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La malattia e la cura della morte come parte della vita nel “Cuaderno San Martìn” di Borges

19 Set 23

A cura di Sabino Nanni

        La parola “morte” è il nome di una realtà che ci sfugge, che non possiamo conoscere. Sappiamo soltanto con certezza che, ad un certo punto, una persona cessa di esistere. Tuttavia, quello che le succede dopo, ci risulta non rappresentabile: fallisce completamente l’unico mezzo con cui possiamo comprendere un nostro simile, ossia la nostra capacità di metterci nei suoi panni. Qualsiasi esperienza, infatti, presuppone l’esistenza di un soggetto che la vive; soggetto col quale possiamo immedesimarci. Però sappiamo che quel soggetto, ora, non c’è più. Se abbiamo fede, possiamo pensare ad un’esistenza ultraterrena, però la fede è sempre diversa dalla certezza che ci dà quel che è percepibile; lo dimostra il fatto che la fede non riesce mai a lenire del tutto il dolore della perdita di una persona cara.
        Nonostante sia inconoscibile, la morte accompagna le varie tappe della vita di ogni essere umano. La nostra specie è dotata di (auto)coscienza, e non possiamo sfuggire alla consapevolezza di quel che eravamo e ora non siamo più; di quel che amavamo, e ora non esiste più. La precarietà di ogni cosa, testimoniata dalla morte, è forse la più dura realtà con la quale dobbiamo fare i conti; motivo per cui mantenerci sereni e poter vivere qualche momento di autentica felicità è un compito difficile per chiunque. Alcune persone non riescono ad affrontarlo, e questa è una delle cause di molte (forse tutte) fra le affezioni psichiatriche.

        Il Poeta, riscattando con la sua Arte questa realtà terribile, ce la rende, se non sopportabile, almeno pensabile; e il poterla far diventare oggetto di riflessione è già una cura, ed un importante suggerimento al clinico. Nel “Cuaderno San Martìn”, Borges illustra tutte le varie sfaccettature della morte, quale realtà ineludibile della vita di tutti noi. (I numeri di pagina si riferiscono a: Jorge Luis Borges – Cuaderno San Martìn – in “Tutte le opere”, vol. 1 – Mondadori 1984 – In corsivo, i miei commenti)

Isidoro Acevedo – pag. 152
Es verdad que Io ignoro todo sobre él
– salvo los nombres de lugar y las fechas:
fraudes de la palabra –
pero con temerosa piedad he rescatado su ùltimo dìa,
no el que los otros vieron, el suyo.
……………………………………………………………………………..

Pero mi voz no debe asumir sus batallas,
porque él se las llevò en un sueño esencial.
Porque lo mismo que otros hombres escriben versos,
hizo mi abuelo un sueño.

Cuando una congestiòn pulmonar lo estaba arrasando
y la inventiva fiebre le falseò la cara del dìa,
congregò los ardientes documentos de su memoria
para fraguar su sueño.
……………………………………………………………………………..

Soñò con dos ejercitos
que entraban en la sombra de una batalla;
enumerò los comandos, las banderas, las unidades.
……………………………………………………………………………..

Entrò a saco en sus dìas
para esa visionaria patriada que necesitava su fe, no que una flaqueza le impuso;
juntò un ejercito de sombras porteñas
para que lo mataran.

Asì, en el dormitorio que miraba al jardìn,
muriò en un sueño por la patria.

En metàfora de viaje me dijeron su muerte; no la creì.
Yo era chico, yo no sabìa entonces de muerte, yo era immortal:
yo lo busqué por muchos dìas por los cuartos sin luz.

[È vero che io ignoro tutto di lui / – tranne i nomi di luogo e le date, / inganni della parola – / però con timorosa pietà ho riscattato il suo ultimo giorno, / non quello che gli altri videro, il suo (…) / Ma la mia voce non deve farsi carico delle sue battaglie, / perché egli se le portò via in un sogno essenziale. / Perché così come altri uomini scrivono versi, / fece mio nonno un sogno.

