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Il coefficiente psicologico della “colpa” dello psichiatra

21 Giu 23

Di FRANCESCO BOLLORINO

    1. Il coefficiente psicologico della “colpa” dello psichiatra prima della riforma Gelli-Bianco

Attraverso le premesse illustrate in tema di responsabilità medica, che qui occorre richiamare, è possibile comprendere meglio come si atteggia il coefficiente psicologico del medico psichiatra. In campo medico, le linee guida ed i protocolli sono stati valorizzati; fonti che rappresentano uno standard di garanzia, collaudato e controllabile, ai fini del miglioramento della qualità dell’assistenza1 ed allo scopo di conformare il sapere medico alla migliore scienza ed esperienza codificata2, prestandosi ad essere utilizzati come bussole per l’individuazione delle condotte cautelari dovute, utili sia per l’operatore sanitario, che per il giudice per la selezione dello standard normativo3. I pregi delle linee guida sono stati ricondotti a quattro punti essenziali: 1) oggettivizzazione del sapere medico; 2) strumento di gestione e di reperimento di conoscenze scientifiche; 3) uniformazione delle prassi mediche con riduzione delle diseguaglianze nell’allocazione dei servizi; 4) favor del modello di alleanza terapeutica. Tuttavia la giurisprudenza sul punto ha assunto una posizione contraddittoria, manifestando una “cauta diffidenza”, poiché le linee guida contengono attendibili indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma il medico è sempre tenuto ad esercitare prerogative proprie di scelta vagliando le peculiari circostanze della vicenda concreta, discostandosi da regole cristallizzate in linee guida e protocolli4. La tendenza a definire moduli cautelari precisi, oggettivi e monolitici, quindi, può condurre ad un effetto paralizzante dell’accertamento sulla colpa, attestandolo su livelli di standard o eccessivamente alto o eccessivamente bassi5. Inoltre, non tutte le linee guida e protocolli hanno contenuto e funzione cautelare, assolvendo compiti meramente organizzativi e gestionali, svincolati dall’obiettivo terapeutico, soprattutto se intriso della relazione con il paziente: è possibile attribuire dignità cautelare solo alle linee guida e protocolli di livello internazionale, in quanto “espressione di una comunità scientifica specialistica che condivide a livello sovranazionale le proprie acquisizioni e ne valida in tal modo il fondamento e la portata applicativa”6. Non va dimenticato, poi, come le regole cautelari in ambito medico si collochino su un piano strumentale rispetto all’obiettivo di cura perseguito, idonee a tradursi in un “ampio ventaglio di soluzioni prospettabili e non in un unico percorso vincolante, per ciò stesso in grado di esentare da responsabilità il medico che vi si sia uniformato”7. Esse rappresentano “un’arma a doppio taglio: la loro violazione può integrare una colpa specifica; per converso, il loro rispetto non esclude la responsabilità penale quante volte le circostanze del caso suggerissero al medico di discostarsene, adottando standard di cautela più elevati8, lasciando aperta la strada per una colpa generica. Con l’intervento della Balduzzi, alle linee guida è stato attribuito un ruolo fondante e non vincolante nell’accertamento della responsabilità penale del medico, prevedendo che “l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve9. La norma, dunque, sembra essere finalizzata a circoscrivere l’area di responsabilità colposa “da imperizia” del medico che abbia rispettato linee guida e best practices, escludendola, salvo il caso in cui, invece, avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiarità della situazione clinica del caso; in tal caso, la responsabilità penale potrà essere affermata in caso solo di colpa grave, cioè quando la necessità di discostarsi, alla luce di una regola di perizia, fosse macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato10. Da sottolineare è la differenza tra linee guida e le discipline, considerando che le prime definiscono “direttive generali per il compimento di una determinata operazione o per la conduzione di una determinata tipologia di atto diagnostico o terapeutico11, mentre le seconde sono maggiormente inclini a prescrivere comportamenti con funzione preventiva, che però non si riducono ad una mera sequenza di condotte, “perché l’efficacia liberatoria della condotta conforme al protocollo non