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27 GENNAIO: è possibile oggi un tempo per una memoria che sia solo memoria?

27 Gen 24

A cura di ct

Non è la prima volta che questa rubrica dedica una riflessione al giorno della memoria. È già accaduto nel gennaio 2021, dando notizia del portale che Patrizia Guarnieri ha dedicato agli intellettuali ebrei passati per la Toscana vittima delle leggi razziali, che viene costantemente ampliato  (segui il link) e nel 2022, ricordando l’olocausto dei malati di mente che ha avuto luogo nella Germania nazista (segui il link).
Ma certo, quest’anno è più difficile rispetto a quelli precedenti celebrare la memoria di quel 27 gennaio 1945, quando i soldati sovietici liberarono i campi di sterminio di Aushwitz e rivelarono al mondo la perfezione e la mostruosità che sotto il regime nazista la produzione industriale della sofferenza, dell’umiliazione e della morte aveva raggiunto. E insieme, aprirono i cancelli a una speranza che in quel momento, dopo cinque anni di guerra e di olocausto, pareva comune a ogni cuore sulla terra: MAI PIù!
La speranza, insomma, di un mondo migliore: meno violento e più giusto.
Quasi ottant’anni sono passati da quel momento: altre guerre, genocidi (segui il link) massacri, forme disumane di detenzione si sono succeduti, ma da quando con la risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’ha istituita, questa giornata continua a ricordarci, come un monito e un generale mea culpa, fino a che punto la disumanità di noi umani può giungere.
Quest’anno, però, non si può certo ignorare che la giornata della memoria cade in un momento particolare, e la memoria rischia di uscirne soffocata, strattonata in opposte direzioni.
È ancora vicino il ricordo del 7 di ottobre, il giorno nel quale una rabbia e una disperazione durate settant’anni sono state rovinosamente ribaltate dall’oppresso sopra l’oppressore, con l’esito spaventoso di più di mille morti e inaudite sofferenze di vittime civili, un centinaio delle quali sono ancora in ostaggio.
E continua da ormai quasi quattro mesi, ed è destinato ancora a continuare chissà quanto, in totale spregio della legislazione internazionale da parte di una potenza occupante, che in quanto tale ha obblighi di protezione verso qualla oggetto di occupazione, e nell’indifferenza se non nella complicità del mondo occidentale il massacro della popolazione di Gaza, che ha portato a più di 26.000 morti, 10.000 dei quali bambini, e non ha risparmiato le case, i luoghi di rifugio, persino gli ospedali.
Spettatori impotenti di queste atrocità, qualche scettica illusione in molti nutrivamo nella giustizia internazionale, ma la giustizia avrà il suo lento corso che la porterà un giorno forse, quando sarà tardi, a riconoscere che è stato perpetrato un genocidio, e sarà comunque importante, ma si è rifiutata di assumere un ruolo che spetta alla politica: pretendere senza se e senza ma che vi sia posta immediatamente fine, interrompere ogni complicità a partire dalla fornitura di armi.
Del 7 ottobre e di ciò che ne è seguito abbiamo già scritto il giorno di capodanno su questa rubrica (segui il link).
E certo, oggi c’è chi vorrebbe attualizzare quella lontana memoria col sostenere una fantasiosa attualizzazione in base alla quale se ebree furono allora le più numerose (certo non le uniche) tra le vittime, nazista deve essere chi combatte oggi la nazione che una parte degli ebrei, quelli aderenti al movimento sionista, si sono conquistati con l’avvallo di Stati Uniti e Regno Unito, e con il loro avvallo di fatto da settant’anni stanno operando ininterrottamente per espandere. Ma è un’equazione che non regge: la genetica è importante nella biologia ma non nella storia, e si può essere vittime o carnefici essendo ebrei, come essendo italiani. A testimonianza del fatto che essere ebrei, come essere italiani, come non esserlo, non conta niente: si è solo esseri umani. Non hanno niente in comune con le povere cenciose e scheletriche vittime dell’ideologia razzista che i soldati sovietici incontrarono sbalorditi quel 27 gennaio, ottant’anni dopo i cittadini di una nazione parte del mondo ricco, forte di uno degli eserciti più potenti al mondo, dotata della bomba atomica, responsabile di una politica di apartheid e di sistematica e arrogante oppressione di un altro popolo.
Con buona pace di chi, in malafede, continua a voler alimentare la confusione tra il doveroso antisionismo e lo stupido e ingiusto antisemitismo.
Né mi convince del tutto – anche se mi pare meno assurda e anacronistica perché non riferita a una pretesa continuità “etnica”, ma a un’analogia di situazione – l’equazione opposta, che partendo dalla somiglianza delle vittime delle atrocità israeliane di questi giorni con le vittime di allora vorrebbe equiparare lo Stato sionista di Israele al regime nazista. Perché, certo, la situazione di questi giorni nella Striscia di Gaza è più somigliante a quella del lager rispetto ad altre tragedie contemporanee in quanto vede in campo un solo Stato, un solo esercito e una enorme differenza tra le due parti nella capacità offensiva; per la fame, la sete, il disprezzo in cui si sente tenuta la propria vita.
Tuttavia le somiglia molto, ma non è quella del lager.
E la differenza non sta tanto nella diversa scala numerica delle vittime (la vita di ogni uomo, donna o bambino è importante), ma nel fatto che la macchina di morte non raggiunge in questo caso l’eccezionale efficienza nella produzione di morte che ha caratterizzato appunto Auschwitz, che la giornata della memoria proprio per questo ogni anno ripropone.
Soprattutto, come scriveva ieri su un quotidiano Andrea Fabozzi, credo che per chi vuole imporre all’attenzione i crimini che Israele sta infliggendo a Gaza, il 27 gennaio sarebbe “il giorno sbagliato per avere ragione”, perché equiparare l’olocausto di allora al massacro di oggi finirebbe per mettere al centro del discorso la liceità o meno dell’equiparazione e occultare il ricordo dei fatti, tanto quelli di ieri che quelli di oggi.
Lasciare per un giorno che sia la memoria a parlare, del resto, forse potrà essere utile a tutrti a “restare umani”, o ritornare umani, anche di fronte ai massacri di oggi.
Ciò che accade a Gaza non ha bisogno di equiparazioni per destare orrore, rivolta: bastano i bambini massacrati, gli ospedali bombardati, la totale mancanza di pietà.
E chi resta indifferente a questo, lo resterebbe comunque.
Perciò, certo mi rendo conto del sacrificio che ciò può comportare per chi è in apprensione per gli ostaggi o per chi sente nel suo cuore le stragi in atto anche oggi a Gaza, ma mi parrebbe giusto evitare approssimative o assurde attualizzazioni, che rischiano di apparire a volte volgarmente strumentali, per operare lo sforzo di riservare invece, anche quest’anno, la giornata della memoria, appunto, alla memoria. Ciascuno poi potrà, nel suo cuore, associare a questo ricordo ciò che ritiene, o anche niente di attuale.
Ci sono tanti giorni in un anno, e tutti gli altri potremo (dovremo) dedicarli a lottare, per quel troppo poco che purtroppo possiamo, contro i massacri di oggi come qui ci sforziamo di fare da quattro mesi (segui il link), e come riprenderemo con tutta la determinazione a fare, da domani.

