Il fondamento normativo del consenso informato
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Il fondamento normativo del consenso informato
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Esclusa la possibilità di ricondurre il consenso informato all’art. 50 c.p., occorre verificarne il fondamento normativo. Qui la Convenzione di Oviedo merita di essere chiamata in causa, anche se ne è stata discussa l’applicabilità1. Ha indotto a ritenere che essa non fosse entrata in vigore il fatto che il Governo non ha provveduto ad esercitare la delega conferitagli dall’art. 3 della legge di ratifica n. 145/2001 per emanare “uno o più decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi” della convenzione. In senso contrario, si rileva che proprio il riferimento ad “ulteriori disposizioni” dimostra l’immediata vigenza delle norme direttamente previste dalla Convenzione stessa in quanto non influenzata dal contenuto di tali emanandi decreti2. Secondo autorevole dottrina, invece la conferma dell’inapplicabilità della Convenzione di Oviedo deriva dal fatto che l’Italia non ha ancora provveduto a depositare presso il Consiglio d’Europa il proprio strumento di ratifica, come invece richiesto dall’art. 33 della Convenzione stessa3. Tuttavia essa riveste un interesse che richiede di tenerne conto e del resto poiché è stata ratificata e contiene principi conformi alla nostra Costituzione, il mancato deposito dello strumento di ratifica non impedisce di attribuire alla disciplina comunitaria “una funzione ausiliaria sul piano interpretativo”: le sue disposizioni non possono prevalere sulle norme interne contrarie, ma devono essere utilizzate nell’interpretazione della legge nazionale al fine di attribuirle una lettura il più possibile conforme all’ordinamento comunitario4. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie tendono a ricondurre il consenso nell’ambito dei diritti costituzionali della persona, individuandone il fondamento negli articoli 13, 32 e 2 Cost.5 Ciò significa che anche il diritto di autodeterminazione, in riferimento a trattamenti di natura sanitaria, non è un principio collegato al solo diritto alla salute, ma è espressione del generale diritto di libertà dell’individuo6. Si può dire che si è pervenuti ad una integrazione originale tra libertà e salute, intesa questa nel senso di benessere psico-fisico dell’individuo che rappresenta modalità di estrinsecazione del fondamentale e superiore diritto di autodeterminazione del soggetto7. In questo senso la Costituzione è informata al “principio personalistico”, ossia incentrata sul valore primario della persona, portatrice di diritti in quanto tale e quindi indipendentemente dall’intervento dello Stato e senza il condizionamento di finalità collettive. Ciò emerge espressamente dall’art. 2 Cost., che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che come membro di un gruppo8. Quindi si può sostenere il riconoscimento costituzionale della libertà di autodeterminazione, la quale, tuttavia, troverebbe secondo questa impostazione ben più espliciti referenti nella nostra Costituzione9. Infatti, anche l’art. 32 Cost., che condiziona il trattamento sanitario obbligatorio ad un’esplicita previsione di legge, nonché alla sussistenza di un interesse della collettività ed al rispetto della persona umana, è espressione del principio personalistico, in quanto volto ad escludere la strumentalizzazione autoritativa dell’uomo. Come conseguenza, la tutela della libertà di autodeterminazione pretende l’inviolabilità fisica dell’individuo10. La Suprema Corte ha cristallizzato questa tesi affermando che “la necessità del consenso si evince, in generale, dall’art. 13 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi inclusa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica”11. I richiami all’articolo 13 Cost., che riconosce l’inviolabilità della libertà personale, e all’art. 32 Cost. sono stati tuttavia criticati da una parte minoritaria della dottrina, che ha evidenziato come tali disposizioni siano connotate da una preminente valenza pubblicistica, e non siano quindi idonee a regolare le relazioni di diritto privato12. È stato sottolineato, inoltre, che, se si facesse rientrare la libertà di autodeterminazione nell’art. 13 Cost., qualunque obbligo sarebbe incostituzionale se non fosse introdotto con “atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”13. Una parte della dottrina ha anche escluso che il diritto al consenso informato possa rientrare nell’art. 2 Cost., perché i diritti inviolabili appartengono all’essere umano in quanto tale, senza che debba intervenire lo Stato per concederli, mentre l’obbligo di acquisire il consenso informato “viene ad esistenza solo nel quadro del rapporto che l’uomo, nella sua qualità di paziente, instauri con il medico”14. Inoltre la medesima dottrina mette in risalto l’assenza nel diritto al consenso informato di un connotato tipico dei diritti inviolabili, l’indisponibilità, in quanto nulla impedisce al paziente di rinunciare al diritto di essere informato. Esclusane la natura di diritto assoluto della persona, il diritto al consenso informato andrebbe ricondotto nella categoria dei diritti di credito, ossia relativi15, in quanto nasce e viene esercitato all’interno del contratto d’opera intellettuale16. È stato, tuttavia, obiettato che il divieto assoluto di disporre di un bene non è l’unico modo in cui si manifesta l’indisponibilità, ben potendo questa essere rintracciata nella possibilità di revocare in ogni momento e senza condizioni il consenso alla violazione del proprio diritto17, e quindi anche nella possibilità per il paziente di pretendere l’informazione, riconsiderando la iniziale scelta di rinunciarvi. Tuttavia, pur sostenendo che il diritto alla libera autodeterminazione sia sprovvisto del requisito della indisponibilità, e che quindi non possa rientrare nei diritti inviolabili, si dovrebbe ammettere la natura assoluta, e non già la relativa, di questa libertà in virtù della tutela erga omnes riconosciutale dall’ordinamento18. Infatti, il legislatore ha protetto il bene giuridico della libertà morale contro le aggressioni da chiunque poste in essere attraverso la previsione delle fattispecie contenute negli artt. dal 610 al 613 c.p. (rispettivamente, violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia e stato di incapacità procurato mediante violenza)19. Tuttavia, se è vero che l’ordinamento impone a tutti di astenersi dal limitare la libertà di autodeterminazione, appare anche indubitabile che questa, entrando nel rapporto tra paziente e medico, impone a quest’ultimo l’obbligo di attivarsi per