Hume, Ricerca sull’intelletto umano
Ciò che colpisce di questa frase di Hume, noto come esponente della scienza illuminata e della tolleranza, è il fatto che ci si avvicini ad una biblioteca con l’intento di selezionare, eliminare e distruggere, anziché di capire, utilizzando un criterio “scientifico”come guida.
Questo approccio ci tocca particolarmente in quanto, come psichiatri che lavorano nei servizi pubblici, abbiamo quotidianamente a che fare con questioni complesse che difficilmente possono essere quantificate e anche se lo fossero ci si chiede se la quantificazione avrebbe un senso.
Ci riferiamo alla miriade di esperienze quotidiane che riguardano il rapporto umano con i pazienti e con i familiari grazie alle quali le persone spesso stanno meglio. Si tratta di un bagaglio di pratiche e di storia difficile da comunicare e da trasmettere e che non ha senso accantonare solo perché non può essere fatto passare sotto le forche caudine o adattato al letto di Procuste dei criteri di pubblicazioni delle riviste accreditate a livello internazionale. D’altra parte basta ascoltare le opinioni dei pazienti e dei familiari per scoprire che ciò che viene maggiormente richiesto e apprezzato sono fattori legati alla relazione umana, come la disponibilità, l’accessibilità, la continuità nel rapporto piuttosto che l’applicazione di tecniche specifiche (Buscaglia et altri, 2004).
In questo senso notiamo che la necessità della psichiatria di rafforzare il suo status scientifico ha comportato uno spostamento sempre più netto verso un modello che ha nell’EBM il suo riferimento principale.
Crediamo che valga la pena riflettere con attenzione, al di là delle mode che periodicamente vengono alla ribalta per poi essere sostituite da altre e del rischio di essere tacciati di oscurantismo, sentimentalismo e di scarso spirito scientifico, sul valore dell’EBM e sulle ricadute che l’EBM ha sulla pratica clinica e sulla programmazione dei servizi psichiatrici.
La sensazione spiacevole di veder non valorizzata se non bruciata (per tornare alla frase di Hume) una ricchezza di esperienze cliniche ci ha evocato un episodio curioso legato all’uso del navigatore satellitare. Avevamo impostato lo strumento per raggiungere la nostra destinazione e ci siamo accorti che ci indirizzava pervicacemente in una direzione opposta a quanto segnalato dalle cartine geografiche, dai segnali stradali e dal senso dell’orientamento. Indipendentemente dal motivo dell’errore, risultava evidente che se ci fossimo in partenza privati delle altre forme di informazione, fidandoci esclusivamente di questo mezzo, non avremmo avuto la possibilità di correggere la rotta e ancor prima di accorgerci di star andando nella direzione sbagliata.
Recentemente ha avuto un certo eco nell’opinione pubblica la vicenda di due turisti svedesi che sono entrati nell’ufficio turistico di Carpi chiedendo dove fossero i faraglioni. Impostato il navigatore su “Carpi” anziché “Capri”, ignorando ogni informazione derivante dai loro sensi, si erano trovati in piena pianura padana, sotto il solleone di agosto, credendo di essere su un’isola del Sud Italia.
Qualche tempo prima a Gillingham nel Dorset quattro attori di una compagnia teatrale sono stati salvati a stento dopo che il navigatore ha fatto precipitare il loro furgoncino nel letto di un fiume in piena.
Sia ben chiaro che utilizziamo il navigatore come una metafora e assolutamente non ne misconosciamo l’utilità, come non abbiamo l’intenzione di entrare nel merito della specifica natura degli errori che si sono verificati.
In entrambi i casi l’utilizzo di un unico strumento, seppur sofisticato, con l’esclusione di altri metodi di orientamento, si è rivelato fonte di abbagli grossolani e persino grotteschi.
Il rischio non è solo quello di privarsi di una fetta importante di informazioni, ma soprattutto quello di prendere direzioni sbagliate sottovalutando gli strumenti di correzione. Ad onor del vero l’EBM non dice che queste conoscenze “non evidence based” siano inutilizzabili, ma piuttosto instaura una gerarchia di valori, dando la preminenza a ciò che è dimostrato secondo i suoi criteri.
Tornando all’esempio del navigatore, avremmo dovuto dare un peso differente alle varie fonti di informazioni, mettendo in ordine crescente questi elementi:
– intuizione, senso dell’orientamento, percezione del paesaggio (corso dei fiumi, posizione delle montagne..), nozioni di geografia apprese sui banchi di scuola.
– dialogo e discussione tra i viaggiatori, che confrontano e condividono le reciproche impressioni e nozioni
– pietre miliari e cartelli stradali, tradizionale metodo, già in uso in epoca romana e medioevale
– cartina geografica cartacea, non informatizzata e spesso non particolarmente aggiornata
– indicazioni del navigatore satellitare, dotato di cartine stradali informatizzate
Tutti questi strumenti sono di per sé ragionevoli e razionali e non hanno nulla di esoterico o di magico. Considerarli obsoleti comporterebbe, in un mondo ridotto veramente all’osso, avere una e una sola direzione da seguire, volenti o nolenti, giusta o errata che sia.
Proseguendo nella metafora, va sottolineato che gli obiettivi delle ricerche scientifiche sono solitamente più complessi di un punto fisico di una cartina geografica, la cui esistenza è incontrovertibile. In psichiatria questo discorso è ancora più evidente e il rischio è quello non solo di andare nella direzione sbagliata, ma anche di raggiungere un obiettivo se non inesistente, per lo meno fuorviante.
Se quindi il navigatore nella nostra pratica clinica può corrispondere alle linee guida e agli strumenti EBM, le altre fonti di informazione possono essere equiparate alla letteratura psichiatrica classica, alla pratica clinica esistente, allo scambio con colleghi e pazienti, al senso comune e a tutti i dati che provengono dal contesto, nelle sue componenti culturali, emotive ed umane.
Abbiamo la netta percezione che questa gerarchizzazione delle fonti di informazione sia in realtà una progressiva spoliazione del “mondo della vita”, considerato esclusivamente come qualcosa da eliminare in quanto fonte di distorsione, disturbo e confusione.
Altri autori hanno parlato su questa base di fascismo (Holmes et altri, 2006). A noi pare più adeguato il termine totalitarismo (Arendt, 1951).
Se si adotta questo criterio di spoliazione e di riduzione per arrivare a definire la “verità”, come non pensare ai meccanismi deumanizzanti operati nelle istituzioni totali e nei campi di sterminio?