 

Sulla vita reale di una persona, nulla ci possono dire i nomi dei luoghi e le date in cui ha operato: si tratta di “inganni della parola” che ci fanno credere di conoscere qualcosa di quell’essere umano, ma in realtà egli ci resta completamente ignoto. Il Poeta, con pietà “timorosa” (perché si addentra in una realtà angosciante) “riscatta” l’ultimo giorno di vita del nonno Isidoro Acevedo. Lo riscatta perché, anziché limitarsi a registrare, in modo impersonale, la data e il luogo in cui il suo avo pose fine ai suoi giorni, e anziché attenersi a quanto “videro gli altri” (ossia la fine di un povero corpo distrutto dalla malattia), egli, con la sua immaginazione poetica, ricostruisce il suo “vero” ultimo giorno, ossia come il vecchio generale lo visse nel suo intimo. La vita reale di una persona è frutto di un’elaborazione interiore della sua esperienza; ciò che fa o dice ne è solo la manifestazione esterna. Il Poeta, ricostruendo tale elaborazione, ricrea nei suoi versi la capacità del nonno di mantenere la pienezza della sua vita persino nell’esperienza della morte. La visse a suo modo, come lotta estrema per difendere e affermare il suo ideale di patria. Non fu una fuga nella fantasia dovuta a debolezza: Isidoro ha ben presente la realtà della morte, e la affronta come eroico sacrificio, soccombendo con la spada in pugno. Borges bambino non conosce la realtà della morte; non crede, quindi, che il nonno se ne sia andato per sempre. È possibile che, qui, ci sia qualcosa di più di una semplice ingenuità: con la sua sensibilità, che possedeva già allora, il piccolo deve aver colto la straordinaria vitalità del suo avo; vitalità che non può cessare di esistere neppure subito prima della fine biologica.


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La noche que en el Sur lo velaron – pag. 156
Por el deceso de alguien
 – misterio cuyo vacante nombre poseo y cuya realidad no abarcamos –
hay hasta el alba una casa abierta en el Sur,
una ignorada casa que no estoy destinado a rever,
pero que me espera esta noche
con desvelada luz en las altas horas del sueño,
demacrada de malas noches, distinta,
minuciosa de realidad.

A su vigilia gravitada en muerte camino
por las calles elementales como recuerdos,
por el tiempo abundante de la noche,
sin màs oìble vida
que los vagos hombres de barrio junto al apagado almacén
y algùn silbido solo en el mundo. 

[Per il decesso di qualcuno / – mistero il cui nome vacante posseggo e la cui realtà non dominiamo / – c’è fino all’alba una casa aperta nel Sud, / una casa ignorata che non sono destinato a rivedere, / ma che mi aspetta questa notte / con luce insonne nelle alte ore del sonno, / sciupata da nottatacce, chiara, / minuziosa di realtà.

 

Come dicevo più sopra, la parola “morte” è il nome di una realtà che ci sfugge, che non possiamo conoscere. In questa poesia, Borges non può parlarne; descrive, piuttosto, la vita che si svolge intorno al defunto e ne viene condizionata. La percezione della realtà oggettiva è cambiata: la luce che illumina la veglia appare “insonne”, “sciupata da cattive nottate”; fenomeni di cui viene sottolineata la loro appartenenza alla vita, in contrasto, col sonno eterno del morto. Essa illumina “minuziosamente” la realtà dei vivi, anche qui in contrasto con l’oscurità che avvolge il defunto. Insomma, in quest’occasione si coglie soprattutto ciò che differenzia l’ambiente di chi vive da quello che immaginiamo accolga il morto. Tuttavia la percezione della realtà è anche influenzata direttamente (e non per contrasto) dall’idea che, pur sapendo di sbagliare, ci facciamo del “sonno eterno”: il presente si trasforma in ricordo, il tempo sembra essersi fermato, intorno regna il silenzio


Lento el andar, en la posesiòn de la espera,
llego a la cuadra y a la casa y a la sincera puerta que busco
y me reciben hombres obligados a gravedad
que participaron de los años de mis mayores,
y nivelamos destinos en una pieza habilitada que mira al patio
– patio que està bajo el poder y en la integridad de la noche –
y decimos, porque la realidad es mayor, cosas indiferentes
y somos desganados y argentinos en el espejo
y el mate compartido mide horas vanas.

[Lento il camminare, nel possesso dell’attesa, / giungo all’isolato e alla sincera porta che cerco / e mi ricevono uomini obbligati a gravità / che parteciparono agli anni dei miei vecchi, / e livelliamo destini in una camera allestita che guarda il patio / – patio che sta sotto il potere e l’integrità della notte – / e diciamo, poiché la realtà è maggiore, cose indifferenti / e siamo svogliati e argentini nello specchio / e il mate condiviso misura ore vane.]

