Pubblico qui, anticipatamente, un frammento di un mio lavoro in corso: un commento su aspetti della Divina Commedia che possono costituire utili suggerimenti al clinico che si occupa della vita interiore umana. – Che Dio mi conceda di vivere abbastanza a lungo per portarlo a termine. – Nel Canto V dell’Inferno (il Canto di Paolo e Francesca) compare un problema che la psicopatologia psicoanalitica tratterà almeno sei secoli dopo Dante e che, agli occhi del grande pubblico, è ancora tutt’altro che chiaro: quello dei rapporti tra l’amore fra familiari e tendenze (o pratiche) incestuose.
Freud fu il primo a parlare di “complesso di Edipo”: raggiungendo gli aspetti profondi della vita interiore dei suoi pazienti (e di sé stesso) rilevò l’esistenza di desideri incestuosi, per lo più inconsci, diretti generalmente al genitore di sesso opposto, oltre che desideri matri- o patricidi. Come spesso accade al fondatore di una nuova disciplina, anche Freud non fu esente da imprecisioni ed errori che furono corretti dagli studiosi che lo seguirono. In questo caso, si trattò di una generalizzazione arbitraria.
Fu Kohut a chiarire che, sebbene Freud avesse scoperto una realtà clinica molto diffusa, fu però inesatto, da parte sua, considerare il complesso di Edipo come l’aspetto universale e necessario di una fase dell’evoluzione psico-sessuale di ogni individuo. Kohut sottolineò il carattere effettivamente universale dell’amore verso uno dei genitori; tuttavia rilevò che veri e propri desideri incestuosi e matri/parricidi comparivano solo come reazione all’assai diffuso fraintendimento e dell’assenza di comprensione empatica, da parte dei genitori, di tale sentimento. Searles e, più recentemente, Ogden descrissero l’amore edipico sano, riprodotto nel rapporto transferale, come una sorta di avventura sentimentale, “romantica”, in cui gli aspetti sessuali restano completamente nell’ombra e silenti, a condizione che il genitore (o l’analista) comprenda empaticamente e, in un certo senso, condivida i sentimenti del figlio o della figlia, o del paziente. Dante intuì tutto questo con vari secoli d’anticipo. Descrisse tali vicende sentimentali in un rapporto simbolicamente incestuoso, fra parenti acquisiti: Paolo e Francesca, che compaiono nel Canto V dell’Inferno.
I numeri di pagina dei versi che cito si riferiscono all’edizione dell’Inferno dell’Editoriale del Drago – 1981. In corsivo i miei commenti.
All’inizio del Canto V, Dante e Virgilio scendono nel secondo cerchio. All’entrata incontrano Minosse, custode del cerchio e giudice dell’Inferno. Dinanzi a questo personaggio mostruoso, disumanizzato, le anime dei dannati sono spinte da una forza interiore a confessarsi senza mentire:
pag. 65
……………………………………..
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor delle peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
[Il giudice irremovibile Minosse ha un aspetto bestiale; anche il suo modo d’esprimersi non ha nulla d’umano: egli assegna la pena a ciascuna anima non esponendo a voce una sentenza motivata, ma avvolgendo la sua coda tante volte quanti sono i cerchi infernali in cui l’anima deve scendere per raggiungere quello della propria pena. Innanzi a lui le anime sono spinte a confessarsi senza opporre resistenze. È chiaro che Minosse rappresenta un’istanza superegoica arcaica, primitiva nel suo modo di procedere: sa solo esprimere condanne, senza spiegarne il motivo e senza che compaia il minimo sforzo di aiutare a prevenire l’azione peccaminosa o a redimersi. Rappresenta un genitore non empatico (o vissuto come tale) interiorizzato. Di fronte a tale “giudice” si rivela tutta la forza della “lussuria” (nell’accezione che Dante dà prevalentemente a questo termine: vedi più sotto), che, benché riconosciuta colpevole dai dannati stessi, pure persiste anche dopo la condanna. È probabile che qui ci sia la spiegazione del perché i “lussuriosi” divennero tali: di fronte a tale condanna irremovibile della loro vita sentimentale e pulsionale, a questi peccatori non restò altra possibilità diversa dalla sfida all’autorità, allo scopo di sopravvivere.]