consentire al malato una scelta consapevole, il che è incompatibile con la struttura del diritto assoluto, la quale invece richiede ai consociati un mero dovere di astenersi da attività che possano pregiudicarlo20. Comunque, pur sostenendo che la rinunciabilità del diritto alla libera e consapevole autodeterminazione ne escluda l’ingresso tra i diritti della personalità, e che l’obbligo di attivarsi implichi la natura relativa del diritto al consenso informato, non sembra che ne possa essere messa in discussione la rilevanza costituzionale, esplicitamente attribuita ad esso dall’art. 32, comma 2, Cost.21 Anche la legislazione ordinaria offre indicazioni chiarificatrici in ordine alla rilevanza da attribuire alla volontà del paziente. La legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, specifica all’art. 33, ribadendo letteralmente il principio già espresso dall’art. 1, comma 1, della legge n. 180/1978, che il trattamento sanitario è sempre volontario22. Dunque il legislatore aderisce ad una concezione che vede nell’uomo non uno strumento, in quanto tale suscettibile di essere asservito ad interessi di rilevanza collettiva, ma un valore in sé e per sé considerato, titolare di diritti inviolabili che l’art. 2 Cost. gli riconosce “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”23. Questa formulazione esprime ulteriormente come la partecipazione alla vita pubblica non comporti la subordinazione dell’individuo al solo interesse della collettività: infatti, anche nell’ambito dei più vari aggregati sociali, la persona conserva intatti i propri diritti inviolabili, tra i quali la libertà di autodeterminazione, la cui violazione si risolve in un’offesa ad uno degli aspetti della dignità24 umana. Ancora più rilevante è il disposto dell’art. 1, commi 2 e 5, della legge n. 180/1978, che, in attuazione dell’art. 32, comma 2, Cost., circoscrive ai casi “espressamente previsti da leggi dello Stato”, la possibilità di eseguire accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, i quali devono, comunque, essere praticati “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” e “devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”25. Su questa base, tra la Convenzione di Oviedo, la sommarietà degli artt. 2, 13 e 32 Cost., dell’art. 33 della legge n. 833/1978 ed 1 della legge 180/1978, l’unica disciplina generale del consenso informato è quella deontologica. Le disposizioni dei codici deontologici, infatti, anche senza essere richiamate dalla legge, hanno rilevanza giuridica come “elementi di integrazione extranormativa dei concetti di diligenza professionale (e quindi di colpa) e delle clausole generali di correttezza e buona fede”26. Peraltro, anche in materia di consenso risulta confermata la rilevanza giuridica delle regole deontologiche “quali strumenti ermeneutici idonei alla precisazione di principi generali, come quelli dell’adeguatezza dell’informazione, della libertà del consenso, ed in ultima analisi del principio di rispetto dell’autodeterminazione”27. Anche l’orientamento che esclude la natura giuridica delle norme deontologiche ritiene che queste, essendo fonti non legislative, possono rientrare nel concetto di “discipline” la cui inosservanza costituisce colpa specifica ex art. 43 c.p.28 Quindi, la disciplina deontologica, anche se priva nelle sue disposizioni di natura giuridica, risulta rilevante ai fini della soluzione dei concreti casi giudiziari, in quanto costituisce un indispensabile riferimento per valutare il carattere colposo della condotta del professionista29.
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Il limite al consenso del paziente: il rifiuto del trattamento da parte del professionista tra dovere e facoltà
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Il fine dell’esercizio della professione medica che tende al recupero o alla promozione della salute non esclude la possibilità, e talvolta anche il dovere, del medico di rifiutare le cure. Dottrina autorevole ritiene che il medico sia obbligato a rifiutare la propria prestazione sia in caso di interventi contra legem, quali la sterilizzazione non terapeutica e la fecondazione artificiale eterologa, sia quando il paziente chiede di sottoporsi a trattamenti la cui utilità terapeutica non sia comprovata e documentata30. Al dovere di astenersi da terapie che non sono pienamente accreditate corrisponde l’obbligo di eseguire il trattamento che, secondo scienza ed esperienza, assicura la maggiore efficacia terapeutica. La libertà del medico di scegliere secondo coscienza è circoscritta, invece, ai casi in cui, tra i vari trattamenti possibili, nessuno risulti scientificamente idoneo ad offrire il miglior rapporto costi-benefici31. Questa tesi, ispirata dall’intenzione di valorizzare la tutela della salute, suscita perplessità sul piano della concezione del rapporto medico-paziente: dall’affermazione dell’esistenza dell’obbligo del medico di rifiutare prestazioni la cui utilità non sia scientificamente dimostrata, consegue il disconoscimento del diritto del paziente di scegliere il trattamento che, a suo giudizio, meglio degli altri realizza il suo interesse. È logico ed evidente che la relazione medico-paziente debba tendere alla salute del malato32. Tuttavia, questa tesi erra nel voler perseguire questo obiettivo attraverso l’individuazione dei diritti e degli obblighi di cui il medico ed il paziente sono titolari nell’ambito del loro rapporto, anziché attraverso il dialogo. Solo quest’ultimo, infatti, può realizzare simultaneamente sia la protezione della salute, sia la tutela della libertà di autodeterminazione, in quanto comporta la comunicazione al paziente delle ragioni per cui un trattamento è preferibile rispetto agli altri e permette al medico di conoscere i motivi per cui l’assistito predilige la terapia meno indicata33. Di regola, allora, l’ “alleanza terapeutica” dovrebbe essere raggiunta sul trattamento scientificamente più affidabile. Secondo altro orientamento dottrinale, rientrano nelle facoltà di rifiuto i casi in cui il medico sia richiesto di prestare cure non collaudate o pericolose, o comunque non condivise secondo scienza ed esperienza, ferma restando la responsabilità del professionista nel caso di diniego34. A fronte di tali richieste, il sanitario è titolare del diritto all’ “obiezione di coscienza”, espressamente riconosciuto dall’art. 22 codice deontologico medico, in base al quale il sanitario può rifiutare la propria opera quando gli siano “richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico”, a meno che il rifiuto esponga la persona assistita ad un “grave ed immediato nocumento per la salute”35.