 

Procedendo lentamente e con sicurezza verso il luogo della veglia, il Poeta assapora il gusto del suo “possesso” del tempo, che è proprio ciò che manca a chi ha smesso di vivere. La porta che cerca è “sincera”: gli “dice” qualcosa. Anche qui c’è il contrasto con la condizione del morto, sordo ad ogni messaggio. I partecipanti alla veglia sono come “obbligati” ad assumere un atteggiamento “grave”: esprimere la propria naturale vivacità sarebbe sconveniente, quasi colpevole; farlo significherebbe ostentare cinicamente qualcosa che le persone vicine al defunto, in stato di lutto, hanno perso temporaneamente, e che il morto ha perso per sempre. Per ragioni analoghe, ognuno si sente obbligato a reprimere le manifestazioni della propria individualità (le specifiche attese che ciascuno ha della propria vita): tutti “livellano” sé stessi in un comune destino di esseri temporaneamente viventi e destinati a finire. La realtà della morte è soverchiante, troppo grave per poterla affrontare con le parole; meglio ripiegare su argomenti indifferenti, fingendo di interessarsene. La volontà, l’interesse per il mondo sono come paralizzati; non resta che soffermarsi sui minimi particolari di sé stessi allo specchio, che restituisce l’immagine di esseri viventi. Il tempo, che appartiene solo a chi vive, continua a scorrere, ma le ore son divenute vuote.


Me conmueven las menudas sabidurias
que en todo fallecimiento se pierden
– habito de unos libros, de una llave, de un cuerpo entre los otros –
Yo sé que todo privilegio, aunque oscuro, es de linaje de milagro
y mucho lo es el de participar en esta vigilia,
reunida alrededor de lo que no se sabe: del Muerto,
reunida para acompañar y guardar su primera noche en la muerte.

(El velorio gasta las caras;
los ojos se nos estàn muriendo en alto cono Jesùs.)

¿Y el muerto, el incredible?
Su realidad està bajo las flores diferentes de él
y su mortal hospitalidad nos darà
un recuerdo màs para el tiempo
y sentenciosas calles del Sur para merecerlas despacio
y brisa oscura sobre la frente que vuelve
y la noche que de la mayor congoja nos libra:
la prolijidad de lo real.

[Mi commuovono le minute sapienze / che in ogni morte si perdono / – abitudine di alcuni libri, di una chiave, di un corpo tra gli altri – / Io so che ogni privilegio, benché oscuro, è della stirpe del miracolo / e molto lo è il partecipare a questa veglia / riunita intorno a ciò che non si sa: al Morto, / riunita per accompagnare e custodire la sua prima notte nella morte.

 

Non muore soltanto l’individuo: perdono la loro vita anche gli oggetti che, facendo parte della sua esistenza di tutti i giorni, rappresentavano come un prolungamento di lui stesso. Quel che significavano per lui ci rimarrà, in gran parte, ignoto. Tuttavia, tali oggetti inanimati (un libro, una chiave, lo stesso corpo senz’anima del defunto) ci commuovono perché rimangono come testimoni muti di una vita che ora non c’è più. Di fronte al potere implacabile della morte, capace di azzerare ogni valore, anche il più oscuro e insignificante privilegio (che può appartenere solo a chi vive) sembra un miracolo. Lo è anche la possibilità di partecipare, viventi, a questa cerimonia della veglia funebre. La ragion d’essere di questa non può appartenere alla realtà: si fonda sull’illusione di accompagnare, nella prima notte da defunto, chi è destinato a lasciarci per sempre e a rimanere solo. La convinzione di poterci immaginare l’esperienza vissuta di chi è morto – non possiamo fare a meno di ammetterlo – è ingannevole. Di fatto, la realtà della sua condizione resta incredibile: non possiamo convincerci che qualcosa che non è rappresentabile sia vero. L’esperienza della veglia funebre, perciò, ci lascerà un ricordo indelebile: quello di un limite invalicabile che si oppone alla nostra immaginazione, di un muro al di là del quale c’è il mistero. Percorriamo pensierosi la via del ritorno, ed andiamo incontro alla notte: è il tempo che, dandoci la possibilità di riflettere in solitudine e di sognare, ci fa sperare di trovare un significato in una realtà “prolissa”, che si prolunga all’infinito offrendoci solo dettagli insensati e noiosi.


