistenti, è proprio di entrambe e con Aristotele, per la prima volta, lo sguardo è stato sollevato dal mondo fisico e materiale, verso la totalità di tutte le cose, innalzandosi da questo e oltre questo. È precisamente l’apertura dell’orizzonte della totalità che conduce alla domanda sul principio (ἀρχή): sorge la questione, più o meno esplicita e consapevole, di stabilire che cosa sia ciò per cui tutte le cose, che pur si differenziano tra di loro (non contraddizione inteso come molteplicità), si realizzano in una unità. Allora la domanda è altra: quale sia il principio unificatore del molteplice, quale sia il fondamento o principio dell’unità. I primi pensatori greci lo ricercarono ed identificarono nelle diverse manifestazioni della materia. Tuttavia esso non può per nulla essere determinato, determinabile, qualificabile, diveniente e mutabile nella particolarità, ma, come dice Parmenide, appartenente ad ogni essere, comune ad ogni cosa., ciò in cui ogni cosa è identica ad ogni altra: il suo essere. Dall’unità parmenidea si è poi addivenuti, in base a quanto prima dichiarato, a conferire cittadinanza al “non essere” platonico-aristotelico in quanto molteplice e diverso, questa o quella determinazione possono convenire o meno ad un oggetto che “è”. Per concludere con una illustrazione esemplificativa, dire che un fiore rosso non è rosso significa dire infatti che l’essere (il fiore rosso) è non essere (appunto in quanto il fiore non rosso è non essere rispetto a quell’essere che è il fiore rosso). Dopotutto persino Kant, nella “Critica del giudizio”, sottolinea che una qualunque divisione fatta a priori, o sarà analitica secondo il principio di non contraddizione (quodlibet ens est aut A aut non A), ed allora sempre in due parti, o sintetico-triadica.17 Perché il lettore meglio colga l’importanza nel diritto, e non soltanto, di tale principio, il quale per il sol fatto oggettivo di essere di matrice filosofica rende naturale e consequenziale la convinzione che esso permei l’intera realtà empirica da cui l’insieme di regole normative traggono la loro origine ed ivi finiscono per trovare il loro senso o la loro ratio, basta considerare che la sua valenza logica viene richiamata ed esaltata nel quadro di prescrizioni deontologiche inerenti la condotta umana, in modo tale che i due livelli – quello logico e deontologico – risultano strettamente connessi. Per spiegare questo convincimento, si osservi la celeberrima terzina dantesca di Inf. c. XVII, vv. 118-12018, il cui discorso è intorno al pentimento e all’assoluzione, avente natura teologica e morale, e si rappresentino le proposizioni secondo la logica della premessa maggiore (c’è assoluzione se e solo se c’è pentimento)19, della premessa minore (non c’è pentimento dato che Tizio “vuole” ancora quell’azione)20 e della conclusione (dunque, non c’è assoluzione)21. Il diritto è interessato dal principio di non contraddizione nella misura in cui fra i suoi campi d’indagine rientrano le proposizioni di genere prescrittivo nonché il rapporto coerente fra esse. Esso è sì un principio logico, ma anche ontologico, nel senso che è fondamento di tutto, ed in particolare del modello di sapere dialettico, che si snoda attorno alla co-originarietà di identità e differenza e che si destruttura e snatura nelle discipline cosiddette umanistiche22. Insomma, lo studio del diritto non può prescindere dalla connessione oggetto-soggetto, essere-pensiero-discorso23: pretendendosi “oggettiva” la scienza giuridica si priverebbe di una parte essenziale dell’intero, il soggetto appunto, essendo l’oggetto soltanto una parte dell’intero e oltretutto nell’epistemologia contemporanea, “oggettivo” non è affatto sinonimo di “universale”, né in ambito formale (ove ogni tentativo di conseguire l’oggettività è viziato da “incompletezza”), né in ambito empirico (l’osservatore condiziona inevitabilmente l’esperimento)24.
1 U. Galimberti, “Il tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers”, Milano, 2005, 10ss.
2 Attraverso i diversi modelli percettivi, comportamentali e comprensivi. Si veda U. Galimberti, “Psichiatria e fenomenologia”, Milano, 2019, 18 ss.
3 U. Galimberti, op. cit., 18 ss.
4 U. Galimberti, op. cit., 18 ss.
5 U. Galimberti, “L’illusione della libertà”, conferenza svoltasi presso l’auditorium comunale “Aldo Tundo”, (LE), 2016; J.W. von Goethe, “Meditazioni sulla natura”, Prato, 2018, pp.160; A. Shopenhauer, “La volontà nella natura”, 1836.
6 E. Severino, “Il principio di non contraddizione”, Milano, 1995, 1ss.
7 E. Severino, op. cit., 1 ss.
8 E. Severino, op. cit., 1 ss.; Hegel, “Scienza della logica”, Bari, 2020, 10 ss.
9 E. Severino, op. cit., 1 ss.
10 E. Severino, op. cit., 1 ss
11 Aristotele, “Metafisica”, IV libro, par. I, Bari, 2018, 1 ss. Si veda E. Severino, op. cit., 1 ss.
12 Aristotele, “Metafisica”, IV libro, par. IV, Bari, 2018, 1 ss. Si veda E. Severino, op. cit., 1 ss.
13 E. Severino, op. cit., 1 ss.
14 E. Severino, op. cit., 1 ss.
15 E. Severino, op. cit., 1 ss
16 E. Severino, op. cit., pag. 32; si veda anche Hegel, “Scienza della logica”, Bari, 2020.
17 “Das liegt aber in der Natur der Sache. Soll eine Eintheilung a priori geshehen, so wird sie entweder analytisch sein nach dem Satze des Widespruchs;und da ist sie jederzeit zweitheilig (quodlibet ens est aut A aut non A). Oder sie ist synthetisch. Die Eintheilung nothwendig Trichotomie sein”, I. Kant, “Critica del giudizio”, Bari, 2020, pag. 67.
18 “Ch’assolver non si può chi non si pente, /né pentere e volere insieme puossi/ per la contradizion che nol consente.” D. Alighieri, “La Divina Commedia”, Inf. c. XVII, vv. 118-120. Si veda AA. VV., “La contradizion che nol consente”, Milano, 2010, pag. 92.
19 Oppure simbolicamente (P= “C’è assoluzione” e Q= “c’è pentimento”), P se e solo se Q. Si veda AA. VV., op. cit.
20 Non si dà il caso che Q. Si veda AA. VV., op. cit., 92 ss.
21 Non si dà il caso che P. Si veda AA. VV., op. cit., 92 ss
22 “Il diritto in ogni suo aspetto, anche quello meramente normativo, è pur sempre hominum causa constitutum, cioè relativo, benché in modo peculiare, alla relazione fra soggetti.”, AA. VV., op. cit., 92 ss.
23 “Senza la sua opera di profilassi logica non sarebbe possibile organizzare rigorosamente i discorsi che hanno luogo nel e intorno al processo”, AA. VV., op. cit., pag. 81.