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Le eccezioni alla regola del consenso del paziente
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In questa sede è necessario, per una più profonda comprensione, trattare brevemente di alcune eccezioni in presenza delle quali, nonostante il dissenso del paziente, è lecito l’intervento del medico, il quale è esonerato dall’obbligo di acquisire il consenso informato: lo stato di necessità, i trattamenti sanitari obbligatori e l’incapacità del paziente di esprimere un valido consenso o dissenso, l’ultimo dei quali risulta essere fondamentale ai fini della nostra trattazione36 . Secondo una consolidata impostazione giurisprudenziale, anche quando il medico viola la regola del consenso informato, il trattamento terapeutico è lecito se ricorrono gli elementi costitutivi della scriminante dello stato di necessità, ossia nei casi in cui la prestazione medica è necessaria per salvare il paziente “dal pericolo attuale di danno grave alla persona”, il quale non sia stato volontariamente causato dal professionista, “né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo” (art. 54 c.p.)37. L’ interpretazione tradizionale, e tuttora prevalente, di questa disposizione spiega che la mera “indicazione” del trattamento dal punto di vista clinico-scientifico, in assenza di imminente pericolo di un danno grave alla persona, non solleva da responsabilità il medico che abbia omesso di informare il paziente e di acquisirne il consenso38. I requisiti, infatti, di attualità del pericolo ed inevitabilità del danno inducono a prediligere l’applicazione restrittiva dell’art. 54 c.p., come riferito a situazioni estreme in cui vi sia la necessità di un intervento tempestivo, che dovrà essere comunque ridotto a quanto indispensabile per evitare esiti infausti39. L’accertamento della sussistenza in concreto dell’urgenza deve essere condotto ex ante, ossia senza considerare le evoluzioni della situazione intervenute dopo la condotta di cui la liceità è valutata alla luce del parametro codicistico richiamato40. Ogni elemento deve essere valorizzato e relazionato con gli altri nell’ambito della fattispecie pratica, dalle caratteristiche nosografiche del processo morboso, alla qualifica del medico; dalle condizioni del tempo del suo operare, all’eventuale concorso di collaboratori ed ausiliari41; dallo strumento disponibile, alle esigenze terapeutiche del caso, ecc., ma questa minuziosa ricostruzione dei dati di fatto deve essere riferita e limitata al momento nel quale vennero formulati i giudizi diagnostici e prognostici, onde stabilire se essi si presentavano all’epoca corretti42. Una parte della dottrina ritiene, tuttavia, che quest’istituto non possa trovare applicazione nell’ambito dell’attività sanitaria. Infatti, lo stato di necessità medica, inteso come “pericolo medicalmente accertato per la vita o danno irreversibile per la salute”, non può coincidere necessariamente con l’istituto di matrice codicistica, in quanto la doverosità dell’intervento in caso di urgenza non può essere dedotta da parametri precostituiti di natura prevalentemente giuridica, ma deve essere valutata “per induzione dai dati biologici concretamente obiettivati”43. Dunque, seguendo questa tesi, nell’ambito dell’art. 54 c.p. non possono essere ricompresi automaticamente tutti i casi di emergenza medicalmente accertata, e a tal fine si evidenzia l’inidoneità del criterio del “pericolo attuale di danno grave alla persona” ad orientare il medico, poiché insoddisfacente dato che è indubbio che il sanitario sia obbligato ad intervenire, ma in discussione sono i presupposti dell’attualità del pericolo e della gravità del danno44. Un primo motivo di ostilità per la tesi che applica al trattamento sanitario lo stato di necessità ex art. 54 c.p. deriva dall’adesione alla dottrina della liceità in sé dell’attività medica, anche se chirurgica45. Infatti, l’applicazione della scriminante dello stato di necessità è coerente solo con la concezione della prestazione terapeutica come fatto illecito che, per poter essere eseguito, necessità appunto di una causa di giustificazione46. La tesi della necessità medica appare invece più compatibile con la liceità in sé del trattamento medico, a meno di volere individuare nella necessità medica una scriminante non codificata, come abbiamo già ampiamente discusso, categoria, quest’ultima, particolarmente controversa47. Un altro argomento a sostegno dell’irrilevanza dell’art. 54 c.p. nell’ambito dell’attività sanitaria può essere rintracciato nella funzione dello stato di necessità pensato dal legislatore, la quale appare incompatibile con lo stato di necessità medica. Infatti, mentre la situazione di urgenza clinica pone in capo al medico l’obbligo, e non la mera facoltà, di intervenire48, la concomitante sussistenza dei presupposti dell’art. 54 c.p. rende non punibile, ma nient’affatto obbligatoria, la condotta del professionista. Del resto, la doverosità dell’intervento non può essere messa in discussione in alcuni casi perché lasciare al medico la sola facoltà di agire determinerebbe un paradosso nel consenso informato, il quale pur essendo funzionale alla tutela della libertà di autodeterminazione del paziente, finisce con il permettere la medico di scegliere se intervenire o meno nelle ipotesi in cui il malato non possa esprimere la sua volontà49. Inoltre, l’applicazione dell’istituto dello stato di necessità si rivela insoddisfacente anche alla luce della sua disciplina civilistica. Infatti, la previsione di un indennizzo a favore del soggetto che subisce l’altrui azione necessitata ex art. 2045 c.c. appare rivolta alla ricerca di un bilanciamento