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La Chacarita – pag. 160
Porque la entraña del cemeterio del sur
fue saciada por la fiebre amarilla hasta decir basta;
porque los conventillos hondos del sur
mandaron muerte sobre la cara de Buenos Aires
y porque Buenos Aires no pudo mirar esa muerte,
a paladas te abrieron
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Trapacerías de la muerte – sucia como el nacimiento del hombre –
siguen multiplicando tu subsuelo y así reclutas
tu conventillo de ánimas, tu montonera clandestina de huesos
que caen al fondo de tu noche enterrada
lo mismo que a la hondura de un mar.

[Poiché le viscere del cimitero del sud / furono saziate dalla febbre gialla fino a dire basta; / poiché i casamenti profondi del sud / inviarono morte sul volto di Buenos Aires / e poiché Buenos Aires non poté guardare quella morte / a palate ti aprirono / (…) / Trappole della morte – sporca come la nascita dell’uomo – / continuano, via via, a moltiplicare il tuo sottosuolo e così recluti / il tuo casamento di anime, i tuoi militi irregolari clandestini di ossa / che cadono nel fondo della tua notte sepolta / come nel profondo di un mare.]

 

La città, il luogo dove la vita è più intensa, non può sopportare la presenza dei cadaveri: sono prove tangibili che la vita è destinata a finire. I morti vengono spediti lontano dagli occhi, in un quartiere considerato come una sorta di immondezzaio. La parola “morte” finisce così per denotare solo assenza: viene depurata di tutto ciò che è sporco e repellente, ossia di ciò che, non più utile a chi è vivo, va soppresso ed eliminato come le feci. Lo stesso vale per la parola “nascita”, che comporta il venire al mondo insudiciati coi resti di un’esistenza intrauterina che non c’è più. La sepoltura dei morti, tuttavia, non è soltanto un modo per nasconderli alla vista, è anche un gesto di pietà: li si fa accogliere dalla madre terra, in una profondità che viene paragonata a quella del mare, come se ritornassero nell’ambiente liquido del ventre materno.


Una dura vegetación de sobras en pena
hace fuerza contra tus paredones interminables
cuyo sentido es perdición,
y convencidas de mortalidad las orillas
apuran la caliente vida a tus pies
en calles traspasadas por una llamarada baja de barro
o se aturden con desgano de bandoneones
o con balidos de cornetas sonsas en carnaval.
(El fallo de destino más para siempre,
que dura en mí lo escuché esa noche en tu noche
cuando la guitarra bajo la mano del orillero
dijo lo mismo que las palabras, y ellas decían:
La muerte es vida vivida,
la vida es muerte que viene;
la vida non es otra cosa
que muerte que anda luciendo.)

[Una dura vegetazione di resti in pena / spinge contro i tuoi muri interminabili / il cui senso è perdizione, / e convinti di mortalità i sobborghi / svuotano la loro calda vita ai tuoi piedi / in strade trafitte da una fiammata bassa di fango / o si stordiscono con svogliatezza di fisarmoniche / o con belati di cornette sciocche a carnevale. / (La sentenza di destino più definitiva, / che dura in me la ascoltai quella notte nella tua notte / quando la chitarra sotto la mano dell’abitante dei sobborghi / disse come con le parole, ed esse dicevano: / La morte è vita vissuta, / la vita è morte che viene, / la vita non è altra cosa / che morte che va facendo sfoggio di sé)

 

Finché le realtà interiori della gioia, del piacere e del dolore testimoniano in modo inequivocabile il nostro essere vivi, il pensiero della morte ci coinvolge poco, o non ci sfiora del tutto. Ciò non può più succedere alla Chacarita, invasa dai cadaveri: la morte, in questo quartiere, è una presenza costante, innegabile, inscindibile dalla vita. Impossibile dimenticare che la vita di ciascuno è come un fiume che corre verso un mare dove si fermerà e cesserà d’esistere; che ogni minuto che trascorre è un minuto in meno che ci resta da vivere. Ciò sopprime, negli abitanti della Chacarita, ogni fervore di vita; la loro esistenza si svuota: le strade non vengono più ripulite dal fango; si cerca di distrarsi col suono di una chitarra che, però, non può che essere privo di vivacità, come “svogliato”; oppure con feste sciocche e puerili. Che la morte sia onnipresente, realtà che viene di solito taciuta e ignorata, lo ricorda lo stesso modo di essere degli abitanti della Chacarita; lo dice, col suo linguaggio preverbale, anche la musica che spontaneamente viene creata dalle loro chitarre.