discende da un dato formale, qual è l’esistenza del protocollo, ma dal suo perdurante valore scientifico”12. Merito della 189 del 2012 è l’aver instaurato un percorso virtuoso, volto all’affinamento delle metodologie di elaborazione e adozione delle linee guida stesse, in vista della loro traduzione in indicazioni più precise circa la forza obbligatoria delle raccomandazioni che rappresentano il loro contenuto13. Il secondo aspetto saliente della modifica, cioè la figura della colpa lieve, ha creato difficoltà notevoli: la scelta di limitare la responsabilità alle ipotesi di colpa grave solo per la professione sanitaria, svincolata da qualsiasi riferimento ai profili di speciale difficoltà tecnica richiamati all’art. 2236 c.c., potrebbe apparire non del tutto giustificata dalla peculiarità dell’attività in questione, portanti con sé rischi gravi per la vita o incolumità delle persone14. Un secondo interrogativo riguarda l’esatto ambito applicativo della responsabilità per colpa grave nel caso in cui siano state erroneamente osservate linee guida e buone pratiche formalizzate, mentre il medico avrebbe dovuto discostarsene: se egli non si è affatto posto il problema di valutarne la rispondenza alle esigenze del caso concreto, limitandosi ad un loro acritico recepimento, il suo contegno sarà qualificabile in termini di negligenza, rispondendo anche per colpa lieve; se invece, il medico le ha prese in esame, ma le ha erroneamente valutate o sottovalutando la possibilità di discostarsene, e le ha seguite letteralmente, ci si trova dinanzi ad un caso di imperizia, censurabile in caso di colpa grave15. Dunque, sulla base di quanto appena discusso, il rimprovero all’agente si limita al solo caso di colpa grave, ossia in quell’ipotesi in cui fosse riconoscibile palesemente la necessità di discostarsi da quel tipo di diligenza normativizzata ovvero di andarvi oltre, adottando maggiori cautele e allora indispensabile è la preliminare verifica della effettiva natura cautelare della regola osservata16. La regola cautelare rilevante ai fini del rimprovero deve contenere una prescrizione che indichi i comportamenti ed i mezzi necessari ad evitare la lesione del bene giuridicamente tutelato, dato che essa è volta a stabilire condizioni operative di liceità dell’esercizio di attività pericolose17: essa ha la funzione di indicare il modo in cui va svolta l’attività pericolosa18. Ecco la ragione della necessità del carattere modale della regola cautelare: di conseguenza la tipicità colposa deve essere completata da un paradigma comportamentale che abbia ad oggetto la modalità d’azione19. Inoltre, non deve mancare l’indispensabile nesso di causalità con l’evento che si è verificato, dato che la fonte scritta invocata, sia essa una linea guida o una buona pratica accreditata, dovrà essere volta a prevenire eventi del tipo di quello in concreto verificatosi, dovendosi richiamare il nesso di rischio tra regola cautelare violata ed evento hic et nunc, non essendo la semplice inosservanza della regola cautelare di per sé sufficiente a fondare la responsabilità a titolo di colpa specifica, se l’evento in concreto verificatosi non rappresenti proprio la concretizzazione del rischio che la norma violata mirava a prevenire20. Tali fonti scritte, purtroppo, non godono di una elevata capacità di certezza in ordine alla autorevolezza della provenienza ed al contenuto delle prescrizioni21: non va dimenticato che, affinché l’inosservanza delle procedure previste nelle fonti scritte possa essere assunta a matrice degli eventi lesivi finali, è indispensabile accertare la reale efficacia impeditiva dell’evento, cioè che sia stata violata proprio una prescrizione contenuta nelle linee guida, provvista di caratteri strutturali e sostanziali tipici della regola cautelare22. Pertanto, esse possono definirsi misure organizzative più che cautelari, finalizzate ad informare l’attività medica a canoni di virtuosa esecuzione, nella misura e nel limite in cui ciò rappresenti l’effetto benefico della razionalizzazione delle risorse, ma che non costituiscono regole cautelari significative di per sé ai fini della accertamento colposo, proprio per l’assenza di un diretto ed immediato legame con uno specifico evento dannoso o pericoloso da prevenire ed evitare, rapportandosi piuttosto ad una pluralità omogenea, ma inevitabilmente generica, di rischi, al cui cospetto si prospettano indicazioni di