di interessi compromesso da condotte ben diverse dalle prestazioni sanitarie, che sono per definizione dirette al recupero o alla conservazione della salute50. Un ulteriore motivo di inapplicabilità dell’art. 54 c.p. alle prestazioni terapeutiche sembra rintracciabile nel rapporto tra stato di necessità e consenso del paziente. Infatti, se si applicasse l’istituto codicistico, sarebbe lecito per il medico intervenire disinteressandosi di conoscere la volontà del paziente anche nel caso in cui, nonostante l’attualità del pericolo, fosse possibile acquisirne il consenso informato51. Dunque l’applicazione dell’articolo in questione si risolverebbe in uno svuotamento di tutela della libertà di autodeterminazione ex art. 32, comma 2, Cost. e si verificherebbe anche in caso di rifiuto del trattamento da parte del paziente. Applicando, difatti, la scriminante ex art. 54 c.p. l’intervento diventa lecito nonostante sia stato validamente rifiutato dalla persona su cui viene eseguito52. Al contrario, la categoria dello stato di necessità medica appare pienamente compatibile con la libertà di autodeterminazione del paziente, perché obbliga il medico ad intervenire senza consenso solo quando, in base alle condizioni cliniche del malato, i tempi richiesti dalla procedura di acquisizione del consenso informato lo espongano al pericolo di un danno permanente53. Dunque, nel conflitto tra salute e libertà di scelta del paziente, la tutela della prima prevale solo quando sia impossibile realizzare entrambi i diritti del malato. Inoltre, non rientrando nell’art. 54 c.p., lo stato di necessità medica non esclude la rilevanza del valido rifiuto del paziente54. Queste sollecitazioni dottrinali trovano il loro eco anche nella giurisprudenza, secondo cui l’attività terapeutica, essendo autorizzata dall’ordinamento in quanto finalizzata alla protezione della salute ex art. 32 Cost., è scriminata da uno stato di necessità ontologicamente intrinseco, senza che sia necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate”55. Inoltre, lo stato di necessità esplica la propria efficacia scriminante anche nei casi in cui la sussistenza dei presupposti rilevanti ex art. 54 c.p. sia erroneamente56 supposta dal medico, purché tale errore non sia determinato da colpa. Tale ipotesi è stata prospettata nel caso di una paziente ricoverata per perdite ematiche e sottoposta dal primario ad intervento chirurgico di laparotomia per sospetta gravidanza extra-uterina. Sebbene l’intervento avesse accertato la presenza di una normale gravidanza intrauterina, il primario, senza acquisire il consenso della paziente, ha proceduto ad “annessiectomia sx”, essendo l’annesso “di volume più che doppio e di aspetto micropolicistico”. Dopo pochi giorni è stato “necessario svuotare la cavità uterina, con perdita del feto”57. Si è pervenuti così alla conclusione che il primario fosse stato “fuorviato, nell’errata diagnosi di gravidanza extra-uterina, da un precedente errore dell’ecografista, oltre che da una sintomatologia coerente con l’ipotesi formulata, essendovi perdite ematiche e dolenzia”58. Per la Suprema Corte tale conclusione è compatibile con il proprio orientamento secondo cui l’art. 2236 c.c. non trova applicazione per “i danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente (…) al quale egli è tenuto in ogni caso”59. Infatti la mancata informazione ed acquisizione del consenso del paziente è dipesa non da negligenza od imprudenza del primario, “ma, al più, da imperizia non rilevante ex art. 2236 c.c.”. Quindi il giudice ha fondato sull’art. 2236 c.c. la sua pronuncia che l’errore del primario sulla sussistenza dello stato di necessità fosse esente da colpa60. Proseguendo, oltre allo stato di necessità, la mancanza del consenso informato non espone il professionista a responsabilità nei casi di trattamenti sanitari obbligatori espressamente previsti dalla legge, purché nei limiti dell’indispensabile rispetto per la persona del paziente, come impone l’art. 32, comma 2, Cost., il quale costituisce un importante presupposto di legittimità, trovando conferma nella legge n. 180/1978 poi ripresa dalla 833/1978, che accomunano sotto la medesima disciplina sia i trattamenti che gli accertamenti sanitari61. L’intervento del medico si legittima nella libera e consapevole accettazione del diretto interessato, il quale è il solo deputato ad operare le scelte in ordine alla propria vita, sia per quanto riguarda la qualità che la durata62. Le eccezioni a questo principio, che può essere definito “volontaristico”, per essere compatibili con il nostro ordinamento giuridico devono essere espressamente previste dalla legge dello Stato. Di conseguenza, nessun trattamento sanitario può essere dichiarato obbligatorio da un decreto ministeriale, né da una legge regionale. Tale riserva di legge si spiega in considerazione dell’importanza che il legislatore riconosce alla libertà di autodeterminazione e della rilevanza pubblica generalizzata delle ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio63. Infatti, solo esigenze di sanità pubblica, che ricorrono nei casi di malattie mentali, vaccinazioni obbligatorie, AIDS, prevenzione, cura e riabilitazione dalla tossicodipendenza, ecc., permettono nell’interesse della collettività di prescindere dal consenso del diretto interessato64. Tuttavia, anche in queste situazioni il medico deve attenersi al limite invalicabile del rispetto della persona, ex art. 32, comma 2, Cost., adeguarsi il più possibile alla volontà del paziente, nonché astenersi dall’offendere i suoi diritti civili e politici costituzionalmente garantiti, ex art. 1, comma 2, legge n. 180/197865. In dottrina si distingue