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Cùpulas estrafalarias de madera y cruces en alto
se mueven – piezas negras de un ajedrez final – por tus calles
y su achacosa majestad va encubriendo
las vergüenzas de nuestras muertes.
En tu disciplinado recinto
la muerte es incolora, hueca, numérica;
se disminuye a fechas y a nombres,
muertes de la palabra.

[(…) Cupole bizzarre di legno e croci in alto / si muovono – pedine nere di un gioco di scacchi finale – per le tue strade / e la loro malaticcia maestà man mano nasconde / le vergogne delle nostre morti. / Nel tuo disciplinato recinto / la morte è incolore, vuota, numerica; / si riduce a date e nomi, / morti della parola.]

 

La realtà della morte è quella che più brutalmente toglie ogni ragione d’essere alle idee d’invulnerabilità e immortalità; rappresenta la più dolorosa delle ferite narcisistiche, e quindi il motivo della più grande vergogna. È soprattutto per questa ragione che, nel viaggio verso la loro dimora definitiva, nascondiamo le salme dentro bare e carri funebri che vorrebbero celare, dietro il loro apparente sfarzo, tale intollerabile vergogna, oltre che il più grande dolore. Tuttavia la loro maestà ci appare “malaticcia”. Analogamente, tendiamo a sottrarre alla realtà della morte il suo carattere raccapricciante e incontrollabile conferendo al cimitero l’apparenza di un luogo ordinato ed impersonale, dove la tragica fine delle esistenze umane è segnalata, in modo emotivamente asettico, da date e numeri. L’espressione verbale di tutto questo costituisce la “morte delle parole”: esse non veicolano più, in modo vivo, l’intenso sconvolgimento che ci suscitano i defunti, ma solo fatti oggettivi, da cui pretendiamo di mantenere un totale distacco.


Chacarita:
desaguadero de esta patria de Buenos Aires, cuesta final,
barrio que sobrevives a los otros, que sobremueres,
lazareto que estàs en esta muerte no en la otra vida,
he oìdo tu palabra de caducidad y no creo en ella,
porque tu misma convicciòn de angustia es acto de vida
y porque la plenitud de una sola rosa es màs que tus marmoles.

[Chacarita: / scolatoio di questa patria Buenos Aires, approdo finale. / quartiere che sopravvivi agli altri, che soprammuori, / lazzaretto che stai in questa morte e non nell’altra vita, / ho sentito la tua parola di caducità e non credo in essa, / perché la tua stessa convinzione di angoscia è atto di vita / e perché la pienezza di una sola rosa è più dei tuoi marmi.]

 

Nel quartiere Chacarita, approdo finale degli abitanti della città, la morte non è un fatto occasionale, di cui ci si accorge solo ogni tanto quando qualcuno viene a mancare, ma una realtà costantemente presente. Mentre i cittadini, uno alla volta, si assentano dalla vita, il popolo di morti della Chacarita non conosce separazioni: esso rimane costantemente presente, in tutti i suoi componenti. Mentre gli abitanti di altri quartieri vengono man mano sostituiti, la Chacarita “sopravvive” alle altre parti della città; nel contempo, i suoi abitanti sono prevalentemente defunti, mentre altrove regna ancora la vita: la Chacarita “soprammuore”. È un “lazzaretto”, rigorosamente isolato, dove la presenza dei cadaveri testimonia la fine inesorabile dell’esistenza terrena, mentre altrove è più facile pensare alla sopravvivenza dell’anima: qui domina “questa” morte, come la percepiamo noi viventi, e non “l’altra” vita, quella dell’oltretomba. La precarietà di ogni cosa, con l’angoscia che essa suscita, nella Chacarita è una realtà tangibile. Tuttavia il Poeta non può credervi, perché questa stessa angoscia è un sentimento che solo i viventi possono avvertire; è, quindi, testimonianza di una vita che, nonostante tutto, persiste; e, oltre che l’angoscia, anche il potente sentimento della Bellezza, che una semplice rosa sa suscitare, è prova che la vita può vincere la tristezza dei marmi di un cimitero.


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La Recoleta – pag. 164
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Crece en disoluciòn bajo los sufragios de màrmol
la naciòn irreplesentable de muertos
que se deshumanizaron en tu tiniebla
………………………………………….
Pero yo quiero demorarme en el pensamiento
de las livianas flores que son tu comentario piadoso
…………………………………………..
y en el porqué de su vivir gracioso y dormido
junto a las terribles reliquias de los que amamos.

