I tempi stanno rapidamente e radicalmente cambiando, e questo si riflette nella psicopatologia. I temi di colpa, indegnità, rovina, espiazione e le esperienze di vergogna, fino a qualche decennio fa al centro dell’ideazione delirante olotimica e negli sviluppi deliranti, sono diventati molto rari, così come i rispettivi sentimenti etici da cui traggono origine. Al loro posto le tematiche di cui si è appropriata la psicopatologia (i nuclei che si impongono sempre più ad una possibile lettura psicopatologica) sono altri, plasmati dallo spirito del tempo: idee, rivendicazioni e deliri relativi ad abusi sessuali, spesso autentici e giustificati ma, non infrequentemente, solo presunti, discutibili, se non del tutto immaginari; idee (e deliri) complottisti antiscientifici; idee (e deliri) ipocondriaci, soprattutto legati alla tossicità presunta di determinati cibi o altri fattori ambientali, con conseguenti “disturbi del comportamento alimentare”; idee (e deliri) legati ai vissuti corporei, ed al trattamento e alla manipolazione del proprio corpo in senso estetico e salutista, ma anche di sfogo masochista (dalla bulimia all’autolesionismo); idee (e, talora, deliri) relativi alle fluidità di genere, reversibili o irreversibili, e al catalogo infinito delle varianti comportamentali in materia di relazioni sessuali e della procreazione assistita o delegata; infine, il diritto di determinare la propria morte, che in tantissimi casi è peraltro sacrosanto.
Protagonista di queste tematiche, che potremmo definire, rivendicandone noi stessi il “diritto”, fobico-ossessive, oppure più o meno paranoidi, o autodistruttive, è il corpo, il cui primato crescente indica l’essersi imposto alla psiche precedendo il pensiero con il passo feroce di una pulsionalità che Erich Fromm definirebbe necrofila, in quanto rivolta non ad un “oggetto” ma ad un triturato indistinto di oggetti parziali, de-animati se non in-animati, che ripropongono la scissione buono/cattivo di kleiniana memoria. Un corpo, dunque, che impone un para-noûs scissionale tutto suo, che tuttavia ha un largo credito condiviso nei social e nei media in genere. Nello stesso tempo un corpo che alimenta il diritto di manifestarsi sui social nella sua totale datità oggettuale, ignaro di ogni sentimento del pudore, tradizionale precursore della dignità individuale, etica e valoriale. Nelle sue dimensioni fobiche/paranoicali oppure esibizionistiche il corpo diventa lo scenario, la tela, il sudario in cui si imprime, ma anche si cela, la sofferenza ma anche la rivendicazione dei diritti individuali: questi ultimi, a ben vedere, sono tutti legati al corpo e, quindi, sono agiti sul piano comportamentale, anziché pensati. La psicopatologia se ne appropria trasformandoli in comportamenti fanatici oppure in veri “deliri comportamentali”, nel senso che l’assurdità e talora la gravità delle loro conseguenze sono quelle che più, clinicamente, evidenziano una psicopatologia. Per fare un esempio grossolano, una cosa è il suicidio assistito di un tetraplegico tenuto in vita artificialmente da decenni, un’altra la richiesta del “diritto” all’eutanasia di un paziente “semplicemente” depresso. Una cosa è rivendicare la propria naturale fluidità di genere, un’altra è evidenziarla solo in relazione a gravi oscillazioni dell’umore, Schreber docet. Una è mettere in atto comportamenti sani per placare vissuti matriciali di angoscia, un’altra è farlo autolesionandosi, come si vede fare perfino su Tik Tok.
A ben vedere, il tema centrale entrato nel parterre dei nuovi nuclei psicopatologici è proprio quello dei “diritti”. La rivendicazione dei diritti individuali e sociali è ovviamente sacrosanta in una società democratica che deve garantire pari opportunità e assenza di discriminazioni tra tutti i cittadini; il problema è che la psicopatologia può appropriarsene in un continuum che dalla normalità sfocia nel fanatismo fino al delirio surreale e bizzarro. Vediamo due esempi degni dell’antologia dell’humour nero o dei film di Buñuel, per chi ne ha memoria.