massima, come tali meramente orientative23. Non si esclude la possibilità che in alcuni casi esse possano fondare la tipicità oggettiva del fatto colposo da addebitare al medico, dovendosi risalire alla violazione cautelare specifica che abbia causato l’evento hic et nunc24. Il modello appena ricostruito sembra voler presentarsi come un mezzo, a disposizione dei giudici, per vincere la difficoltà nell’accertamento della responsabilità colposa, quasi una scorciatoia processuale che favorisce l’automaticità dell’accertamento, obliterando la fase della verifica della prevedibilità ed evitabilità dell’evento25. Il giudice, dunque, deve accertare la precipua caratura cautelare della prescrizione connessa all’evento hic et nunc e vagliare la colpa alla luce del “concorso di precetti cautelari”: dall’art. 3 della legge n. 189 del 2012 si evincono diverse ipotesi: a) concorso apparente, quando “la portata preventiva della singola regola codificata, che il medico applica, è incongruente rispetto allo specifico e concreto rischio, inerente quel singolo segmento del processo diagnostico/terapeutico, per la cui gestione è dunque adatta soltanto una diversa lex artis non esplicitata in linee guida”; b) un concorso cumulativo, “tra le linee guida (o buone pratiche in genere) e le ordinarie regole di diligenza e prudenza, che naturalmente integrano quelle di perizia, agendo su un altro piano”, ovvero “quando i dettami delle guidelines sono in varia guisa bisognosi di combinarsi con ulteriori leges artis non codificate; c) un concorso alternativo, “nel caso in cui la raccomandazione contenuta nella linea guida o nel protocollo è effettivamente volta a contenere il tipo di rischio in concreto sussistente, ma esattamente allo stesso scopo sono predisposte differenti regole cautelari”, ulteriormente distinguendosi tra alternativa apparente ed effettiva, a seconda che il precetto cautelare della linea guida, pur astrattamente concepito per fronteggiare una determinata situazione clinica, risulti o meno poi effettivamente adeguato allo scopo26. Solo il primo caso, di concorso apparente di regole cautelari corrisponde, per ratio all’art. 3, comma 1, poiché in simili evenienze “il medico applica alla lettera una raccomandazione operativa prescritta da una linea guida, che esattamente persegue lo scopo di contenere quel tipo di rischio, il quale, nondimeno, si sviluppa in un evento avverso; miglior risultato egli avrebbe ottenuto, a parere del giudice, se avesse applicato altra regola cautelare, diversa da quella formalizzata, e concepita per quello stesso rischio”27. Cosicché, può ritenersi che “il sanitario correttamente si attiene alle linee guida, rispettandone i contenuti espliciti ed impliciti, il tenore letterale e la funzione sostanziale, eppure incorre lo stesso in colpa, per difettosa inosservanza di una cautela che si suppone più adeguata”28. Colpa che può ritenersi grave quando “ponendosi in varia misura dal punto di vista del soggetto agente si possa affermare che la regola alternativa disattesa era particolarmente riconoscibile e convincente, a dispetto delle contrarie indicazioni di linee guida accreditate presso la comunità scientifica”29. Una volta che questo duplice vaglio sia stato superato, linee guida e buone pratiche assumono i tratti di regole di condotta condivise, che traducono la perizia minima occorrente per governare una determinata patologia in astratto, senza esaurire del tutto il margine di diligenza necessario30 Per riassumere brevemente quanto esposto, la verifica dell’imputazione colposa si snoda in due fasi: la concretizzazione del rischio, cioè che le linee guida e le buone pratiche violate fossero finalizzate a prevenire il verificarsi di quell’evento che in concreto si è poi verificato, e del comportamento alternativo lecito, ovvero l’effettiva capacità impeditiva dell’evento del comportamento doveroso omesso, conforme alle fonti scritte31. Le linee guida e buone pratiche rappresentano uno standard minimo, il quale formalizza opzione di prevedibilità in astratto, non esaustivo, normando le ipotesi di colpa specifica che non esaurisce il quantum di diligenza, nel caso di specie perizia, occorrendo richiamarsi ai criteri di colpa generica32. Può dirsi che il medico è chiamato ad orientare le proprie scelte di cura, ponderando le circostanze peculiari di ogni singolo e specifico caso concreto, considerando anche le aspettative di cura del malato, secondo una visione soggettiva ed individualizzante del concetto di salute, che si riflette sul contenuto della regola cautelare, con l’esistenza di fonti scritte, astratte e generali, da sottoporre ad un triplice vaglio circa la loro attendibilità, natura e conformità, intesa come praticabilità ed adattabilità al caso concreto33. Solo, infine, un corretto bilanciamento tra libertà, responsabilità e vaglio discrezionale possono fondare una deliberazione medica appropriata34. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di esprimersi nella sentenza “Cantore”, depositata il 9 marzo del 2013, n. 16237, avente ad oggetto un caso classico di malpractice, in relazione all’attività medico-chirurgica, e statuisce che le linee guida “costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche”, attraverso il quale “si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta”35. Nonostante ciò non “danno luogo a norme propriamente cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di colpa specifica”, in ragione soprattutto “della loro natura di strumenti di indirzzo ed orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica”36. La Corte di Cassazione ritiene che esse “vadano in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico”37. Quanto alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave, l’entità della violazione viene rapportata “ agli standard di perizia richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base”: “quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione”38. La peculiarità del caso concreto richiede che “non si potrà mancare di valutare la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data”, né “si potrà trascurare la situazione nella quale il terapeuta si trovi ad operare: l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati (…) rendono difficile anche ciò che astrattamente non è fuori dagli standard”39. Un ultimo punto merita di essere toccato nell’indagine sulla colpa: vi sono casi in cui il sanitario, nel caso di specie lo psichiatra, si trova ad operare costretto e qui la Cassazione richiama l’art. 2236 c.c., regole civilistica che statuisce che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”, in relazione ad un caso che ha visto coinvolta la figura dello psichiatra per responsabilità colposa dovuta al suicidio di un paziente40. L’articolo citato in questa circostanza venne innalzato a “criterio di razionalità del giudizio”, invocabile come “regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”41: la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiestogli; ed al contesto in cui esso si è svolto42. Il richiamo dell’art. 2236 c.c. sembrò “rivitalizzare” il profilo soggettivo della colpa, “individualizzando il rimprovero di colpa e non fissando ai consociati pretese di diligenza irragionevolmente alte in rapporto alla loro effettiva possibilità di conformarsi ai precetti”43, considerando tutte quelle situazioni in cui l’osservanza della regola cautelare risulti ragionevolmente non esigibile dal soggetto nella situazione concreta in cui opera44. Dunque, l’articolo 2236 c.c. limita verso l’alto la responsabilità solo in quelle ipotesi di peculiare difficoltà squisitamente tecnica dell’intervento oggettivamente considerato45, cioè è parametro di una “inesigibilità contingente”, per le difficoltà tecniche e scientifiche della prestazione, per l’urgenza indifferibile e la concitazione in cui il medico è chiamato ad intervenire, nonché del suo stato personale, di stanchezza ad esempio, cosi che questo contesto rende inesigibile all’agente concreto ciò che può essere preteso dall’homo eiusdem condicionis et professionis fuori da esso; il parametro discusso assurge, allora, a parametro di misurazione soggettiva della colpa, per inesigibilità e anche per mancato raggiungimento, in alcuni casi, della soglia colposa rilevante penalmente46. Tutto quanto appena discusso, nel campo d’azione dello psichiatra, causa maggior perplessità e problematiche per l’inadeguatezza di queste fonti scritte, astratte e generali, l’incapacità di rendere prevedibile l’imprevedibile e di uniformare la variabilità delle manifestazioni cliniche e, soprattutto, delle conseguenze dei disturbi psichici47, tenute a mente le specificità della scienza psichiatrica: non tutti i fattori dell’intervento psichiatrico rispetto alla “mente” sono “modellizzabili o traducibili in algoritmi, o conosciuti o