Dije el enigma y diré también su palabra:
siempre las flores vigilaron la muerte,
porque siempre los hombres incomprensiblemente supimos
que su existir dormido y gracioso
es el que mejor puede acompañar a los que murieron
sin ofenderlos con soberbia de vida,
sin ser màs vida que ellos.

[(…)

 

A dispetto di tutto ciò che rende evidente la scomparsa definitiva di coloro che amiamo (la dissoluzione dei loro corpi, le “terribili reliquie”, esito della decomposizione); a dispetto del fatto che la loro esistenza (l’esistenza degli inesistenti) non è mentalmente rappresentabile; a dispetto di tutto questo, noi non possiamo fare a meno di attribuire ai defunti una forma di vita. Lo facciamo anche attraverso un paradosso: immaginiamo che nutrano un sentimento di umiliazione (che come tale non può che appartenere a chi vive) per essere stati privati della vita; cerchiamo di non offenderli con la nostra “superbia di vita”; lo facciamo ponendo accanto a loro i fiori, la cui esistenza è discreta, “dormiente”, e la cui grazia potrebbe allietare la loro tremenda condizione.

Vedi anche il mio articolo in: http://www.psychiatryonline.it/node/7906

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A Francisco Lòpez Merino – pag. 168
Si te cubriste, por deliberada mano, de muerte,
si tu voluntad fue rehusar todas las mañanas del mundo,
es inútil que palabras rechazadas te soliciten,
predestinadas a imposibilidad y a derrota.

Sólo nos queda entonces
decir el deshonor de las rosas que no supieron demorarte,
el oprobio del día que te permitió el balazo y el fin.

Qué sabrá oponer nuestra voz
a lo confirmado por la disolución, la lágrima, el mármol?
Pero hay ternuras que por ninguna muerte son menos:
las íntimas, indescifrables noticias que nos cuenta la música,
la patria que condesciende a higueras y aljibe,
la gravitación del amor, que nos justufica.

Pienso en ellas y pienso también, amigo escondido,
que tal vez a imagen de la predilección, obramos la muerte,
que la supiste de campanas, niña y graciosa,
hermana de tu aplicada letra de colegial,
y que hubieras querido distraerte en ella como en un sueño.

Si esto es verdad y si cuando el tiempo nos deja,
nos queda un sedimento de eternidad, un gusto del mundo,
entonces es ligera tu muerte,
como los versos en que siempre estás esperándonos,
entonces no profanarán tu tiniebla
estas amistades que invocan.

[Se ti copristi, con deliberata mano, di morte, / se la tua volontà fu rifiutare tutti i domani del mondo, / è inutile che parole respinte ti sollecitino, / predestinate a impossibilità e sconfitta.

 

Sono del tutto impotenti le parole con cui, anche solo nell’immaginazione, si vorrebbe dissuadere chi ha irrevocabilmente deciso di porre fine alla propria esistenza: non possono fare appello alla speranza, che costui ha soppresso in sé stesso, e neppure al sentimento che ispirano le cose belle, che hanno fallito nel loro compito di legarlo alla vita. Di fronte all’impossibilità di smentire la cruda realtà della decomposizione del corpo del suicida, delle lacrime di chi gli voleva bene, del marmo della sua tomba, le parole faticano a ricreare, con l’immaginazione, la sua vita. Tuttavia, fatta questa premessa con cui prende atto della terribile realtà, il Poeta dimostra la possibilità di attingere alle risorse interiori che possiedono coloro che, al suicida, furono legati: la tenerezza che persiste anche nei confronti di chi ha voluto scomparire, i messaggi d’amore imperituro per la vita, che le parole non possono esprimere, e che solo la musica sa comunicarci (viene in mente il “Requiem in mi minore” con cui Mozart, in fin di vita, rese sé stesso immortale), la madre patria che accolse lo sventurato, e che continua ad offrire il nutrimento necessario a chi continua a vivere, la stessa forza irrefrenabile dell’amore, che giustifica anche le affermazioni meno conformi alla cruda realtà. Tutto questo consente al Poeta di restituire al suicida qualcosa che apparteneva alla sua vita: la fantasia ingenua della morte come sogno di una estrema celebrazione, fatta di suono di campane, di quella che fu la sua esistenza. Ciò, come i versi con cui l’amico continua a parlarci, sfida la precarietà di ogni cosa, rende meno insopportabile la morte e l’esaurirsi del tempo che ci è concesso; ci permette di gettare uno sguardo non indiscreto al di là delle tenebre con cui l’amico ha voluto avvolgersi.


