​Responsabilità dello Psichiatra - Conclusioni

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21 giugno, 2023 - 16:14
 

 

  1. Considerazioni conclusive

 

Al termine della trattazione di carattere tecnico-giuridico, mi sento in dovere nei confronti del lettore, tirando le fila di quanto illustrato, di spogliare il dialogo del formalismo e tecnicismo necessariamente dati dalla natura e dalla portata della materia sostanziale, al fine di rivelare la chiave di lettura e, dunque, l’essenza di quanto ho esposto fino ad ora. L’obiettivo che ho voluto perseguire, che forse non è di immediata intuizione, ma spero che sia di agevole comprensione, traspare dal titolo da me dato alla trattazione, il quale io considero “lente di ingrandimento” di ogni esposizione divulgativa, anche di carattere tecnico-scientifico: “Il principio di non contraddizione nella forma giuridica delle scriminanti nell’attività medico-psichiatrica: la responsabilità penale dello psichiatra”. Provando a scomporlo si possono individuare gli elementi costitutivi della trattazione, analizzati nei tre capitoli, ma non confinati a questi, considerando il loro richiamarsi e contraddirsi in alcuni punti. Premessa di ciò ed anche conclusione è la “trasversalità” del diritto complessivamente e generalmente inteso, quale ordinamento, id estordo ordinans ed ordinatus”, che permea la vita umana perché da essa trae origine ed in essa si estingue: si potrebbe paragonare questo al meraviglioso funzionamento dell’organismo umano, fatto dei suoi apparati e dei suoi sistemi, delle sue interconnessioni biologiche e logiche, di regolarità, di organicità, coerenza e sistematicità, in cui ogni elemento fisiologicamente ma anche patologicamente trova la sua necessaria caratterizzazione strutturale e funzionale. La scientia iuris presenta queste caratteristiche non solo al suo interno, date le diverse branche dell’ordinamento, che formano le tessere di un unico mosaico, ma soprattutto adottando una prospettiva più ampia, che pone al centro “noi”, l’essere umano, e tutti i settori del suo vivere. Perciò, è mia premura sottolineare, per tutti, – siano essi lettori “navigati” o meno in questa sedes materiae – che con l’austero ed astratto “diritto” si può giocare e divertirsi, proprio perché, al contrario, è dinamico e vivente, anticipatore di tendenze e spesso un passo avanti a noi uomini ed alle nostre faccende; un libro sempre aperto, che si lascia sfogliare non da chiunque, ma nemmeno dall’esperto, l’esperienza del quale negli anni lo ha reso rigido, chiuso, immobile nelle sue conoscenze che sono divenute sua veste indefettibile, non incline a porre continuamente in discussione le sue categorie concettuali: il suo destinatario preferito è il “giovane”, anche un pò presuntuoso per la sua età ed inesperienza, dominato costantemente dalla curiosità di indagare la ratio o il fondamento logico della materia giuridica nelle sue categorie, pronto a contraddirla e a contraddirsi, accettando cioè le sfide che questa pone e, naturalmente ed umilmente, anche le sconfitte. In questo gioco curioso si vince e si perde; sono maggiori le sconfitte, le volte in cui si viene chiamati, spesso, a porre la propria persona in discussione, ma questo è un percorso logico, obbligato, irreversibile e costante se si vuole vivere con ironica maturità. Lo stesso legislatore, con il suo sguardo sempre più sovranazionale, che appare tanto onniscente ed onnipotente, palesemente ha dovuto abdicare alla sua capacità di prevenire e prevedere, di controllare e rimediare o riconoscere il fallimento nei suoi tentativi. Il lettore, dunque, è stato introdotto nella trattazione della tematica attraverso la presentazione di una regola, rectius principio, generale e generalissima, che noti filosofi ed amanti del sapere, e non solo, hanno configurato come uno dei “principi regolatori” del vivere umano, ovvero “il principio di non contraddizione”, con le sue applicazioni logiche e giuridiche. Inevitabilmente, il diritto, che non può allontanarsi dal suo “dominus”, sebbene sia sempre un passo avanti a lui come è stato detto, ha recepito questa categoria, traducendola o convertendola, tra i mattoni fondanti di una delle sue branche, quella penalistica, la quale, maggiormente rispetto ad altre, è antropocentrica ( dal greco “άνθρωπος” e “κέντρον”, che rispettivamente significano “uomo” e “centro”), ovvero pone al suo centro e sviscera l’animo umano, noto come “ψυχή” nel greco antico, con le sue fragilità e debolezze, richiedendo perciò una profonda e non comune sensibilità. Infatti, questo principio è base giuridica di alcune delle “cause