Tutto ciò non è solo un mero esercizio teorico, ma ha anche pesanti ricadute pratiche, che sono sotto gli occhi di tutti e che rafforzano la componente totalizzante del modello.
Ci riferiamo alla forte influenza sui criteri di pubblicazione delle riviste accreditate a livello internazionale di tutto ciò che non è evidence based (quale il lavoro di équipe, il lavoro con il territorio, i contatti domiciliari e con il contesto della persona), al peso che l’EBM ha nei criteri con cui vengono finanziati i servizi sanitari. Si sono progressivamente ridotti i lavori di tipo clinico a favore degli articoli di stampo epidemiologico. Un’altra osservazione facilmente verificabile è che spesso chi si occupa di EBM non fa attività clinica o la fa in modo parziale. Ciò ha comportato una sciagurata divaricazione tra operatività clinica e ricerca, con accuse reciproche tra clinici ed epidemiologi. I clinici imputano agli epidemiologi di fare ricerche riduttive e in fondo inutili, mentre gli epidemiologi accusano i clinici di essere culturalmente arretrati e pieni di pregiudizi.
La gerarchia delle informazioni, che prevede un peso maggiore delle evidenze rispetto alle esperienze, di fatto comporta, come nel caso del navigatore, l’idea che esista una verità unica, oggettiva che se non si coglie appieno è solo per l’imperfezione dello strumento, che quindi va continuamente affinato a questo scopo.
Ci siamo chiesti il motivo che porta il “modello EBM” a trascurare i dati grezzi, intesi in fondo come la vita nella sua stupefacente complessità, nella fiducia un po’ ingenua dell’esistenza di una realtà oggettiva che non si coglie fino in fondo solo per i limiti degli strumenti scientifici e che porta a sostenere che se qualcosa non è misurabile, lo sarà sicuramente in futuro.
E’ una sorta di ossessione metodologica che mira all’eliminazione della componente umana e che, portata alla sua coerente realizzazione, spingerebbe ad escogitare studi non a doppio, né a triplo, né a quadruplo cieco, in un’escalation finalizzata a separare non solo il ricercatore dal paziente, ma anche l’ideatore della ricerca dal ricercatore che la conduce.
Se esistesse un mondo dominato totalmente dall’EBM non ci sarebbe spazio per l’evoluzione scientifica, che spesso, come tutti sappiamo, procede per osservazioni casuali, contaminazioni tra discipline diverse, errori, tentativi e botte di “fattore c”. Privarsi di tutto ciò e soprattutto intimidire e mortificare l’intuizione clinica costituirebbe uno sciagurato impoverimento di opportunità e di conoscenze.
I fanatici di questo modello finiscono per essere più realisti del re, presentandosi come unici sostenitori e propagatori del vero metodo scientifico. Si connotano in questo senso come veri e propri missionari, che diffondono il verbo e mirano ad una purificazione ottenuta attraverso l’eliminazione di tutte le componenti che non derivano da un unico criterio.
E’ un’osservazione che ci pare particolarmente centrata, perchè fa emergere, nell’enfasi con cui spesso viene presentato questo modello, una componente “religiosa”, se si intende come religione “un insieme di convinzioni etiche, morali e pratiche, che costituiscono un sistema di fede e di culto”, cioè come un’etica religiosa (Merton, 1967). Lo spirito critico può essere rivolto contro l’EBM stessa, cercando di comprendere le origini e le basi di un atteggiamento settario. In questo è d’aiuto ricorrere a Weber e al suo studio sull’etica protestante, e in particolare calvinista e puritana. Ci avvaliamo delle sue definizioni per quanto riguarda tale etica e di numerose citazioni.
Come è noto il calvinismo si basa sul concetto di predestinazione, espresso dagli articoli della “Westminster Confession” del 1647.
L’uomo a causa della sua caduta in stato di peccato, ha completamente perduto la capacità di volere qualsiasi cosa che sia spiritualmente buona o apportatrice di salute, così che, completamente deviato dal bene e spiritualmente morto nel peccato, non è capace di convertirsi e neppure semplicemente di prepararsi alla conversione.
Dio per manifestare la sua maestà ha predestinato alcuni uomini alla vita eterna ed altri ne ha preordinati alla morte eterna. Coloro che sono chiamati alla vita Dio li elesse secondo il suo eterno e immutabile disegno e non già per la previsione della fede o delle buone opere, o per qualche cosa d’altro derivato dalle sue creature. Piacque a Dio, secondo l’imperscrutabile consiglio del suo volere, di trascurare il resto del genere umano, condannandolo al disonore e all’ira per il suo peccato, a magnificazione della sua divina giustizia. Ogni creatura è divisa da Dio da un abisso insuperabile e merita dinnanzi a Lui solo la morte eterna. Ammettere che merito o colpa umana concorra a determinare la salvezza equivale a considerare mutevoli per influenza dell’uomo le decisioni assolutamente libere di Dio, che ha disposto ogni più piccola cosa nel Cosmo.
Nel suo pathos inumano tale dottrina ebbe come conseguenza una straordinaria solitudine interiore del singolo individuo: ognuno era avviato a seguire da solo la sua strada e nessuno lo poteva aiutare, non la comunità religiosa (come nel Cattolicesimo), non i sacramenti, e neppure Dio stesso.
Il Puritanesimo considerò magia tutti i mezzi basati sulla tradizione, sui riti, sulla musica e sull’arte sacra, sulle preghiere. Ripudiò perfino ogni traccia di cerimonie religiose sulla tomba e seppellì i suoi cari senza canti né suoni, per non far sorgere superstizione di alcun genere. L’assoluta lontananza da Dio e l’assoluta mancanza di valore di ciò che è umano imponevano la svalutazione totale dei sensi e dei sentimenti, perché inutili alla salvezza e fonte di illusioni e di superstizioni.
La dottrina dell’elezione, anche quando perse la sua efficienza di dogma, impresse chiare tracce nella condotta e nella concezione della vita. Ad esempio compare nella diffida ad aver fiducia nell’animo e nell’amicizia degli uomini. Si consiglia una profonda diffidenza anche verso l’amico più intimo e addirittura si predica di non confidarsi con nessuno. Dio deve essere l’unico confidente. Un predicatore dice che ogni mattina uscendo tra la gente si deve sapere di andare in una selva selvaggia piena di pericoli. Nel Pilgrim’s Progress di Bunyan, la consapevolezza di vivere nella città della perdizione porta il protagonista ad abbandonare moglie e figli che si aggrappano a lui, tappandosi le orecchie con le mani, al grido Life! Eternal life!, e a liberarsi da ogni legame umano. Ogni relazione puramente sentimentale, cioè non condizionata razionalmente, tra uomo e uomo, cade facilmente nel sospetto di essere una deificazione della creatura.