conoscibili”, così come quei fattori complessi, relazionali, sociali, “che interagiscono con altri fattori biologici (…) in modalità non sempre prevedibili e riproducibili”48. Per quanto concerne la rimproverabilità per la presenza del coefficiente psicologico della colpa ed il necessario accertamento della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, le condotte imprudenti e/o inconsulte proprie dei pazienti psichiatrici costituiscono il fattore fisiologico della loro imprevedibilità: vero è che la malattia psichiatrica rappresenta il più importante fattore del “rischio suicidio” ed altrettanto vero è che lo psichiatra si trova in una posizione “privilegiata per un’attenta valutazione del rischio e per la possibilità di predisporre misure di prevenzione”, considerando che “il paziente che lo psichiatra tratta è un paziente selezionato, nel senso che presenta un disturbo mentale diagnosticabile ed inoltre l’ambiente in cui lo psichiatra opera è il più adatto per l’assunzione di tutte le misure idonee per circoscrivere il rischio suicidario49. Tuttavia nel caso specifico “la natura composita e multidisciplinare del substrato ideologico-culturale della psichiatria, l’assenza di precisi criteri nosografici di valutazione, il difetto di canoni fissi e di scelte codificate. Finiscono per creare un evidente deficit di determinatezza scientifica”50. L’apporto delle neuroscienze possono assurgere ad ausilio del giudice nell’accertamento della libertà del volere e quindi dell’infermità mentale, in sostanza dell’imputabilità, del soggetto autore del reato, all’interno del processo penale, per ricostruire l’iter decisionale che ha portato l’imputato verso l’atto criminale, mentre ha meno valore nella fase terapeutica, in chiave predittiva, rimessa alla competenza dello psichiatra: la valutazione del rischio è un’operazione dal risultato matematicamente definito solo a posteriori, ovvero in esecuzione della c.d. “autopsia psicologica”51. La prognosi psichiatrica resta, ontologicamente, caratterizzata da un alea di imprevedibilità, che deve essere necessariamente tollerato dalla società, e dunque difficile diventa l’enucleazione di regole cautelari predefinite e l’individuazione di tassative leges artis in base alle quali uno specifico atto terapeutico rappresenti una loro violazione, quindi degli obblighi, sub specie dell’obbligo di garanzia, gravanti sul medico agente52. Allora l’attenzione deve spostarsi sulla evitabilità, richiamando i mezzi terapeutici, a base farmacologica, a disposizione dello psichiatra, saggiandone l’efficacia relativa alla prevedibilità in concreto, la capacità impeditiva, l’interrelazione tra questi ed i poteri di agire53. Tra i diversi rischi prospettabili, vi è quello più grave, auto-lesivo, del suicidio. Paradossalmente, esso, prevedibile in termini astratti e generali, non può essere formalizzato in cautele, se non in regole cautelari improprie – come già affermato – idonee a minimizzarlo ed non del tutto annullarlo: la formalizzazione della perizia in questo caso sul piano della colpa specifica non è praticabile54. In conclusione, quell’alleanza terapeutica su cui dovrebbe fondarsi la medicina e soprattutto il rapporto tra il “libero” (e buon) psichiatra ed il paziente sembra essere mortificato, rinunciando all’individualizzazione del percorso di guarigione, per un trattamento comune, condiviso, generalizzato, standardizzato, non costruito sul singolo caso e rispondente alle esigenze non di un “malato”, ma di una persona sofferente e del suo contesto biologico, economico, sociale, relazionale, di personalità55. Alla luce di quanto affermato e dei problemi esistenti, si è tentato di ridimensionare la responsabilità medica, compresa quella dello psichiatra, ridefinendo la posizione di garanzia, in relazione all’evoluzione del ruolo della volontà del paziente che ha inciso sui confini della stessa, rispetto alle possibilità di intervento, circoscrivendola agli obblighi impeditivi56. Inoltre, come già detto, la regola cautelare anche delimita la posizione di garanzia, nel senso che solo ciò che è evitabile, oltre che prevedibile, può essere richiesto come obbligo di attivarsi dello psichiatra57: così il potere di agire viene a dipendere “dalla normativa extrapenale, che offre modelli preformati di evitabilità al di fuori dei quali non ha senso giuridico porsi il problema della capacità di intervento dell’agente hic et nunc58.