tra trattamenti sanitari meramente obbligatori e trattamenti sanitari coattivi, nel senso che limitano la libertà personale, garantita ex art. 13 Cost. Dunque, quando il trattamento sanitario diventa coattivo, perché eseguito contro la volontà del paziente, la liceità dell’intervento medico presuppone non già la sola riserva relativa di legge ex art. 32 Cost., rinforzata per l’ulteriore limite dato dall’ineludibile rispetto della persona, bensì la riserva assoluta di legge e la riserva giurisdizionale, volute dall’art. 13, comma 2, Cost. per tutte le restrizioni della libertà personale66. Questa tesi trova sostegno negli artt. 14 e 16 Cost. Il primo, infatti, stabilendo che la legge può limitare la libertà di circolazione “per motivi di sanità e di pubblica sicurezza”, dimostra che l’art. 32 Cost. è estraneo alla disciplina delle restrizioni obbligatorie alla libertà di circolazione dettate da motivi di sanità, alle quali, appunto, è dedicato l’art. 16 Cost.67 Dunque, poiché l’art. 32 Cost. non riguarda neanche tutte le limitazioni obbligatorie di libertà, “a fortiori nell’art. 32 Cost. non possono trovare fondamento o giustificazione restrizioni addirittura coercitive”68. L’art. 14 Cost. inoltre stabilisce che le ispezioni, le perquisizioni ed i sequestri domiciliari possono essere eseguiti anche in mancanza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, purché ricorrano “motivi di sanità e pubblica incolumità”69. Conseguentemente, poiché l’art. 13 Cost. non contiene un’analoga eccezione al divieto di limitazione di libertà personale, il raffronto tra le due disposizioni porta a ritenere che le restrizioni della libertà personale necessitino sia dell’espressa previsione di legge, sia del provvedimento giurisdizionale motivato, anche quando siano dettate da motivi di sanità. In senso contrario, si sostiene che tutti i trattamenti sanitari, obbligatori e coercitivi, debbano sottostare alle garanzie previste dall’art. 32 Cost., comma 2, e non a quelle sancite dall’art. 13 Cost., perché la prima rappresenta una norma speciale rispetto alla generale disciplina delle limitazioni alla libertà personale contenuta nell’art. 13 Cost.70 Dunque, ogniqualvolta la restrizione della libertà personale sia dettata da una finalità sanitaria, deve trovare applicazione l’art. 32, comma 2 Cost. Una conferma di questa conclusione sembra ricavabile dall’art. 13, comma 3, Cost., che, attribuendo solo all’autorità di pubblica sicurezza, e non anche all’autorità sanitaria, il potere di adottare provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale, induce a ritenere che tale articolo prenda in considerazione solo le restrizioni della libertà personale dettate da esigenze di ordine pubblico, e non da motivi sanitari71. Appare allora logico e coerente che nell’art 13 Cost.,diversamente dall’art. 14 Cost., manchi il riferimento ai motivi di sanità; quindi, tale mancanza non può essere utilizzata per dimostrare che le limitazioni alla libertà personale dovute a motivi sanitari rientrino nell’art. 13 Cost.72 La mancanza, nell’art. 32 Cost., della riserva di giurisdizione si spiega con la natura tecnico-scientifica e discrezionale della valutazione che è alla base della scelta di imporre un determinato trattamento sanitario, essendo necessario stabilire se quella patologia costituisca un pericolo per la salute del singolo e/o della collettività. Infatti la partecipazione dell’organo giurisdizionale avrebbe potuto contribuire ben poco in questo genere di decisioni, non avendo l’indefettibile competenza clinica, ed anzi avrebbe potuto portare a risolvere in maniera contrapposta casi analoghi73. Tuttavia, tale mancanza della riserva di giurisdizione non sembra comportare il rischio di una carenza di garanzia per la libertà di autodeterminazione74. Infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che l’imposizione ex lege di un trattamento sanitario, per essere compatibile con l’art. 32 Cost., deve essere diretta “non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, e purché esso non incida negativamente – salvo che in misura temporaneo e tollerabile – sullo stato di salute del soggetto75. Dunque, l’elemento comune a tutte le fattispecie legali di trattamento sanitario obbligatorio è la sussistenza di un interesse collettivo per la cui tutela è necessario eseguire un determinato trattamento sanitario sul singolo paziente o sulla comunità, a seconda dei casi76. Anche secondo la dottrina essendo la salute un diritto della persona ed interesse della collettività ex art. 32 Cost., l’obbligatorietà del trattamento sanitario presuppone che quest’ultimo realizzi non solo l’interesse dell’individuo, ma anche l’interesse collettivo finalizzato ad evitare un pericolo per i consociati77. Inoltre il carattere obbligatorio del trattamento non esclude completamente la tutela della libertà di autodeterminazione del paziente, dovendosi l’attività sanitaria comunque svolgere nel rispetto dell’art. 32 Cost. e delle singole leggi che nel tempo hanno sancito l’obbligatorietà di determinato trattamenti78. Infatti, se non sussistono i requisiti di liceità del trattamento sanitario obbligatorio eseguito nel caso concreto, la regola del consenso torna ad avere piena efficacia ed a fondare la responsabilità del medico, come stabilito dalla giurisprudenza in materia di trattamento delle malattie psichiatriche, di cui si tratterà in seguito. Tra le principale fattispecie di obbligatorietà sono rappresentate le vaccinazioni obbligatorie (l. 292/1963), il trattamento delle malattie sessualmente trasmissibili, tubercolosi e e lebbra (l. n. 897/1956), e le malattie mentali (artt. 34 e 35 l. 833/1978; l. 180/1978)79.