Il Calvinista si esalta al pensiero che Dio voglia nell’organizzazione del mondo, e quindi anche nell’ordinamento sociale, ciò che oggettivamente è più rispondente alla sua maggior gloria, non la creatura come fine a se stessa, ma l’ordinamento delle creature subordinato al volere di Lui. L’azione si dirige tutta verso una razionalizzazione del mondo (vedi le conseguenze nell’ecologia).
L’unico modo che aveva il singolo per sopravvivere in questa dottrina era ottenere la certitudo salutis, cioè la certezza della salvezza, che derivava dalla coscienza dell’adempimento del proprio dovere. Era importante individuare segni certi per riconoscere l’appartenenza agli eletti e non si poteva dar credito alla semplice testimonianza personale, perché i sentimenti e gli stati d’animo, per sublimi che appaiano, sono fallaci. La fede deve esperimentarsi nei suoi effetti oggettivi per poter servire come base sicura alla certitudo salutis, deve essere una fides efficax. L’operare non è, come nel Cattolicesimo, un graduale accumulare di singole azioni meritorie, ma un controllo sistematico di se stessi per verificare se si è salvati o dannati. L’elezione va verificata cercando con costante vigilanza i sintomi in se stessi e negli altri – sintomi il più possibile obiettivabili e quantificabili. Il successo è una prova indiretta della salvezza; d’altra parte si può parlare di successo soltanto se l’individuo si pone degli obiettivi, cerca di raggiungerli secondo procedure e linee-guida metodiche e razionali, e poi valuta in termini quantitativi, possibilmente monetari, se li ha raggiunti.
Per il Cattolicesimo la grazia della Chiesa stava a disposizione come un compenso per la deficienza del singolo. Il Dio del Calvinismo invece esigeva una santità di opere elevata a sistema. La prassi etica (e non solo) fu trasformata in una condotta di vita metodica e conseguente. Poiché solo in una trasformazione fondamentale del senso della vita, in ogni singola ora e in ogni singola azione, si poteva provare l’efficienza della grazia, la vita del santo era indirizzata a un unico fine, e nel suo svolgimento era in tutto e per tutto razionalizzata e dominata da un esclusivo punto di vista. Il controllo costante di se stessi permetteva di padroneggiare gli affetti e le passioni e di distruggere lo spregiudicato e impulsivo godimento della vita. Il concetto di idolatry veniva esteso a tutte le gioie dei sensi, se non giustificate da motivi igienici. Gli Eletti erano sicuri della propria salvezza e perciò nei confronti dei dannati o presunti tali non provavano un’indulgente disposizione ad aiutare ma odio e disprezzo come contro nemici di Dio. La Bewährung, intesa come esperienza e comprova della salvezza, era costantemente verificata con controlli, tramite diari religiosi in cui i progressi fatti venivano riportati sotto forma di tabelle e di statistiche. Non ci si può riconciliare con Dio, l’uomo deve mantenere la consapevolezza della propria condizione di abbandono e di derelizione, ma non al fine impossibile di procurarsi la salvezza, ma per rispecchiare nella sofferenza la condizione dell’essere umano. Svaghi, affetti, attività artistiche sono visti come distrazioni e evasioni colpevoli da quest’unica verità (Williams, 1972). Di qui la diffidenza per tutto ciò che è facile, piacevole, comodo, abituale, spontaneo, naturale.
Nella dottrina della predestinazione è presente la convinzione che esista una legge immutabile: la legge è là e deve essere conosciuta. La predestinazione è un “fatto”, nel senso che questa parola ha nelle scienze naturali; c’è fede nella validità di un unico postulato di base.
D’altra parte il puritanesimo condivide con il Cattolicesimo medioevale l’idea che questo mondo sia malvagio, ma il secondo suggerisce di ritirarsene, il primo obbliga a vincere le tentazioni attraverso l’incessante e costante operosità all’interno del mondo stesso, in una forma di ascetismo laico. Il puritano si pone con disperata insistenza la domanda: come posso sapere se sono tra gli eletti? Il peso della salvezza è passato dalla Chiesa all’individuo e questa responsabilità schiacciante può essere alleviata solo attraverso la giustificazione ottenuta con occupazioni legittime che danno risultati comprovati e comprovabili (Merton, 1967). L’accordo con il mondo rimane intollerabile. Il mondo deve essere conquistato e controllato e tale costrizione viene esercitata su tutti gli aspetti della vita. Come dice Weber, una forma di religione piuttosto comoda viene sostituita da una nuova, totalizzante, che penetra in tutte le sfere della vita. Non un eccesso, ma un difetto di dominio religioso sulla vita è ciò che trovano condannabile i riformatori. Tutta la vita deve essere improntata a un sistema e a un metodo e gli scopi da raggiungere sono privi di qualsiasi aspetto eudemonistico o soltanto edonistico. Ogni cosa va vagliata razionalmente, la ragione assume un’autorità cogente, la scienza diventa un dovere imperativo. Nulla va lasciato così com’è, o creduto prima di essere sottoposto a un esame.
In base a questa visione la tradizione, l’autorità, la cultura e la storia sono da guardare con sospetto, non sono apportatrici di verità ma di inganno; la verità si trova all’origine, prima che al testo sacro siano state sovrapposte interpretazioni e distorsioni. In base al principio della sola scriptura viene istituita la Bibbia come solo riferimento, togliendo le incrostazioni successive. L’idea di un unico criterio come fonte di conoscenza è ripresa a livello scientifico e porta all’espulsione dei saperi, riuniti nel Rinascimento sotto la definizione di studia humanitatis, che non possono essere ricondotti alla nuova idea di scienza esatta.
I simboli, le usanze, i riti, le immagini vengono considerati come superstizione da combattere. Le immagini e i luoghi sacri sono definiti pagani e inizia una sistematica distruzione (Sheldrake, 1990). Le tombe dei santi sono violate, le reliquie disperse, le vetrate policrome frantumate, gli affreschi raschiati o imbiancati in una sorta di cromofobia (Pastoureau, 2008). Il mondo spirituale viene confinato all’interno dell’uomo, mentre il mondo materiale diventa neutro e indifferente, governato da leggi impersonali e disponibile per qualsiasi manipolazione. Qualsiasi cosa abbia un effetto estetico, emotivo, suggestivo, o possieda un valore sacro, anche nel senso più semplice di essere venerato e conservato per motivi affettivi e tradizionali, deve essere abolito perché superstizioso, magico, idolatra. Si tratta di una sorveglianza permanente, che non deve mai essere allentata, perché gli iconoclasti si rendono conto che l’eliminazione fisica dei simulacri non basta, nell’interiorità i fenomeni si ripresentano all’infinito. Calvino considera questa tendenza un difetto fondamentale: “Come l’acqua trabocca da ogni fonte piena, così un’immensa schiera di dei si sprigiona dalla mente umana.”