1 M. Caputo, “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”?, op. cit., 882. Si veda C. Cupelli, 135 ss.

2 O. Di Giovine, “La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi”, in Riv. It. Med. Leg., 2013, 78 ss. Si veda C. Cupelli, 135 ss.

3 C. Cupelli, 135 ss.

4 L. Risicato, “Le linee guida e i nuovi confini di responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto”, in Giust. Pen., 2013, II, c. 141 ss., con nota di P.Piras- A. Carboni, “La Cassazione interviene funditus sulle linee guida mediche”, in Riv. It. Med. Leg., 2013, p. 268 ss. Si veda C. Cupelli, 135 ss.

5 C. Valbonesi, “Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 276 ss.. Si veda C. Cupelli, 135 ss.

6 C. Valbonesi, op. cit., 276 ss., la quale propone un criterio di selezione volto ad attribuire finalità cautelare solo laddove linee guida e protocolli “integrino regole di condotta professionale a contenuto modale, direttamente incidenti sulla gestione e prevenzione del rischio, maturate, affermate e validate nell’ambito della comunità scientifica internazionale, formulate per un esclusivo

o prevalente scopo di cura del paziente ed attualizzate sulla base dei continui progressi della scienza medica”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

7 G. A. De Francesco, “L’imputazione della responsabilità penale in campo medico-chirurgico”, in Riv. Med. Leg., 2012, 970 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

8 O. Di Giovine, “La responsabilità penale del medico: dalle regole ai casi”, op. cit. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135.

9 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

10 P Piras, “In culpa sine culpa”, in www.penalecontemporaneo.it, 6; L. Risicato, “Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto”, op. cit.; F. Viganò, “Il medico che si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponderà per colpa lieve”, in www.penalecontemporaneo.it. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

11 D. Castronuovo-L. Rampioni, “Dolo e colpa nel trattamento medico sanitario”, Milano, 2011.Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

12 F. Giunta, “Il reato colposo nel sistema delle fonti”, in Giust. Pen., 2012, II, 589, il quale sottolinea i vantaggi della “procedimentalizzazione dell’agire diligente”, realizzata soprattutto attraverso protocolli, con riferimento, in primo luogo, “all’elevazione del livello medio delle prestazioni professionali, attraverso il loro allineamento all’evoluzione della scienza del settore”, visto che, grazie ai protocolli “circuiti professionali periferici entrano in diretto contatto con i più aggiornati progressi scientifici”. Inoltre, sotto il profilo dell’accertamento della colpa, il protocollo appare “il condensato di un sapere non unico e solitario, quale è, invece, quello dell’inverosimile scienziato, artefice e depositario della migliore scienza ed esperienza, pronta a transitare a posteriori nella testa, altrettanto solitaria, del giudice”; nel protocollo, cioè, “si condensa il sapere di molteplici soggetti che hanno partecipato alla definizione delle regole cautelari e alla perimetrazione del rischio consentito”. In sostanza: si cerca di “recuperare dal basso quel che la legge, il frutto di un’altra procedura legittimante, non riesce a dare con la sua volontà impositiva generale e astratta” e “la procedimentalizzazione è in un certo senso una nuova fonte pluralistica nella produzione della regola cautelare; è l’alternativa intermedia agli estremi della volontà della legge e del solipsismo interpretativo del consulente tecnico (o del perito) e del giudice”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

13 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

14 In passato, la Corte Costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità sollevata, con ordinanza 21 marzo 2013, dal Tribunale di Milano, evidenziando: a) la violazione dell’art. 3 Cost. per l’indiscriminata applicazione a tutti gli opratori sanitari rispetto a qualsiasi reato colposo e l’ingiustificata disparità di trattamento per quei soggetti, diversi dagli operatori sanitari, che abbiano cooperato con il sanitario con colpa lieve; b) il contrasto con l’art. 25 Cost., per la carenza di tassatività che accompagna tanto la definizione di colpa lieve, quanto la mancata specificazione di quali siano “le fonti delle linee guida, quali siano le autorità titolate a produrle, quali siano le procedure di raccolta dei dati statistici e scientifici, di valutazione delle esperienze professionali, quali siano i metodi di verifica scientifica, e infine quale sia la pubblicità delle stesse per diffonderle e per renderle conoscibili agli stessi sanitari, così come per le prassi non viene specificato il metodo di raccolta, come possa individuarsi la “comunità scientifica” e se l’accreditamento debba provenire dalla “comunità scientifica” locale, regionale, nazionale, europea o internazionale”; c) il vulnus agli articoli 3 e 33 Cost., poiché “con un intervento così formulato, produce un risultato che rischia di burocratizzare le scelte del medico e quindi di avvilire il progresso scientifico”, poiché la norma “deresponsabilizza penalmente soltanto chi si attiene alle linee guida e alle buone prassi con l’effetto di inibire e atrofizzare la libertà del pensiero scientifico, la libertà di ricerca e di sperimentazione medica, la libertà terapeutica che costituisce una scelta del medico e del paziente, perché confina ogni scelta diagnostica e/o terapeutica all’interno di ciò che è stato già consacrato e cristallizzato dalle linee guida o dalle buone prassi”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