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Barrio Norte – pag. 172
Esta declaración es la de un secreto
que está vedado por la inutilidad y el discuido,
secreto sin misterio ni juramento
que sólo por la indiferencia lo es:
hábitos de hombres y de anocheceres lo tienen,
lo preserva el olvido, que es el modo más pobre del misterio.

Alguna vez era una amistad este barrio,
un argumento de aversiones y afectos, como las otras cosas de amor;
apenas se persiste esa fe
en unos hechos distanciados que morirán:
en la milonga que de las Cinco Esquinas se acuerda,
en el patio como una firme rosa bajo las paredes crecientes,
en el despintado letrero que dice todavía La flor del Norte,
en los muchachos de guitarra y baraja de almacén,
en la memoria detenida del ciego.

Ese disperso amor es nuestro desanimado secreto.

Una cosa invisible está pereciendo del mundo,
un amor no más ancho que una música.
Se nos aparta el barrio,
los balcones retacones de mármol no nos enfrentan cielo.
Nuestro cariño se acobarda en desganos,
la estrella de aire de las Cinco Esquinas es otra.
Pero sin ruido y siempre,
en cosas incomunicadas, perdidas, como lo están siempre las cosas,
en el gomero con su veteado cielo de sombra,
en la bacía que recoge el primer sol y el último,
perdura ese hecho servicial y amistoso,
esa lealtad oscura que mi palabra está declarando:
el barrio.

[Questa è la dichiarazione di un segreto / che è vietato dall’inutilità e dalla distrazione, / segreto senza mistero né giuramento / che soltanto per l’indifferenza lo è: / abitudini di uomini e di tramonti lo posseggono, / lo preserva l’oblio, che è il modo più povero del mistero.

 

Il lavoro del lutto si compie attraverso una “ipercarica emozionale sui dettagli” (Freud) per cui sono affettivamente investiti, uno alla volta gli aspetti particolari dell’oggetto perduto e, come se si riscoprisse ogni volta che tale oggetto non c’è più, si procede con il doloroso distacco. Questo lavoro non riguarda tutti i dettagli: ce ne sono alcuni che, giudicati insignificanti e perciò oggetto di scarsa attenzione, vengono lasciati da parte. Però l’oblio preserva il loro valore affettivo. Essi, riscoperti occasionalmente, permettono di far rivivere situazioni, cose e persone che sembravano completamente sparite dai ricordi. Viene qui in mente la celebre “madeleine” di Proust: una sorta di reperto archeologico, di per sé poco importante, partendo dal quale lo scrittore ricostruì un mondo ormai scomparso, e gli ridiede vita nel suo romanzo. I “reperti archeologici” del Rione Nord quale fu, ritrovati da Borges, sono molteplici, ma non più legati fra loro, sempre più privi di significato; più testimonianza di un mondo che sta morendo (e in gran parte scomparso) che di come esso fu nel pieno del suo vigore. Solo una “lealtà oscura” permette al Poeta di parlarne: è quella di chi continua ad amare qualcosa d’invisibile, scomparso, per tutti gli altri divenuto estraneo.


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El paseo de Julio – pag. 176
Juro que no por deliberación he vuelto a la calle
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de prostitución encubierta por lo más distinto: la música.

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aunque recuerdos míos, antiguos hasta la ternura, te saben,
nunca te sentí patria.

[Giuro che non di proposito sono tornato sulla strada / (…) / di prostituzione nascosta dal più diverso: la musica. / (…) / anche se ricordi miei, antichi fino alla tenerezza, ti sanno, / mai ti sentii patria.]

 

Ancora prima di descrivere il quartiere, argomento della poesia, Borges sente il bisogno di prenderne distanza (ne spiegherà il vero motivo nell’ultimo verso): precisa subito che vi è tornato “non intenzionalmente”, quasi volesse giustificarsi, forse perché si tratta di un posto malfamato; ammette di provare, per quel luogo, una tenerezza legata ad antichi ricordi, ma immediatamente puntualizza che non l’ha mai sentita come patria: non appartiene alla sua famiglia.


Sólo poseo de ti una deslumbrada ignorancia,
una insegura propiedad como la de los pájaros en el aire,
pero mi verso es de interrogatión y de prueba
y para obedecer lo entrevisto.

[Soltanto possiedo di te una accecante ignoranza, / una proprietà insicura come quella degli uccelli nell’aria, / però il mio verso è come una domanda ed un esperimento / e per assecondare l’intravisto.]