Senza alcuna remora la Natura deve essere indagata con metodi estremamente attivi. Secondo le parole di Francesco Bacone, che si serve di metafore derivate dalle tecniche adottate durante gli interrogatori delle streghe, la natura “si manifesta meglio sotto tortura e con l’uso di artifici (meccanici) che quando viene lasciata a sé. Va “asservita”, “resa schiava” e “imprigionata”. Deve essere “costretta a uscire dal suo stato naturale e spremuta e modellata.” (Sheldrake, 1990)
La desacralizzazione e deanimazione si estendono a tutti i luoghi, non solo naturali ma anche umani (storici, religiosi, urbani), trasformandoli di fatto in nonluoghi.
Come ha notato Augé, i luoghi di vita sono identitari, relazionali e storici, nel senso che possiedono un significato per l’individuo, rappresentano il centro di relazioni reciproche condivise e hanno una stabilità e una continuità. Sono caratterizzati da itinerari che si intersecano in crocevia in cui gli uomini si incontrano, si riuniscono e si parlano, hanno centri dove si trovano ricordi e monumenti del passato che rappresentano la trasmissione tra le generazioni e che sono riconosciuti come ancora vivi nel presente. L’individuo ha la sensazione che gli preesistano e che gli sopravviveranno. La modernità non integra ma distrugge ciò che esisteva in precedenza, crea spazi che non si possono definire né identitari né relazionali né storici, dove l’individuo si trova solo in una forma particolare e moderna di solitudine. Sia l’ambiente che il soggetto sono svuotati di ogni contenuto e senso in modo sistematico e generalizzato. Se i luoghi creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria. Nei nonluoghi l’individuo viene identificato all’entrata tramite mezzi di riconoscimento, una volta entrato interagisce solo con dei testi (cartelli, distributori, display), senza altri enunciatori umani. Le parole quasi non c’entrano più. Nel nonluogo l’utente è sempre tenuto a provare la sua solvibilità o più in generale la sua innocenza. E’ privo delle sue determinazioni abituali, è ridotto all’unico ruolo di utente, in un eterno presente, coesiste con individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre, in una specie di immensa parentesi, al di fuori di qualsiasi società organica.
Nel nonluogo si può vedere la realizzazione dell’ideale puritano:
– distacco dal mondo esterno considerato come inutile, malvagio, apportatore di tentazioni magiche e idolatre, dalla tradizione portatrice di falsità, idolatria, dai rapporti umani, parimenti portatori di tentazioni, perdita di tempo, fallacia, da se stessi per gli stessi motivi
– solitudine totale, derivante dal fatto che sono interdetti i rapporti di cui sopra
– contrattualità come unica modalità di relazione, in quanto ordinata, prevedibile, regolata da leggi, al riparo dalle insidie della spontaneità. Qualsiasi attaccamento è visto come deificazione della creatura e come ostacolo alla totale mobilità resa necessaria dalla “razionalizzazione” del lavoro e del mondo e perciò da svilire come “irrazionale”, da combattere e da eliminare.
La scienza moderna nasce perciò non dal nulla, ma da una violenta polemica antimagica (De Martino, 1948). Non solo la Natura sia inorganica che organica deve essere spogliata da qualsiasi aspetto di animazione e vitalità, ma anche l’uomo e le sue produzioni culturali devono essere interpretati con criteri meccanomorfi e non antropomorfi. Dal punto di vista metodologico le garanzie di obiettività non sono mai sufficienti, si richiedono sempre nuove garanzie per evitare l’introdursi di elementi soggettivi perturbatori. Ma è chiaro che la serie dei controlli non può essere chiusa da una garanzia esterna e assoluta (che non esiste) e che ricompare sempre il dubbio, espresso dall’interrogativo latino Quis costudiet custodem?
Lo scopo finale, poi, permane sempre nello sfondo, più o meno esplicito, specie quando si tratta di argomenti in cui è forte la presenza umana (etnologia, storia, psicologia), e cioè lottare contro la superstizione, rischiare le menti, purgarle una buona volta dalle tenebre dell’errore (De Martino, 1948). Si tratta di una forma di monoteismo metodologico, secondo il quale esiste un unico sapere, quello “scientifico” che ha valore cogente assoluto e che deve essere esportato e imposto con modalità missionarie, secondo una logica che implica la commensurabilità di tutti gli elementi della realtà e la determinabilità del tutto. “L’applicazione di questo criterio non è disgiunta da certi effetti terroristici, velati o espliciti: siate operativi, cioè commensurabili, o sparite. “ (Lyotard, 1979) La scientificità (o piuttosto lo scientismo), avendo i mezzi per farsi realtà, è anche in grado di amministrare le proprie prove e da ciò deriva la sua credibilità. La sua aspirazione a una verità unitaria e totalizzante si presta a una pratica unitaria e totalizzante.
D’altro canto si sa benissimo che il sapere scientifico non è tutto il sapere (Lyotard, 1979), ma che esistono molti altri tipi di saperi, in cui convergono le idee di saper fare, saper vivere, saper ascoltare, che eccedono l’applicazione del solo criterio di verità, ma che si estendono ai criteri di giustizia, felicità, bellezza. Il soggetto è composto dalle diverse specie di competenze che lo costituiscono in un’unità incarnata.