15 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

16 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

17 F. Giunta, “Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa”, Padova, 1993, 233. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

18 F. Giunta, “La legalità della colpa”, in Criminalia, 2008, 152 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

19 D. Micheletti, “La normatività della colpa medica nella giurisprudenza della Cassazione”, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2011, 153 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

20 D. Castronuovo, “La colpa penale”, Milano, 2009, 135 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

21 A titolo esemplificativo possono essere ricordate le più autorevoli linee guida del settore, cioè le “Nice guidelines”, per la schizofrenia del marzo 2009, elaborate a livello internazionale dal National Institute for Health and Clinical Excellence, nei cui incipit si chiarisce che “dedicate ai principali trattamenti e servizi per le persone affette da schizofrenia”, esse “non sono da ritenersi esaustive né definitive e sono necessariamente limitate viste le dimensioni di tale lavoro”, National Collaborating Centre for Mental Health, “Schizophrenia: core interventions in the treatment and management of schizophrenia in adults in primary and secondary care”, National Institute for Health and Clinical Excellence, Londra, 2009, in www.nice.org.uk. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

22 G. Civello, “Responsabilità medica e rispetto delle “linee-guida”, in Arch. Pen., 2013, n. 1, 23. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

23 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

24 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

25 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

26 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

27 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

28 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

29 A. Vallini, “L’art. 3 del “decreto Balduzzi” tra retaggi dottrinali, esigenze concrete, approsismazioni testuali, dubbi di constituzionalità”, in Riv. It. Med. Leg., 2013, 735 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

30 Possono prospettarsi diversi scenari: a) il medico non si attiene alle linee guida e buone pratiche, rimanendo sostanzialmente inerte, configurando la possibilità di una responsabilità per colpa specifica, per violazione delle prescrizioni scritte, sempre che l’evento sia del tipo di quelli che le norme miravano ad evitare; b) il medico non si attiene a linee guida e buone pratiche, ma fa altro; interviene cioè in maniera difforme rispetto alle fonti scritte, motivando la deroga con le necessità e le peculiarità del caso concreto, ma la scelta si rivela erronea; c) il medico si attiene alle linee guida e buone pratiche, pur dovendo fare altro, in presenza di evidenti segni che lo avrebbero dovuto spingere a discostarsene; Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

31 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

32 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

33 P. Veneziani, “I delitti contro la vita e l’incolumità individuale”, op. cit., rileva che “il riferimento ad un agente modello pare in ogni caso destinato a mantenere una sua validità, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica, dove – per quanto analitiche – le linee guida, e più in generale le previsioni cautelari formulate in astratto, non possono essere in realtà esaustive, risultando irrinunciabile una specifica attenzione alle possibili peculiarità legate al caso singolo, ed alle caratteristiche di ciascun paziente”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