1 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
2 G. M. Vergallo, op. cit., 20 ss.
3 F. Mantovani, “Trapianti”, in Dig. Disc. Priv., Torino, 2003; A. Santosuosso, “Sperimentazioni di farmaci sull’uomo e diritto all’integrità della persona”, in Questi. Giust., 2002; In senso contrario G. Toscano, “Informazione, consenso e responsabilità sanitaria”, Milano, 2006. Per l’aggiornamento sull’entrata in vigore della Convenzione di Oviedo nei vari Paesi firmatari si può consultare il sito www.conventions.coe.int. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
4 Cass. civ. Sez. I, n. 21748 del 2007, in www.dirittoegiustizia.it. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
5 Tra i numerosi studi sull’argomento: A. Baldassarri, S. Baldassarri, “La responsabilità civile del professionista” Milano, 1993, 192; G. Cattaneo, “Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico”, op. cit., 949; R. De Matteis, “La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile”, Padova, 1995 260; E. Palermo Fabris, “Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale. Profili problematici del diritto all’autodeterminazione”, Padova, 2000, 176. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
6 Cass. civ., n. 10014 del 1994, dove è ben chiarito il concetto per cui l’informazione al paziente è condizione indispensabile per la “validità del consenso senza il quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32, comma 2, Cost., quanto dall’articolo 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica”. Nello stesso senso la Cass. civ. n. 364 del 1997: “A meno che siano obbligatori per legge che ricorrano gli estremi dello stato di necessità ed il paziente non possa per le sue condizioni prestare il proprio consenso, i trattamenti sanitari sono di norma volontari (artt. 13 e 32, comma 2, Cost.) e la validità del consenso è condizionata all’informazione”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
7 F. Mantovani, “Diritto penale”, Milano, 2019, op. cit.; G. Fiandaca-E. Musco, “Diritto penale. Parte generale”, Bologna, 2018, op. cit.; F. Antolisei, “Manuale di diritto penale. Parte generale”, Milano, 2018, op. cit.; T. Padovani, “Diritto penale”, Milano, 2018, op. cit. Si veda inoltre G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
8 G. M. Vergallo, op. cit., 29 ss.
9 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
10 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
11 Cass. civ., n. 7027 del 2001; Cass. civ., n. 10014 del 1994; Cass. civ. n. 364 del 1997. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
12 G. M. Vergallo, op. cit., 29 ss.
13 Rapporti etico-sociali, Commentario Costituzionale, a cura di G. Branca, Zanichelli-Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1976, ritiene improprio il riferimento all’articolo 13 Cost. perché comporta la necessità dell’atto motivato dell’autorità giudiziaria, sostenendo invece più corrette in tema di trattamento sanitario collegato con l’art. 32 Cost. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
14 A. Donati, “Consenso informato e responsabilità da prestazione medica”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
15 I diritti relativi attribuiscono il potere di pretendere l’adempimento di un obbligo di fare o di non fare qualcosa da parte del soggetto o dei soggetti con cui si è instaurato un rapporto giuridico; pertanto, la realizzazione dell’interesse del creditore necessita della cooperazione del debitore. Al contrario, nei diritti assoluti non rileva un rapporto intersoggettivo, bensì una relazione diretta tra un soggetto un bene, ad esempio la salute, che impone a tutti di astenersi da ogni turbativa (tutela erga omnes).Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
16 Nello stesso senso F. Galgagno, “Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria”, in Riv. Tri. Dir. proc. Civ., 1984, 711; In senso contrario, G. Cattaneo, “Il consenso del paziente al trattamento medico-chirurgico”, op, cit., 953, secondo il quale il consenso del paziente trova la propria fonte nel suo diritto a liberamente autodeterminarsi in ordine alla propria sfera personale, e non nel contratto tra medico e paziente. Per una critica alla tesi che riconduce la professione medica nell’area del contratto, si veda P. Rescigno, “Fondamenti e problemi della responsabilità medica”, in AA.VV., “La responsabilità medica”, Milano, 1982. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
17 F. Gazzoni, “Manuale di diritto privato”, Napoli, 2001, 277. Una delle difficoltà ad ammettere l’esistenza di un rapporto contrattuale tra il medico ed il paziente si può rintracciare nell’esigenza, coerente con il principio costituzionale di dignità della persona, che il consenso all’intervento terapeutico sia sempre revocabile, fino al momento della sua materiale effettuazione. Per una critica questo orientamento, D. Carusi, “Atti di disposizione del corpo”, in Enc. Giur., Treccani, Roma, 1999, secondo la quale la possibilità di recedere non preclude la sussistenza del contratto perché l’art. 2237 c.c., in materia di contratto d’opera intellettuale, riconosce al cliente la possibilità di recedere in ogni momento, “rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il compenso per l’opera svolta”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