Lyotard nota acutamente che i saperi di tipo narrativo hanno una certa tolleranza verso il sapere scientifico, mentre non è vero il contrario. “Lo scienziato si interroga sulla validità degli enunciati narrativi (o di altro genere) e constata che non sono stati sottoposti all’argomentazione e alla prova. Egli li classifica come prodotti di un’altra mentalità. Selvaggia, primitiva, sottosviluppata, arretrata, alienata, fondata sull’opinione, sui costumi, sull’autorità, sui pregiudizi, sull’ignoranza, sulle ideologie” (Lyotard, 1979). Si tratta di favole buone per le donne e i bambini. Si tenta di civilizzare, di educare, di sviluppare questo oscurantismo. A partire dalla Riforma la modernità si caratterizza come dominata dall’idea della storia come progressiva “illuminazione”, che si sviluppa in base alla sempre più piena appropriazione e riappropriazione dei “fondamenti” – i quali spesso sono pensati anche come le “origini” (vedi il ritorno alla Bibbia), in modo tale che le rivoluzioni, teoriche e politiche si propongono e si autogiustificano come recuperi e ritorni. Il corso del pensiero è concepito come uno sviluppo progressivo in cui il nuovo si identifica con l’unico valore attraverso la mediazione del ricupero e della appropriazione del fondamento-origine. (Vattimo, 1985). L’esser moderno diventa un valore, anzi il valore fondamentale a cui tutti gli altri vengono commisurati. La modernità in apparenza rifiuta la visione sacrale dell’esistenza, ma la sostituisce con la fede nel progresso, che si costituisce come una ripresa della visione ebraico-cristiana della storia, dalla quale si eliminano i riferimenti trascendenti. Si tratta di una fede secolarizzata e di una fede nella secolarizzazione, di una religione del processo storico, identificato con la fede pura e semplice nel nuovo.
Il rinnovamento continuo diventa necessario per la sopravvivenza del sistema; la novità diventa una routine, non ha più nulla di innovativo ma permette che le cose vadano avanti nello stesso modo. Non è chi non veda la valenza inevitabilmente e necessariamente distruttiva di questo orientamento mentale, che per autogiustificarsi deve sempre trovare territori, idee e pratiche vecchie da eliminare e da soppiantare, e che finisce per diventare poi autodistruttivo, nel senso che si alimenta in modo sempre più veloce della distruzione di ciò che crea, discutendo tutto tranne che le proprie stesse premesse, presentate come le uniche possibili. La condizione finale perseguita è quella della più radicale astoricità, con una riduzione dell’esistenza al presente nudo. Il vecchio, inteso come realtà esistente e pre-esistente, è sempre e comunque un disvalore, da eliminare o perché una zavorra, una falsità, un peso inutile, oppure perché escogitato da un’autorità oppressiva che ha come unico scopo l’ignoranza e l’asservimento. In questo senso si può vedere come l’EBM cerchi di presentarsi come “rivoluzione epistemologica”, come metodo nuovo che mira a individuare il “vero” farmaco”, che si trova al di sotto di tutto, nascosto dalle pratiche tradizionali e dalle incrostazioni della routine.
La verità si trova per eliminazione ed esclusione, piuttosto che per integrazione. In questo senso la natura umana, che va ricordato è inevitabilmente portata al male, alla menzogna e all’autoinganno, si trova eliminando tutte le sovrapposizioni derivanti dai ruoli e dalle appartenenze. Si tratta dell’homo natura, che si arriva a conoscere attraverso progressive tecniche di smascheramento. La nozione di tabula rasa (se non di piazza pulita o di terra bruciata), come osserva Binswanger (1933) non è mai un punto di partenza, ma sempre un punto di arrivo, cioè il risultato finale di una dialettica che restringe e riduce la totalità dell’esperienza umana a una particolare modalità di esperienza. Si arriva alla totale intercambiabilità degli esseri umani, che sono visti come neutri e universali, privi di specificità individuali. L’essenza umana comune si ritrova solo se si risale in qualche modo al di là delle differenziazioni storiche che ci hanno allontanato da essa. “Si faccia il tentativo di esporre alla fame un gran numero di persone estremamente diverse tra loro. Con l’incalzare dell’imperioso bisogno di nutrimento, tutte le differenze individuali svaniranno e al loro posto compariranno le manifestazioni uniformi di quell’unica pulsione insoddisfatta.” (Freud, 1912) Queste parole suonano sinistre in modo profetico, al di là delle intenzioni dell’autore. Il lager, che inevitabilmente richiamano alla mente, sembra essere stato la realizzazione coerente di questa visione, portata avanti senza compromessi né tentennamenti, spogliando le persone di tutto – vestiti, nome, famiglia, storia, legami con il luogo di origine – fino a livellarle e a dare luogo in modo sistematico alla fabbricazione di cadaveri. L’idea implicita in questa visione degli esseri umani è che essi rivelano ciò che realmente sono in condizioni di grande stress, privazione o scarsità, secondo il test di Hobbes, oppure in condizioni di assoluto isolamento da ciò che rappresenta la loro vita abituale, cioè in condizioni “sperimentali”. Tuttavia, come nota Williams (1979) le condizioni di stress e privazione non sono quelle ideali per osservare il comportamento tipico di nessun animale, né per osservare altre caratteristiche degli esseri umani. Hobbes ha in mente l’individuo estraniato da qualsiasi vincolo familiare e comunitario, e anche da se stesso, uscito dalla Riforma, solitario e privato, che non ha piacere alcuno, ma al contrario una grande afflizione nella compagnia degli altri, se non ha il potere di intimorirli, avido soltanto di potere illimitato, in una competizione incessante per raggiungere il successo. Hobbes prepara la migliore base teorica per le ideologie successive, escludendo in linea di principio l’idea di umanità, e di solidarietà, ipotizzando uno stato di guerra perpetua di tutti contro tutti che esula dal contratto umano.