34 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

35 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

36 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

37 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

38 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

39 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

40 Sentenza n. 4391/2012, riflessioni di R. Blaiotta, “La responsabilità medica: nuove prospettive per la colpa”, 313 ss.. Il caso riguardava un paziente affetto da schizofrenia di tipo paranoide e degente di una comunità terapeutica protetta, che veniva rinvenuto al suolo con gravi lesioni personali a seguito della caduta da una finestra della struttura, e ricoverato in ospedale, decedeva a causa di affezione polmonare. Il direttore sanitario della casa di cura veniva condannato per omicidio colposo, per aver omesso, quale garante, di adottare misure atte ad impedire il suicidio del paziente ed in particolare: a) di predisporre una adeguata vigilanza da parte del personale; b) di prescrivere una terapia farmacologica appropriata ed accorgimenti atti ad impedire l’accesso dei pazienti alle finestre dei locali in cui erano ospitati; c) di trasferire il paziente in un presidio sanitario in grado di apprestare una adeguata terapia, ravvisandosi addirittura la possibilità di richiedere un trattamento sanitario obbligatorio. I giudici di merito, trovando il sostanziale avallo in sede di legittimità, attribuivano la precipitazione ad un gesto autolesivo, ritenendo peraltro il caso “per nulla difficile e tale quindi da poter essere fronteggiato con interventi conformi agli standard, escludendo pertanto che ricorressero ragioni per parametrare l’imputazione soggettiva al canone della colpa grave”; Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

41 L. Risicato, “L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco”, Torino, 2013. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

42 A. Roiati, “Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale”, op. cit.; A. Di Landro, “La colpa negli Stati Uniti e in Italia”, Torino, 2009, 161; G. Fiandaca, “Appunti su causalità e colpa nella responsabilità medica”, Firenze, 2010, 185 ss; F. Centoze, “La normalità dei disastri tecnologici”, Milano, 2004, 382; F. Introna, “Responsabilità professinale medica e gestione del rischio”, in Riv. It. Med. Leg., 2007, 643 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

43 F. Viganò, “Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice”, op. cit., 967 ss; M. Caputo, “Agente modello” e responsabilità per colpa in campo sanitario”, Milano, 2012, 116, il quale tiene conto della soggettivizzazione del rimprovero e ridisegna la figura dell’agente modello, sulla base di un complessivo sistema articolato in tre gradi di giudizio: “1) verifica della professio e delle sue note distintive; 2) condicio, ovvero contesto organizzativo in cui l’agente si trovi ad operare; 3) focus sull’attitudine del soggetto reale, in ragione del suo potere di agire, a uniformare la propria condotta a quella dell’homo eiusdem”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

44 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

45 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

46 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

47 S. Jourdan, “La responsabilità dello psichiatra per le azioni violente compiute dal paziente: prevedibilità dell’evento e possibilità di evitarlo”, Torino, 2006, evidenzia che “laddove il trattamento sanitario deve o può discostarsi dalle linee guida per varie ragioni, fra cui la volontà del paziente, la particolarità della situazione o anche la formazione culturale e pratica del medico stesso, in condizioni cliniche nelle quali diversi approcci terapeutici sono consentiti perché non ve n’è uno nettamente prevalente sugli altri nelle aspettative di successo secondo gli studi epidemiologici al momento disponibili. La psichiatria è proprio uno di questi campi e, pur essendo in atto un notevole sforzo in sede clinica e scientifica verso una standardizzazione dei criteri diagnostici e un avvicinamento delle diverse scuole nelle impostazione terapeutiche di base, si è ancora molto lontani da questo obiettivo e vi sono tuttora correnti di pensiero assai diverse e contrastanti su come trattare casi singoli e, in particolare, sulle cautele e sulle eventuali misure di contenzione da adottare di fronte a un rischio di suicidio o di etero-aggressività”. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

48 S. Borghetti – A. Erlicher, “Linee guida, vincolo normativo o supporto? Ovvero, l’operatore in bilico tra filo d’Arianna e richiamo del pifferaio magico”, Milano, 2011, 149 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

49 P. Girolami – S. Jourdan, “Lo psichiatra e il suicidio del paziente. Viaggio attraverso le categorie giuridiche delle “obligations dé securité” e degli “obblighi di protezione”, in Riv. Med. Leg. It., 2001, 60 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

50 A. Gargani, “La congenita indeterminatezza degli obblighi di protezione”, op. cit. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135.

51 P. Girolami – S. Jourdan, op. cit., intendono con questa locuzione la ricostruzione retrospettiva della vita di una persona scomparsa, necessaria per meglio comprendere la sua morte e le cause che l’hanno provocata. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

52 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

53 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

54 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

55 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

56 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

57 C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

58 F. Giunta, “La responsabilità per omissione nel progetto preliminare di riforma del codice penale”, in Dir. Proc. Pen., 2001, p. 405. Si veda C. Cupelli, op. cit., 135 ss.

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