 

Ha, del luogo, una ignoranza “accecante”, che sembra mascherare quel che, in realtà, conosce. Si sente padrone dell’esperienza del quartiere soltanto in modo incerto, come l’uccello, nel suo volo, si appoggia ad un elemento invisibile ed incorporeo, qual è l’aria. C’è, qui, un conflitto fra il volere e il non volere ammettere la familiarità del luogo; conflitto che trova il suo superamento nel carattere “sperimentale” dei suoi versi e nel suo desiderio di tradurre in parole ciò che è soltanto intravisto.


Barrio con lucidez de pesadilla al pie de los otros,
tus espejos curvos denuncian el lado de fealdad de las caras,
tu noche calentada en lupanares pende de la ciudad.

Eres la perd fraguándose un mundo
con los reflejos y las deformaciones de éste;
sufres de caos, adoleces de irrealidad,
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[Rione con lucidità da incubo ai piedi degli altri, / i tuoi specchi deformanti denunciano il lato della sgradevolezza dei volti, / la tua notte animata in lupanari dipende dalla città.

 

L’elaborazione immaginativa poetica di Borges, di fronte a questo quartiere, più che ad un sogno, assomiglia ad un incubo: i volti appaiono deformati e grotteschi, le notti animate da una forma d’amore degradante. È un mondo di perdizione che non riesce neppure ad avere una sua originalità e una sua autonomia: dipende dalla città, che vi soddisfa i suoi desideri perversi; un mondo caotico che, però, non riesce a distaccarsi dalla cruda realtà.


¿Será porque el infierno es vacío
que es espuria tu misma fauna de monstruos
y la sirena prometida por ese cartel es muerta y de cera?

Tienes la resignación, del amanecer, del conocimiento,
la del espíritu no purificado, borrado
por los días del destino
y que ya blanco de muchas luces, ya nadie,
sólo codicia lo presente, lo actual, como los hombres viejos.

Detrás de los paredones de mi suburbio, los duros carros
rezarán con varas en alto a su imposible dios de hierro y de pol
pero ¿que dios, que ídolo, qué veneración la tuya, Paseo de Julio?

Tu vida pacta con la muerte;
toda félicidad, con sólo existir, te es adversa.

[Sarà perché l’inferno è vuoto / che è spuria la tua stessa fauna di mostri / e la sirena promessa da quel cartello è morta e di cera?

 

Come gli ignavi, anche gli abitanti del Paseo de Julio sono privi dell’identità dei peccatori, non possono abitare l’inferno. A differenza degli ignavi, tuttavia, non posseggono neppure quelle espressioni di vitalità rappresentate dalla vigliaccheria, dalla paura, dai desideri repressi; sono mostri inautentici: la sirena rappresentata in un cartello, simbolo di tentazione allettante e mortifera, è finta, priva di vita. Domina, nel quartiere, la rassegnazione di chi, per quel che ha conosciuto, è divenuto disincantato; di coloro in cui le tristi vicende della vita hanno cancellato ogni forma di vita spirituale; di coloro che, pur nel pieno della loro età adulta, sono già divenuto un nulla, come i morti. Non c’è capacità di proiettarsi nel futuro, di progettare qualcosa: si vive alla giornata, interessati solo al presente, come i vecchi più infelici. L’immagine dei carri che, alzando le loro stanghe al cielo, suggerirebbero l’immagine di qualcuno che prega, è metafora dell’assenza completa di religiosità, di qualsiasi forma di venerazione. È una forma di “vita” che, sebbene tale da un punto di vista biologico, è del tutto assente nel mondo interno; e con tale morte interiore, è impossibile ritrovare quell’antica felicità suscitata dalla sola sensazione di esistere come esseri umani.
        Borges, che già aveva suggerito al clinico l’importanza della “llaneza”, ossia di un’esperienza terapeutica riparativa e correttiva di ritrovata serenità per il solo fatto di esistere, ci offre qui il quadro della estrema difficoltà (o impossibilità) di riprodurre tale situazione in chi è completamente abbrutito dalle dure condizioni sociali. Chi tiene conto soltanto di queste, ignorandone i riflessi sulla vita interiore delle persone che vorrebbe risollevare, rischia di trovarsi di fronte alla stessa inerzia e sordità che appartengono ai morti. Benché estremamente difficile (e talora impossibile) da attuarsi, occorre offrire un’esperienza di “rianimazione” del mondo interno, non meno importante del miglioramento delle condizioni oggettive.    

 

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