Minosse, come già aveva fatto Caronte all’ingresso dell’Inferno, cerca di dissuadere Dante dall’entrare nel cerchio dei lussuriosi:
pag. 66
“O tu che vieni al doloroso ospizio”
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
“guarda com’entri e di cui tu ti fide:
non t’inganni l’ampiezza dell’entrare!”
[Coerente con il suo carattere di giudice implacabile e ottuso, incapace di comprensione umana, Minosse ritiene inconcepibile che ci si accosti ai dannati, cercando di comprenderne la natura, senza cadere nel loro stesso peccato. Se si cerca di farlo, a suo giudizio, ciò non può che essere frutto di un inganno: la soglia oltre la quale ci sono i peccatori e il peccato è troppo agevole da varcarsi; e chi consiglia di farlo non è degno di fiducia.]
Virgilio risponde a Minosse con le stesse parole che aveva rivolto a Caronte:
pag. 66
E ‘l duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”
[L’onnipotenza del Dio cristiano (la forza di un oggetto interno idealizzato, infinitamente caritatevole) non può essere contrastata da un giudice irremovibile e dal suo ottuso moralismo.]
Dante può, così, entrare nel cerchio dei lussuriosi:
pag. 66, 67
Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
………………………………………..
La bufera infernal che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina:
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti alla ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
[Questi “peccatori carnali” “la ragion sommettono al talento”, cioè al desiderio. La ragione, a giudizio di chi scrive, sta ad indicare le facoltà umane superiori: non solo la razionalità, ma anche quelle qualità che sono poste sotto il suo dominio, ossia la sensibilità e le capacità introspettivo-empatiche che rendono l’individuo capace di provare i sentimenti più delicati. Tutto questo, nei lussuriosi danteschi (almeno in Paolo e Francesca), non sparisce sotto l’urto delle pulsioni istintuali, ma viene posto al loro servizio. Più che “lascivi” potrebbero per lo più esser definiti “passionali”: appartengono ad una condizione che, non più “spirituale”, non è nemmeno definibile propriamente come “licenziosa”. La “bufera infernal” (la forza della passione) non dà pace a queste anime dannate. Quando si trovano di fronte alla “ruina” (suppongo al crollo delle loro misure difensive, ossia ad un ostacolo invalicabile, opposto dalla realtà, alla loro passione), i “lussuriosi” si dimostrano incapaci di ravvedimento: provano compianto per la perdita di ciò che non può più spingerli oltre, e rabbia (bestemmiano) verso l’essere onnipotente che li ha privati della loro risorsa irrinunciabile.]
L’impossibilità di trovare requie è resa dal Poeta in modo molto efficace. La bufera infernale:
pag. 67
di qua, di là, di giù, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
[I lussuriosi, avendo perso un contatto con Dio (con l’oggetto interno idealizzato soccorrevole, in loro inesistente) sono privi di speranza, ossia di una delle virtù “teologali”, che da Dio emanano.]
Virgilio addita a Dante numerosi personaggi che fanno parte della schiera dei lussuriosi: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano: tutti amanti infelici che sfidando il biasimo altrui, perché spinti dalla passione, tradirono i rapporti di fiducia coi propri simili. Due lussuriosi attirano particolarmente l’attenzione di Dante:
pag. 71
I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ‘nsieme vanno,
e paiono sì al vento esser leggieri.”
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno.”
[Dante è colpito dallo “andare insieme” di Paolo e Francesca (uniti anche nella dannazione) e dallo “esser leggieri” al vento: sembrano abbandonarsi senza opporre resistenza alla corrente della passione, incuranti persino del loro esser sospinti all’urto contro la “ruina”. Sembra che, per i due amanti, il sentimento sia una forza incontrastata. Proprio per questo, Virgilio consiglia a Dante, allo scopo d’indurli a parlare, di chiedere di farlo “in nome del loro amore”, l’unico argomento per loro convincente.]