di giustificazione”, che elidono il carattere di antigiuridicità del fatto tipico, tra cui quella analizzata nel secondo capitolo del “consenso” – la cui natura è anfibia come è stato affermato – della persona “potenzialmente” offesa dalla condotta negligente, imprudente o imperita del professionista, ovvero il paziente, la parte debole del rapporto, poiché colui che legifera non può, dall’alto, punire determinati comportamenti in settori dell’ordinamento ed imporli in altri, peccando così di incoerenza e facendo venire meno la sua aurea di “Dio” perfetto e razionale, “contraddicendosi”. Tuttavia, il consenso sottostante il rapporto peculiare tra il medico, nel caso di specie lo psichiatra, ed il “suo” paziente, non rileva solo come scriminante ex post, successivamente l’instaurarsi della relazione, per giustificare l’errore in cui potrebbe cadere lo specialista, ma, come detto, è presupposto di essa – da qui l’aggettivo fondamentale di “informato”, attributo da cui scaturiscono altri corollari – e, soprattutto nel dialogo costante ed a priori non determinabile in termini temporali tra medico e paziente psichiatrico, fonte di alimentazione continua di una più intima e delicata conoscenza che nel tempo si sviluppa, necessariamente, consolidandosi attraverso la reciproca fiducia e collaborazione, in misura maggiore nel rapporto descritto che in quelli intercorrenti tra altre figure di sanitari e le persone che questi hanno “in cura”. Perciò, nel terzo ed ultimo capitolo sono state rappresentate, criticamente e distintamente, le evoluzioni della concezione del paziente psichiatrico, da “matto” da emarginare a “uomo” verso cui la società deve tendere, sforzandosi di andare incontro alle sue esigenze “diverse” da quelle della massa, e consequenzialmente del medico psichiatra – con la sua “scomoda” posizione di “garante”, dai contorni non definiti e mai definibili perché, forse, essa stessa è un abito troppo stretto, non “idoneo” affinché chi lo indossa possa in esso muoversi liberamente per “gestire” il peculiare rapporto di cui è parte – il quale, si precisa, non potrà mai comprendere (“Verstehen”, che significa “comprendere” in tedesco) l’uomo che ha dinanzi a sé, ma deve “accontentarsi” della spiegazione (“Erklären”, che in tedesco significa “spiegare”) di questo, rectius della sua condizione, fisiologica o patologica a seconda della prospettiva, “riducendolo” ad un fenomeno naturale. Più che “prendere in cura” il malato – ammettendo che è l’unico esito assicurabile di una situazione per cui la guarigione definitiva non esiste poiché ad essere “malata” è la “psyché”, intesa come “anima”, come “res cogitans”, un terreno non intellegibile né indagabile in quanto appartenente all’inconscio – lo psichiatra inizia a prendersi “cura” di una essere debole, per il quale il medico, personalmente ritengo, inizia a fungere da figura materna o paterna, o per lo meno complice, quasi che il percorso che insieme intraprendono – condividendo, virtualmente per il professionista, la stessa condizione così che il malato si senta in parte sollevato da un peso che non grava più unicamente sulle sue spalle – dia la stura ad una nuova vita, come una sorta di rinascita, questa essendo l’unica e vera panacea. D’altronde, non esiste guarigione per l’oggetto/soggetto – il “malato” – di una scienza psichiatrica, quale quella del “buon” terapeuta, che, attraverso un metodo fenomenologico, proprio di ogni altra– anche dello ius, presumo – non può che limitarsi a spiegare, e non comprendere – non sarebbe possibile –, nei suoi nessi causali “inconsci” e nelle sue manifestazioni “morbose”, i quali, come è stato premesso nella parte introduttiva, sono una riproduzione “nel mondo” distorta, riduttiva, di una più grande ed imperscrutabile “essenza”, quella del paziente “alienato”, “lontano” o “allontanato” dal mondo, “fuori da esso” (“Ent-fremdung”, in tedesco “alienazione”), piuttosto che “fuori di senno”, per recuperare il “Sé” abortito. Per concludere, mi rivolgo al lettore lasciandolo con un invito ed auspicio: tutto ciò che può sembrare generale, astratto, freddo, lontano, come la legge, rectius il diritto, lo è, senza troppi giri di parole, ma affonda le sue radici nell’esistenza umana, che è la massima manifestazione e sublimazione dell’energia vitale, la quale “fa vivere” tutto ciò che tocca. Perciò bisogna vivere con entusiasmo, ironia e cercando di innamorarsi di ogni aspetto del vivere. Bisogna essere degli adulti con gli occhi del “fanciullino”: bisognerebbe vivere con divertimento o divertirsi vivendo.

 

 

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