Il presunto colpevole dell’efferato, tragico omicidio della collega Barbara Capovani, già fondatore e presidente di un’associazione per la tutela dei “diritti” degli assistiti dai centri di salute mentali, e come tale portato alla ribalta in consessi antipsichiatrici, rivendica il giusto rispetto dei suoi diritti di detenuto in attesa di giudizio, rifiuta non solo ogni “terapia”, ma sostiene il “diritto” di non essere periziato, in opposizione alla decisione del giudice, in quanto in modo lucido benché autoreferenziale afferma di non essere pazzo e di non poter essere strumentalizzato dagli psichiatri (in altri momenti, nel corso di precedenti perizie dagli esiti contrastanti, aveva invece affermato, tra gli altri deliroidi, di avere il cervello blu, mutante, in quanto il padre, un militare americano, l’aveva da piccolo fatto partecipare ad una sperimentazione in vivo).
Maria Sofia, compiuti i 18 anni, in opposizione ai suoi genitori si iscrive all’Academy del Porno di Rocco Siffredi, in quanto “è un suo diritto” disporre del (suo) corpo di donna attraverso la relazione con altri corpi, purché priva di autentica alterità e sostanzialmente autoregolata dal corrispettivo mediatico o dal consenso dei follower; però mettere insieme il tema dei diritti femministi con una formazione professionale, diciamo così, rende la sua gestione all’interno dell’Academy difficile, e lo stesso Rocco, perplesso, deve accordarsi coi genitori sul cosa fare per tutelare la giovane. Di chi è, è di qualcuno, quel corpo? Dove è situato il centro decisionale? A noi sembra che sia collocato laddove l’evidenza naturale si sia smarrita.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ad esempio nella proliferazione di riti matrimoniali neo-archetipici a immagine e somiglianza di chi li propone spettacolarmente sui social, quasi-matrimoni, o matrimoni poligami e indifferenti al genere, queer, ad esempio.
La proliferazione dei diritti individuali è senza limiti e, come tale, segue una logica cogente che, quando si amalgama con la vulnerabilità psicopatologica, genera fanatismo e perfino deliri. Abbiamo già visto gli effetti del diritto di non vaccinarsi, e di quello di non curarsi anche quando necessario; preoccupanti dati epidemiologici ci mostrano l’entità del “diritto” di non lavorare, non studiare, non formarsi, di non uscire di casa e di vivere “online”, di evitare ogni relazione stabile, accoppiarsi con chiunque ed in ogni modo (purché ci sia il consenso, meglio se scritto), di non procreare, non cucinare, di drogarsi, di tatuare ogni centimetro della propria pelle, o di massacrarsela con anelli neo-tribali o tagli a volte tutt’altro che superficiali; ognuno potrebbe oggi rivendicare il diritto di non lavarsi, non alimentarsi e non respirare, come succede alla protagonista di Pastorale americana di Philip Roth, radicale precorritrice dei nostri tempi, ed avrebbe dei sostenitori: il “diritto dei diritti” è quello di “essere semplicemente se stessi”, una norma applicabile senza il tempo psicologicamente necessario per una assimilazione identitaria autentica.
Alla radice di tutto questo dominio dei “diritti dell’individuo in quanto corpo” c’è però soprattutto la profezia di uno straordinario filosofo, alle soglie della sua ultima fatale crisi psicotica: quella della “transvalutazione di tutti i valori” di un Nietzsche oppresso e per questo ribelle contro i soffocanti valori ebraico-cristiani ai quali era stato educato, essendo, tra l’altro, suo padre, un pastore protestante: «La verità sta nella transvalutazione di tutti i valori, l’atto in cui la verità diviene “carne” (pura corporeità) e genio»; «in questo modo la Terra cessa di essere il deserto in cui l’uomo è in esilio, ma diviene dimora gioiosa dell’uomo».