18 G. M. Vergallo, op. cit., 29 ss.
19 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
20 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
21 A. Pace, “Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale”, Padova, 2002, 49, evidenzia come il contenuto dei diritti di libertà, e quindi anche della libertà di circolazione, di manifestazione del pensiero etc., si identifichi con le facoltà che questi diritti permettono di esercitare; pertanto, “proprio perché la libertà caratterizza contenutisticamente tali diritti, rientra, in linea di principio, nel rispettivo contenuto dei vari diritti di libertà, la possibilità di scegliere se, come e quando esercitarli”. Quindi la facoltà di rinunciare all’esercizio del diritto di libertà, lungi dal comportare una deminutio di tutela, ne è l’elemento costitutivo. In senso conforme, A. De Cupis, “I diritti della personalità”, Milano, 1959, 210. G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
22 Cass. civ., n. 21748 del 2007. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
23 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
24 La funzione della dignità viene considerata sotto tre profili: a) una funzione di difesa (Abwerhrfunktion), che si esplica nella forma di “non dominio” come “desiderio umano, profondo e universale, di rispetto e di dignità”; b) una funzione di protezione (Schutzpflichfunktion), che presuppone l’adozione da parte dello Stato di misure e strumenti atti a tutelare la dignità delle persone da violazioni provenienti da soggetti privati; c) una funzione di prestazione (Leistungfunktion), che impone allo Stato il dovere di apprestare le condizioni minime indispensabili per consentire il soddisfacimento dei bisogni essenziali della persona, favorendone la “fioritura” delle capacità. Le tre funzioni esposte sono tra loro strettamente connesse e, come nel domino, simul stabunt simul cadent, tuttavia appare indispensabile riconoscere come la garanzia della dignità, in quanto norma fondamentale costituitiva dell’identità ed autonomia personale, serva preliminarmente a tutelare sia l’auto-rappresentazione, sia la concezione dei valori del singolo, obbligando, perciò, l’ordinamento giuridico a tutelare in particolare l’auto-determinazione individuale. Dunque la dignità viene intesa prioritariamente, in senso giuridico, come libertà fondamentale di poter disporre di sé stessi e di poter formare il proprio destino in modo responsabile. “La responsabilità medica”, AA.VV., a cura di Nicola Todeschini, Milano, 2016, 235 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
25 G. M. Vergallo, op. cit., pag. 29 ss.
26 Secondo G. Iadecola, “Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed anatomia della disciplina”, in Riv. It. Med. Leg., 2007 , le disposizioni deontologiche hanno nature di norme giuridiche in quanto le relative sanzioni disciplinari sono “espressamente previste dalla normazione statale”. Infatti, analogamente a quanto avviene in deontologia forense, le norme del codice di deontologia medica integrano l’art. 38 D.P.R. n. 221/1950 che non individua i singoli comportamenti vietati per gli esercenti le professioni sanitarie, bensì si limita ad indicare il decoro professionale come clausola generale “il cui contenuto deve essere derivato dalle norme dell’etica professionale, che compete all’autonomia dell’ordine professionale enunciare”. Secondo il medesimo la giurisprudenza formatasi in materia di deontologia forense, “risulta del tutto mutuabile nell’ambito della deontologia medica, che presenta le medesime connotazioni strutturali”. In senso conforme, Cass. civ., n. 12122 del 2006, in www.cortedicassazione.it, precisa che le disposizioni del codice deontologico sono “norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo(...) che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
27 G. Iadecola, ne “Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed anatomia della disciplina”, ricorda che la giurisprudenza ha richiamato la disciplina deontologica per fondare il diritto del paziente di essere informato e di esprimere una consapevole adesione ai trattamenti diagnostico-terapeutici. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
28 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
29 G. M. Vergallo, op. cit., 29 ss.
30 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
31 F. Mantovani, nella “Libertà di cura e responsabilità del medico”, in Toscana Medica, 16 settembre 1998, sostiene che la libertà di non curarsi e di scegliere tra terapie collaudate ed alternative di incerta affidabilità scientifica spetta al paziente solo quando “egli sia, per così dire, medico e farmacista di sé stesso, provvedendo cioè all’autotrattamento manu propria”. In proposito, sembra di poter eccepire che quest’interpretazione rinneghi la natura di principio generale propria dell’art. 32, comma, Cost.: se è vietato obbligare qualcuno a sottoporsi ad un trattamento sanitario, tale divieto deve valere sia nei casi in cui il trattamento possa essere praticato dal malato su sé stesso, sia quando la prestazione debbe essere eseguita su di lui da un altro soggetto a ciò abilitato. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
32 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
33 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
34 M. Portigliatti Barbos, “Diritto di rifiutare le cure”, in Dig. Disc. Pen., volume IV, Torino, 1990, 27, trova applicazione di questa regola nel caso in cui il medico non condivida il giudizio sulla necessità del trattamento sanitario obbligatorio di un infermo di mente ex art. 33 della legge n. 833/78. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
35 E. Palermo Fabris, “Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale. Profili problematici del diritto all’autodeterminazione”, op. cit., 176, secondo la quale un’ulteriore forma di obiezione di coscienza può essere riscontrata nell’art. 25 della legge n. 833/1978, che riconosce al medico il diritto di recedere, purché motivatamente, dal rapporto curativo. L’art. 28 del c.d.m. individua come presupposto della rinuncia del medico l’aver avuto prova di sfiducia da parte del paziente o dei suoi legali rappresentanti, se minore o incapace, e precisa che comunque l’obbligo di cura e di assistenza, ferma restando la regola del consenso, persiste finché non sia sostituito da altro collega. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
36 R. Riz, “Medico (responsabilità penale del)”, in Enc. Giur., Treccani, Roma, 1999, 9. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss. Si fa, inoltre, rinvio al paragrafo dedicato all’incapacità naturale ed alla sezione interamente dedicata al consenso informato in psichiatria.