Attraverso il processo di secolarizzazione (Gehlen, 1957) la religione è stata criticata, ma le sue categorie fondamentali sono state tradotte pari pari nello scientismo. Lo scientismo a sua volta, come è noto, è stato utilizzato per giustificare le ideologie totalitarie, che si sono presentate tutte come scientifiche. Tali ideologie pretendono di spiegare tutto sulla base di presunte leggi, secondo una logica coattiva, che impone la sparizione di tutto ciò che non si conforma alle sue premesse e che viene considerato superato e vinto in una competizione con la sola verità possibile. Tutte le vie d’uscita, sia della conoscenza che dell’azione, sono bloccate, tranne che l’unica ordinata e imposta dall’ideologia stessa. Annullamento della pluralità e della differenza, artificialità, assolutizzazione sono le caratteristiche di questa forma di totalitarismo. La visione evoluzionistica rifiuta di considerare e accettare “qualsiasi cosa così com’è” per interpretare tutto come stadio di un ulteriore sviluppo” (Arendt, 1951). Il totalitarismo mira all’eliminazione di ogni tratto non sussumibile sotto una legge universale (nel caso dell’EBM: coesistenza di più metodi e farmaci, vecchi e nuovi, desiderio di contatto umano del malato e del medico ecc.) “Il totalitarismo sostituisce ai canali di comunicazione tra i singoli un vincolo ferreo, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità” (Arendt, 1951). Il processo non deve essere ostacolato dalla libertà e della contingenza, si elabora un “supersenso” che annulla il senso comune. Si deve far rientrare nel sistema l’intera realtà, rendendolo impermeabile alla confutazione da parte della realtà. Se c’è qualche contraddizione (il nuovo farmaco propagandato è peggiore del vecchio o ha effetti secondari gravi e imprevisti), ciò dipende dalla ancora imperfetta applicazione del metodo di per sé perfetto. I fatti sono ordinati in un meccanismo logico che parte da una premessa accertata in modo assiomatico, deducendone ogni altra cosa, procedendo con una coerenza che non esiste affatto nel regno della realtà. Il processo mira all’espansione illimitata, non ha altro fine o obiettivo al di fuori di se stesso. L’assolutezza pretende di annullare tutte le obiezioni della coscienza individuale. Mentre l’autorità tradizionale, sotto qualsiasi forma, politica, religiosa o culturale, mira a ridurre o a limitare la libertà, ma non ad abolirla, il dominio totalitario mira invece a distruggere la spontaneità umana in genere, e non si accontenta affatto di una sua riduzione, per quanto tirannica. Lo scopo che non viene mai perso di vista è il dominio totale, ogni territorio prima o poi sarà annesso. La scientificità ideologica non è più controllata dalla ragione e diventa refrattaria alla fattualità. I motivi personali e le passioni sono banditi, non si mira alla crudeltà ma alla perfetta impersonalità. Nei lager medici e ingegneri, addetti agli impianti delle camere a gas, introducevano continui miglioramenti, volti, oltre che ad accrescere la produttività delle fabbriche di cadaveri, ad accelerare e ad alleviare l’agonia della morte.
Il totalitarismo mira in realtà a rendere superflui gli uomini (in particolare i medici, sostituibili da distributori di farmaci), e aspira a trasformare gli individui in convinti portatori di una legge naturale universale, a cui altrimenti si assoggetterebbero solo passivamente e malvolentieri. Promette di raggiungere gli obiettivi liberandosi dall’azione e dalla volontà dell’uomo, realizzando attraverso procedimenti il più possibile impersonali. Vuole eliminare il mondo preesistente, per liberare e accelerare le forze impersonali dell’evoluzione e della storia. La messa al bando delle contraddizioni fa sì che da una premessa iniziale derivino conseguenze coerentemente dedotte, che diventano però indipendenti da eventuali esperienze contrastanti, che non possono comunicare nulla di nuovo. Una realtà più vera si nasconde dietro le cose direttamente percepibili, ritenute ingannevoli. L’individuo perde la fiducia in se stesso, nei propri pensieri, negli altri e nel mondo. La sola fonte di verità diventa l’ideologia. Le norme elementari dell’evidenza cogente sono le uniche possibili una volta persa la reciproca garanzia costituita dal senso comune, di cui si ha bisogno per fare esperienza e vivere in un mondo condiviso. Distruggendo ogni dialogo tra gli individui, l’ideologia costringe a basarsi su un’unica premessa e a sentirsi perduti se si abbandona la sola base rappresentata da un apparente ragionamento logico. L’estraniazione organizzata contiene un principio distruttivo che nella sua accelerazione diviene infine autodistruttivo.
Uno degli argomenti portati a favore dell’ebm è di tipo etico: si sostiene cioè che sia doveroso cercare di garantire ai pazienti il miglior trattamento possibile. Ma su questo punto esistono perplessità, che sono ben illustrate dal caso che segue.
Si tratta di un caso ben noto, più volte citato in letteratura, che riguarda un nuovo trattamento dell’ipertensione polmonare persistente (PPHS), disturbo che all’epoca aveva un tasso di mortalità di più dell’80% dei neonati colpiti.
Questo trattamento, denominato ECMO (ossigenazione extracorporea membranosa), fu introdotto alla fine degli anni 70. Nell’Istituto in cui veniva praticato, il Michigan Institute, i tassi di mortalità del PPHS, valutati in un periodo di diversi anni, erano inferiori al 20% dei neonati trattati.
I ricercatori furono costretti a compiere uno studio controllato randomizzato (RCT), per ottenere l’evidenza scientifica, nonostante prevedessero che la maggioranza dei pazienti trattati con ECMO sarebbero sopravvissuti e che la maggioranza dei pazienti trattati con il metodo tradizionale sarebbero morti.
Per evitare una strage di bambini degna di Erode, pensarono bene di utilizzare un protocollo modificato, denominato “Play the winner”, che premiava nel reclutamento il metodo che portava alla sopravvivenza del neonato trattato. Il trial si concluse con il reclutamento di 12 bambini, 11 trattati con ECMO, tutti sopravvissuti e 1 trattato con il metodo tradizionale, che morì.
I risultati dello studio non furono considerati convincenti perchè un solo paziente ricevette la terapia convenzionale, per cui si procedette ad un secondo studio, questa volta attraverso una randomizzazione “ortodossa”, che prevedeva però una regola di arresto: il trial doveva finire una volta che fossero avvenute 4 morti sia nel gruppo sperimentale che in quello di controllo.
Come previsto, i 9 pazienti assegnati all’ECMO sopravvissero, mentre dei 10 assegnati al trattamento convenzionale, 4 morirono.
Va sottolineato che anche questo secondo trial, secondo un’interpretazione rigida dei criteri di significatività statistica, aveva fallito l’obiettivo di raggiungere l’evidenza scientifica.
Questa storia ci pare oltre che emblematica assolutamente inquietante, prestandosi a diverse considerazioni soprattutto nel rapporto tra etica e metodologia scientifica.
Ci pare chiaro che nel momento in cui si dà per acquisito che esiste solo un unico criterio (in questo caso un corretto studio controllato randomizzato) per sancire l’evidenza scientifica, viene eliminata qualsiasi obiezione etica. Nel caso ECMO ad esempio la morte di cinque neonati, non solo trovava, in quest’ottica perversa, una giustificazione, ma addirittura risultava insufficiente allo scopo “nobile” di provare oggettivamente l’efficacia di un trattamento che il semplice buon senso aveva già dimostrato.
L’aberrazione etica è svelata anche dalla gestione del consenso informato, utilizzata nell’RCT. Soltanto i genitori di neonati trattati con l’ECMO erano stati informati della partecipazione al trial. I genitori dei neonati trattati con il metodo tradizionale non sapevano che il loro bambino stava partecipando ad uno studio e soprattutto ignoravano che i ricercatori fossero a conoscenza dell’esistenza di un trattamento molto più efficace, che probabilmente gli avrebbe salvato la vita.