Paolo e Francesca si avvicinano ai due Poeti:
pag. 71
Quali colombe dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir della schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
[Un analista che sappia fare il suo mestiere non saprebbe rendere meglio, in modo non riduttivo, l’idea di ciò che spinge queste due anime ad avvicinarsi per parlare del loro amore: una pulsione sessuale (qui simbolicamente rappresentata dall’unione della colomba col suo “dolce nido”) ingentilita da teneri sentimenti e da espressioni poetiche, ossia dal suo coniugarsi con elementi che nascono dalla sublimazione. L’energia istintuale rimane intatta, ma la pulsione esce del tutto dalla sua dimensione animalesca.]
Francesca così si rivolge a Dante:
pag. 71, 76
“O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso
……………………………………………
[Francesca ha colto in Dante cortesia e bontà (lo vede “grazioso e benigno”); ha anche riconosciuto in lui sentimenti di pietà, ed è questo che la induce a parlare con sincerità e fiducia. Il Poeta dà prova, qui come altrove, di ciò che oggi chiameremmo “distanza ottimale”: s’avvicina e s’immedesima nei sentimenti di queste povere anime quanto basta per provarne compassione e umana comprensione (ed è questo che crea immediatamente un rapporto di confidenza); nello stesso tempo, però, ciò non lo induce ad essere indulgente: la “giustizia divina” non è messa in discussione. Da un punto di vista “laico” potremmo dire che non può essere ignorato il prezzo doloroso che costoro devono pagare come conseguenza delle loro scelte. Dante non ha nulla in comune con certi terapeuti “buonisti” del giorno d’oggi. Costoro, nel desiderio di “assolvere” i malati considerandoli pure e semplici “vittime”, omettono di porli di fronte alle loro responsabilità.]
Francesca, passando a parlare di sé stessa, innanzi tutto rende noto a Dante il luogo dov’è nata:
pag. 76
Siede la terra dove nata fui
sulla marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
[Con queste parole, Francesca da Rimini, anziché pronunciare il nome della sua città natale, parla della foce del Po, vicino a cui tale località si trova. Qui c’è la marina dove il fiume, dopo essersi progressivamente ingrandito unendo, alle sue, le acque dei suoi affluenti, cessa di scorrere e “trova pace” fondendosi col mare. Sembra una metafora della sua vita, la cui meta finale fu l’unione indissolubile con l’oggetto del suo amore.]
Intuendo quel che Dante vorrebbe sapere, l’anima della donna gli parla di come nacque il suo sentimento per Paolo:
pag. 76
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense.”
Queste parole da lor ci fur porte.
[L’amore nasce e cresce rapidamente in un “cuore gentile”, ossia incline ai sentimenti più teneri e delicati. Siamo, quindi, ben lontani dalla “lascivia”, vale a dire la propensione a soddisfare i propri istinti animaleschi. Tuttavia, già all’inizio della sua narrazione, Francesca allude ad un elemento di violenza. I commentatori ci hanno offerto interpretazioni fra loro discordanti delle parole: “e ‘l modo ancor m’offende”. Per alcuni si riferiscono alla brutalità con cui il marito geloso le tolse la vita, il che legò per sempre a lei la fama di colpevole d’adulterio incestuoso. Per altri, tali parole si riferiscono alla proposizione principale (“amor… prese costui della bella persona”) ed indicano il violento impatto coi sentimenti di Paolo; un sentimento d’intensità tale da costringerla a riamarlo ed a procurarle un tormento perenne (“amor ch’a nullo amato amar perdona”). Non mi risulta che i commentatori abbiano considerato l’ipotesi di un significato ambiguo e sovradeterminato, che allude sia alla intensità dei sentimenti del suo amante, sia alla violenta reazione del marito Gianciotto. Alimentata da diverse fonti, è la violenza delle passioni proprie ed altrui (cioè non governate dall’empatia) che rende un sentimento sublime veicolo di un adulterio incestuoso. Ho qui in mente le osservazioni di Kohut sulla natura dell’amore edipico: è soprattutto l’assenza di comprensione empatica, da parte dei genitori, che dà origine a desideri incestuosi. Questi, secondo l’Autore, non sono presenti fin dall’inizio e in ogni caso, ma rappresentano una reazione al mancato riconoscimento ed alla frustrazione delle aspirazioni sentimentali. Le responsabilità di Gianciotto non sono ignorate: lo attende “Caina”, ossia la prima zona del cerchio IX, destinata ai traditori dei parenti. Gianciotto, accecato dalla gelosia, “tradì” la moglie Francesca, privandola della sua comprensione. Quella “una” morte pare alludere ad un’unione indissolubile, una sorta di fusione. Ciò viene sottolineato anche da Dante, il quale dice “queste parole DA LOR ci fur porte”, anche se, oggettivamente, aveva parlato la sola Francesca.]