37 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
38 G. Iadecola, “Potestà di curare e consenso informato”, Padova, 1998, 64. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37.
39 Proprio su questi requisiti si concentrano le critiche di G. Vassalli, in “Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamento medico-chirurgico”, op. cit., 98, secondo il quale gran parte dei trattamenti medico-chirurgici tende alla prevenzione di pericoli futuri che, tuttavia, sono concreti e gravi quanto quelli attuali. In tutti questi casi di necessità terapeutica, il medico non potrebbe intervenire perché la mancanza del requisito di attualità impedisce di considerare lecito l’intervento ex art. 54 c.p. La medesima conclusione vale, poi, secondo tale dottrina, quando il danno temuto potrebbe non verificarsi; in tale ipotesi manca il presupposto della inevitabilità del danno. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
40 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
41 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
42 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
43 D. Rodriguez, “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, Riv. Med. Leg. 13, 1991, 1144, secondo il quale non è affatto contraddittorio stabilire i limiti dell’obbligatorietà dell’intervento del medico attraverso un criterio sanitario, in quanto, pur essendo la salute un valore di rilevanza giuridica e sommariamente tutelato, la determinazione del pregiudizio di tale bene è di pertinenza esclusivamente medica. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
44 D. Rodriguez, “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, op. cit., 1145, ad ulteriore conferma dell’impossibilità per l’art. 54 c.p. di fungere da guida dell’operato del medico in quanto inidoneo a racchiudere tutti i casi di emergenza terapeutica, propone anche il caso del traumatizzato cranico in coma con frattura scomposta di un arto che, se trattata tardivamente, magari per aspettare di aquisire il consenso al risveglio dal coma, guarirebbe con esiti invalidanti che sarebbero stati scongiurati da un intervento tempestivo. Inoltre, concorda con questa teoria anche un’autorevole dottrina penalistica che ritiene come l’art. 54 c.p. non possa essere applicato al trattamento medico, perché altrimenti si dovrebbe considerare scriminata anche la condotta del medico di espiantare un organo ad un malato per trapiantarlo in un altro paziente; F. Mantovani, “I trapianti e la sperimentazione nel diritto italiano e straniero”, 1974. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
45 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
46 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
47 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
48 Almeno nel caso di mancata acquisizione del consenso, ferma restando la controversia sul rapporto tra stato di necessità e rifiuto del trattamento. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
49 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
50 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
51 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
52 G. M. Vergallo, op. cit., 37 ss.
53 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
54 Nella prospettiva del superamento dell’art. 54 c.p. sembra porsi l’art. 8 della Convenzione d’Oviedo, che considera lecito l’intervento eseguito senza consenso non solo quando il trattamento sia necessario per salvare il paziente dal pericolo di un danno grave alla persona, ma anche quando a causa di una situazione di urgenza non è possibile ottenere il consenso. Ciò induce a ritenere, se applicata, che lo stato di necessità relativo all’attività sanitaria abbia confini più estesi rispetto all’istituto di matrice codicistica, E. Pasquinelli, “La responsabilità medica”, in P. Cendon, “Persona e danno”, Milano, 2004, 4890. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
55 Cass. pen., n. 528/2002, in Studium Juris, 2003. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
56 Il cosidetto “stato di necessità putativo”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
57 Cass. civ., n 12621/1999, in Foro It., 2000. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
58 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
59 Cass.civ., n. 6464 del 1994, in Rass. Dir. Civ.,1996. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
60 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
61 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
62 M. Bilancetti, “La responsabilità penale e civile del medico”, op. cit., 506, fa riferimento a quei trattamenti, anche dolorosi, che la scienza moderna permette di adottare per fronteggiare malattie devastanti ed in fasi di improbabile reversibilità. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
63 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
64 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
65 Secondo, F. Mantovani, “Delitti contro la persona”, Padova, 1995, 108, affinché il trattamento sanitario obbligatorio non violi il requisito del rispetto della persona, devono sussistere sei condizioni: 1) l’idoneità, scientificamente fondata, del trattamento ad apportare un beneficio sia la paziente che alla collettività; 2)l’insufficienza di altre terapie; 3) la limitazione della coazione al solo accertamento dello stato di salute, e non anche alla cura; 4) la giustificazione socio-sanitaria, e mai discriminatoria, del trattamento; 5) l’utilizzo di modalità che salvaguardano “la persona da sacrifici non necessari ai propri interessi, quali la riservatezza ed il pudore”; 6) “l’assicurazione del trattamento obbligatorio attraverso sanzioni indirette e non anche l’esecuzione coattiva in forma specifica”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
66 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
67 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
68 A. Pace, “Libertà personale (dir. Cost.”), in Enc. Dir., Milano, 1974, 296. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37.
69 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
70 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
71 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
72 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
73 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
74 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
75 Corte Cost., n. 307/1990, in Foro It. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
76 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
77 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
78 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss.
79 G. M. Vergallo, op. cit., 2007, 37 ss. Si veda inoltre il paragrafo 7 presente nel terzo capitolo dedicato alla tematica.