Oggi nessuno onora più il padre e la madre, non nomina il nome di Dio invano, non fornica, non compie atti impuri, non dice falsa testimonianza, non rimette i suoi debiti e così via, anzi, rivendica il diritto di non farlo, anche nelle sedi istituzionali. Per quanto riguarda i sette vizi o peccati capitali, ira, accidia, superbia, avarizia, invidia, gola e lussuria, di loro si sono appropriati direttamente le televisioni e gli altri media facendone dei valori di intrattenimento, quando non vengono sbandierati politicamente come “diritti” da difendere. La Terra è grazie a questo divenuta “dimora gioiosa dell’uomo”? Certamente il sistema era “troppo” rigido, esanime, asfittico. Ma per un giusto cambiamento dovevamo forse passare necessariamente attraverso il rovesciamento di tutti i valori?
Il problema non sono certamente i “diritti”, considerati astrattamente come principi, e neanche la norma sociale, se non si è di fronte a reati, ma il fatto che gli esseri umani possano per loro natura essere attraversati in una certa misura e percentuale, da una inconsapevole deriva psicopatologica, che porta facilmente a scambiare per idee giuste idee bizzarre, idee, come diceva Eugen Bleuler, “dereistiche”, che si allontanano dalla realtà. Le “false idee” non possono, come tali, per definizione, avere un valore sociale positivo, ma solo effetti tragici quando vengono scambiate per vere, come si è visto, nel ‘900, in tutti i sistemi ideologici, in particolare nel nazifascismo quando ha concretizzato la convinzione che gli ebrei fossero dei parassiti sociali (untermenschen) da sterminare come gli scarafaggi: anche qui un deliroide nato dalla riduzione dell’individuo a mera presenza corporea.
La deriva psicopatologica che cogliamo nella rivendicazione dei “diritti” consiste nell’irrazionalità delle produzioni ideative, e nella loro realizzazione concreta, priva di ogni “mentalizzazione”. Il corpo mutato e mutante nell’aspetto e nei comportamenti, diventa così, in assenza di autoriflessione, la scena esternalizzata dell’inconscio, ed infatti la psicopatologia riscopre oggi il gusto tardo-ottocentesco, pre-psicoanalitico, dell’osservazione e della “lettura” delle espressioni corporee (look, tatuaggi, cicatrici, profili Instagram) per farsi un’idea della persona di cui si sta occupando, dalla cui ideazione si evince poco o niente.
Questa enorme trasformazione in atto si accompagna spesso a vissuti di angoscia indefinita, comprensibili richiamando il Kierkegaard esistenzialista, per il quale l’angoscia scaturisce dalla “vertigine della libertà” e si distingue dall’ansia, dalla paura, dalla tristezza, dalla malinconia, dal disagio e dall’irrequietezza, perché è il vissuto somatico psicogeno del “sentimento delle possibilità”. Ma come possiamo curare questa angoscia che pervade pazienti, in maggioranza giovani e giovanissimi, invariabilmente per motivi legati all’agire corporeo, se la rivendicazione dei loro “diritti” ci privano di ogni valore normativo? Oggi la distinzione tra normalità e patologia è molto più difficile di un tempo, perché il primato del corpo sulle idee genera comportamenti difficili anche solo da analizzare in una dimensione critica, prima ancora di qualificarli come segni di un disturbo, in quanto garantiti socialmente dalla deriva inflazionistica dei “diritti”. Di fronte a questa “nuova clinica” o “para-clinica” si potrebbe prospettare una nuova semeiologia. Ma come redigerla se sono le stesse discipline “psi” ad essere così scosse nei propri fondamenti e nel loro valore terapeutico, al punto di dover legittimare loro stesse il proprio “diritto” di esistere?
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