Alle parole di Francesca, il Poeta china il volto, commosso ed assorto nei suoi pensieri:
pag. 78
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: “Che pense?”
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”
[La “immersione empatica” di Dante nel mondo di questi amanti è d’intensità tale da portarlo a ricostruire (come se li vivesse anche lui, in prima persona) l’evolversi dei “dolci pensieri” e dei desideri che li portò al “doloroso passo”. La moralità del Poeta è inflessibile, ma non lo porta ad un puro e semplice giudizio di condanna, che escluderebbe ogni forma di comprensione umana. Dante conosce molto bene i sentimenti ed i pensieri di chi è profondamente innamorato, ma questo non gli consente d’ignorare che il passaggio all’adulterio è foriero di dolore, come se la pena fosse già implicita nello stesso peccato.]
Avendo compreso la profondità e la dolcezza dei sentimenti di Paolo e Francesca, Dante vuole ora capire come avvenne che i due innamorati li rivelassero l’uno all’altra:
pag. 78
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martiri
a lacrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancillotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
quel giorno più non vi leggemmo avante.”
[Preme a Dante sapere come fu possibile, a Paolo e Francesca, sconfinare nell’adulterio incestuoso partendo da “dolci pensieri” e da desideri “dubbiosi”, ossia esitanti e bisognosi, per definirsi, d’essere come rispecchiati dagli analoghi desideri dell’altro/a. Qui l’interesse del Poeta è identico a quello del clinico: come si può, partendo da una sana esperienza puramente sentimentale, passare ad atti o desideri incestuosi, simbolici o reali, consapevoli o inconsci, ma comunque malati e portatori di malattia? Una prima risposta Dante l’aveva già data, per bocca di Francesca, dicendo “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”: un desiderio intenso, non contenuto, da parte di una persona da cui si dipende (un genitore simbolico o reale) è capace di “contagiare” e come ipnotizzare chi si trova nella posizione di figlio/a. In secondo luogo, c’è un desiderio di auto-punizione che non si sa se preceda o accompagni l’atto “peccaminoso”, facendo coincidere il “delitto” col “castigo”: la pena è il sentimento di “miseria”, provocato dall’atto stesso, che rende amaro e doloroso il ricordo della felice esperienza sentimentale. Infine, c’è una diabolica convergenza fra la forza delle pulsioni, che domina la passione, e un’istanza superegoica arcaica, che non aiuta a prevenire l’atto colpevole, ma sa solo punirlo addirittura provocandolo: i due si trovano insieme “senza alcun sospetto” di quel che potrebbe avvenire, pur essendo “soli” ed impegnati nella lettura di un romanzo che parla di un amore simbolicamente incestuoso. Un ultimo fattore in causa è rappresentato dalle deboli capacità di sublimazione di Paolo e Francesca: da quando la fantasia sconfinò nell’atto reale, il romanzo di Lancillotto e Ginevra fu messo da parte e dimenticato.]
Di fronte all’umana debolezza, che ciascuno di noi può riconoscere, almeno in tracce, nel proprio animo, Dante è sopraffatto dalla commozione e dal sentimento di pietà e, ancora una volta, sviene:
pag. 79
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;
e caddi come corpo morto cade.
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