Non si può non pensare, su un versante meno drammatico e decisamente ironico, all’articolo di Gordon C S Smith et altri (2003) nel quale gli autori sostengono che l’efficacia del paracadute nel prevenire la morte da cadute da grandi altezze non è provata scientificamente, non essendo stata sottoposta ad una rigorosa valutazione tramite studi controllati e randomizzati. Concludono sottolineando che tutti trarrebbero beneficio se i più radicali protagonisti dell’EBM organizzassero e partecipassero ad uno studio controllato e randomizzato a doppio cieco sull’uso del paracadute.
La dottrina etica a cui si richiama implicitamente l’EBM è l’utilitarismo. Per quanto possa sembrare diametralmente opposto a una visione religiosa e in particolare puritana (o forse proprio perché è diametralmente opposto), conserva radici che si ispirano a questa visione del mondo. Come si è visto, il puritanesimo si propone di cercare l’utilità, intesa come realizzazione pratica di migliorie del mondo. Secondo l’utilitarismo, c’è un unico principio, cioè la più grande felicità per il maggior numero di persone; felicità significa piacere e assenza di dolore; l’unico principio morale – proprio perché è l’unico principio morale – deve essere applicato a ogni situazione particolare. La giustezza o l’erroneità di un’azione dipendono sempre e solo dalle sue conseguenze (Williams, 1972). Non c’è alcuna problematicità: ricercare quanta più felicità possibile è un obiettivo indiscutibile, qualunque altra cosa si debba sacrificare per raggiungerlo.
L’attrattiva principale dell’utilitarismo è che i problemi morali possono essere risolti con il calcolo empirico delle conseguenze. Tutto diviene quantificabile, tutte le difficoltà morali diventano una questione di limiti tecnici nelle possibilità di calcolo. Le differenti esigenze delle parti in causa possono essere convertite in una misura comune in termini di felicità. Il conflitto non è possibile perché tutto può essere ridotto al “principio della massima felicità”, individuando la cosa migliore da fare dopo aver valutato tutte le conseguenze, anche se questo porta a un’azione illecita secondo altri criteri morali. Lo scopo diventa l’eliminazione senza residui dei conflitti di valore; il sistema vuole raggiungere l’efficienza e i conflitti sono un segno di inefficienza. Tuttavia la felicità può essere la misura comune solo se è calcolabile, paragonabile e additiva, trattabile in termini aritmetici. Poiché un tale concetto è in conflitto con altri valori, l’utilitarismo reagisce mettendo in discussione tali valori più problematici, considerandoli irrazionali o residui di età passate. La razionalità utilitaristica diventa il banco di prova per eliminare quel tipo di felicità che costituisce un’obiezione all’utilitarismo. Valori che non sono quantificabili vengono confrontati con valori che sono quantificabili in termini di risorse e di costi-benefici. L’utilitarismo è favorevole a tutto ciò che è quantificabile monetariamente, perchè la quantificazione monetaria è l’unica forma di valutazione ammessa, cioè la commensurabilità di tutti i valori. Il calcolo utilitaristico applicato al caso individuale spesso è moralmente illecito, come la condanna di un innocente considerata necessaria per evitare altri danni. L’utilitarismo ingiunge infatti di pensare esclusivamente in termini di conseguenze calcolabili, senza affidarsi a tradizioni, pratiche consuetudinarie, regole di principio e così via. Se è più utile violare una certa regola della morale tradizionale piuttosto che seguirla, diventa pura irrazionalità il non violarla. Esempio di questo atteggiamento è lo studio di un utilitarista, che dimostra che le esecuzioni pubbliche non devono essere reintrodotte perché non sono utili deterrenti al crimine, senza avere alcun dubbio sul fatto che le esecuzioni non debbano essere reintrodotte comunque. Tutte le qualità umane che resistono a un trattamento utilitaristico, come la spontaneità o il rifiuto di esperimenti sull’uomo, sono condannate come eredità irrazionale.
Negli scritti di un autore puritano del Seicento è già espressa l’accettazione senza riserve delle norme di un rigido utilitarismo. Le invenzioni della bussola, della stampa e della polvere da sparo sono esempi del progresso. Queste invenzioni sono utili, efficaci ed economiche; quindi, esse sono buone. “Abbiamo un modo più deciso e veloce, più economico e frugale di uccidere i nostri nemici che non l’arco e le frecce, i giavellotti, le scuri e le lance …” Economia ed efficienza sono virtù; di qui l’alta considerazione per le armi perfezionate (Merton, 1967).
E’ inutile sottolineare la somiglianza con le affermazioni dei regimi totalitari, secondo i quali il diritto è quanto è bene o utile per il tutto, tenuto distinto dalle sue parti. Inoltre nei regimi totalitari la liquidazione degli individui viene inquadrata in un processo storico in cui si fa o subisce quello che, secondo leggi immutabili, deve assolutamente verificarsi.
Secondo i criteri dell’utilitarismo, che sottendono la pratica dell’EBM, gli esperimenti in cui muoiono bambini per verificare un trattamento come l’ECMO secondo criteri EBM, anche se è già dimostrato con altri criteri scientifici che è efficace, sono necessari e non avvengono accidentalmente ma obbligatoriamente. Nel caso dell’ECMO un autore, Worrall, che riferisce l’esperimento, obietta debolmente che i neonati in verità non sono sensibili all’effetto placebo e che perciò non era necessario ideare una ricerca per distinguere se l’efficacia del trattamento era dovuta alla terapia o alla suggestione. Osservazione che sarebbe grottesca se non fosse macabra. Ma, come dice Worrall in perfetta buona fede, la morte dei bambini sarebbe stata inutile se fosse risultato chiaro che era possibile dimostrare l’efficacia dell’ECMO senza applicare alla ricerca criteri ebm: questa osservazione fa supporre che in altri casi la loro morte avrebbe potuto invece essere considerata utile. Sembra che la quantificazione ad ogni costo sia perseguita in base alla fede in un unico criterio sia scientifico che etico, nella ricerca dell’utilità intesa in senso impersonale, al fine di dimostrare a se stessi e agli altri il successo e la salvezza più che a corrispondere alle reali aspettative del prossimo.
D’altra parte la medicina, in un’ottica puritana, presenta lo scandalo perenne costituito dall’effetto placebo, che in pratica è l’unico farmaco la cui efficacia è dimostrata incontrovertibilmente, rispetto al quale viene testata qualsiasi terapia. Ovvero il paziente trae beneficio da un rapporto umano, e per di più caratterizzato dall’emozione della fiducia, e non rigidamente regolato in maniera contrattuale. Anche questa è deificazione della creatura. Si comprende l’accanimento con cui, con criteri sempre più sofisticati, si cerca di annullare, isolare, discernere l’effetto placebo, rispetto ai farmaci “veri”, non riconoscendo che la medicina è o dovrebbe essere il luogo in cui si integrano tradizione e innovazione, dato scientifico e relazione personale.
E’ auspicabile che chi sposa in modo acritico la filosofia dell’EBM incappi nella stessa esperienza capitata all’avvocato Hector Loursat, protagonista de “Gli intrusi” di Simenon:
“…Si era mai veramente accorto di qualcosa? Viveva di sentimenti elevati, come nelle tragedie; e quando aveva amato, lo aveva fatto in modo assoluto, senza nessuna concessione al dubbio o alla banalità”
“…Ma ecco che in una stanza echeggia uno sparo, e lui si accorge che la sua casa è diventata il covo di una banda di ragazzini! Così, per inseguirli, si mette a perlustrare la città…
Scopre persone, odori, suoni, negozi, luci, sentimenti. Tutto un magma, un brulichio, una vita che non ha niente in comune con quella delle tragedie: rapporti assurdi, indefinibili, tra le persone e le cose, idioti affascinanti, correnti d’aria agli angoli delle strade, un passante che indugia, un negozio rimasto aperto chissà perché, e un ragazzo che aspetta nervosamente sotto a un grande orologio noto all’intera città un compagno che gli schiuderà le porte dell’avvenire…”
Loursat da allora è diventato un altro uomo e per lui non è più stato possibile tornare quello di prima, libero per sempre da un mondo virtuale, popolato di concetti astratti, ma privo di vita.
RELIGIONE |
EBM |
Concetto di predestinazione. Gli eletti sono scelti da Dio, i dannati non hanno nessun strumento di redenzione. Gli eletti non hanno alcuna disposizione ad aiutare coloro che si presumono essere dannati, ma provano per loro solo odio e disprezzo. |
EBM come modello unico, assolutistico, al di fuori del quale non c’è salvezza, ma solo pregiudizio, oscurantismo, superstizione. Nessuna indulgenza per chi non aderisce apoditticamente al modello, ma solo disprezzo. |
Tensione verso una razionalizzazione del mondo, spogliato da tutto ciò che è considerato un orpello inutile (soggettività, emotività, rapporti interpersonali, passioni, gioie dei sensi). Si arriva ad eliminare gli impulsi irrazionali (irrazionali secondo questo punto di vista) e la schiavitù del mondo e della natura. |
L’EBM considera tutto ciò che è soggettività informazione degradata e pericolosa, svilita di importanza e di peso, non solo inutile, ma persino fuorviante |
La Bewährung, intesa come esperienza e comprova della salvezza, è costantemente verificata con controlli, tramite diari religiosi in cui i progressi fatti venivano riportati sotto forma di tabelle e di statistiche. |
L’EBM propone una gerarchia delle informazioni, privilegiando quelle quantificabili: le evidenze contano molto di più delle esperienze. Tutto ciò che non può essere misurato di fatto non esiste o non è utilizzabile. |
Visione disperante della condizione umana (e del mondo). L’uomo vive in un’immane solitudine, ridotto alle sue componenti razionali e impersonali. |
L’EBM delinea un mondo monodimensionale, grigio, che non ammette sfumature, profondamente diffidente nei confronti della natura, della complessità, di ciò che rende unica e inderivabile ogni esperienza umana. |
La convinzione dell’esistenza di una legge immutabile è presente nella dottrina della predestinazione: la legge è là e deve essere conosciuta. La predestinazione è un “fatto”, nel senso che questa parola ha nelle scienze naturali, c’è fede nella validità di un unico postulato di base. |
L’EBM parte dal presupposto che esista una verità oggettiva che se non si coglie appieno è solo per l’imperfezione dello strumento. |
Tutta la vita deve essere improntata ad un sistema e a un metodo. Il singolo non conta di fronte all’interesse generale. |
Fiducia cieca nel metodo e scarsa attenzione alle implicazioni negative che ci possono essere sui singoli |
La ragione assume un’importanza particolare, perché serve a reprimere gli appetiti e perché attraverso l’applicazione costante del ragionamento rigoroso frena l’inclinazione all’idolatria. Ogni cosa va vagliata razionalmente, la ragione assume un’autorità cogente, la scienza diventa un dovere imperativo. Nulla va lasciato così com’è, o creduto prima di essere sottoposto a un esame. |
I dati ricavati dall’esperienza, il buon senso non hanno valore se non sono trasformati in numeri |
La tradizione, l’autorità, la cultura e la storia sono da guardarsi con sospetto, non sono apportatrici di verità ma di inganno; la verità si trova all’origine, prima che al testo sacro siano state sovrapposte interpretazioni e distorsioni. In base al principio della sola scriptura viene negato il valore veritativo delle pratiche tradizionali, istituendo la Bibbia come solo riferimento, senza mediazioni. L’idea di un unico criterio come fonte di conoscenza è ripresa a livello scientifico e porta all’espulsione dei saperi, che nel Rinascimento sono riuniti sotto la definizione di studia humanitatis, e che non possono essere ricondotti alla nuova idea di scienza esatta. |
Sottovalutazione della letteratura psichiatrica classica, della pratica clinica esistente, dello scambio con colleghi e pazienti, del senso comune e di tutti i dati che provengono dal contesto, nelle sue componenti culturali, emotive ed umane. |
La Natura deve essere indagata con metodi estremamente attivi. Secondo le parole di Francesco Bacone, che si serve di metafore derivate dalle tecniche adottate durante gli interrogatori e le torture delle presunte streghe, la natura “si manifesta meglio sotto tortura e con l’uso di artifici (meccanici) che quando viene lasciata a sé. Va “asservita”, “resa schiava” e “imprigionata”. Deve essere “costretta a uscire dal suo stato naturale e spremuta e modellata.” |
Le osservazioni “naturalistiche” vengono poco valutate dall’EBM e si privilegiano metodi di ricerca che forzino la realtà in schemi rigidi e semplificati. |
La desacralizzazione e deanimazione si estendono a tutti i luoghi, non solo naturali ma anche umani (storici, religiosi, urbani), privandoli di qualsiasi valore e rendendoli infinitamente disponibili a qualsiasi manipolazione, trasformandoli di fatto in nonluoghi. |
L’oggetto della ricerca EBM è solo ciò che fa o che vive come caso: tutto viene vissuto al presente, si manifesta la coesistenza temporanea di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre, in una specie di immensa parentesi, al di fuori di qualsiasi società organica. |
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