Per questo giorno della memoria, che solo alla memoria quindi qui dedichiamo, vorrei proporre a chi ha avuto la pazienza di leggere questa lunga premessa la recensione di un piccolo libro di memorie nel quale mi sono imbattuto l’anno scorso, di un internato politico nel lager che dopo la guerra dell’ospedale psichiatrico padovano di Brusegana (fondato da una figura che mi è cara, Ernesto Belmondo), è stato direttore: Luigi Massignan.
In un libro pubblicato nel 2008, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), alla cui seconda edizione sto lavorando, ho ricordato tra l’altro i nomi di alcuni che, appartenenti a vario titolo al mondo della psichiatria, sono stati tra i partigiani. Tre di essi hanno avuto vicende analoghe, in quanto hanno partecipato alla Resistenza, sono stati catturati dai nazifascisti e sono stati deportati nello stesso lager, Mauthausen. Diversi, tuttavia, i loro destini.
Uno di loro, Giovanni Mecurio, nato a Udine ma medico dell’ospedale psichiatrico di Voghera, è morto nel lager pochi giorni prima della sua liberazione, ed è a mia conoscenza il solo psichiatra ad avere perso la vita a seguito della propria scelta di unirsi ai partigiani; di lui ho scritto il 25 aprile di qualche anno fa (segui il link).
Gli altri due sono tornati: il primo di essi è Ottorino Balduzzi, che lavorava a Genova ed era oltre che neuropsichiatra un neurochirurgo di fama internazionale; i tedeschi avevano bisogno delle sue abilità e lo spostarono dal lager all’ospedale di Lintz, dove ebbe salva la vita ma trovò comunque il coraggio di sfruttare la sua posizione per continuare, ostinatamente, a combattere facendo da tramite tra l’organizzazione resistenziale italiana all’interno del lager e la Resistenza austriaca intorno a esso. Ritornò dopo la liberazione, fu esponente locale del PCI e riprese a lavorare al San Martino.
Il secondo è Luigi Massignan, allora ancora uno studente di medicina, che sarebbe divenuto in seguito direttore degli ospedali psichiatrici prima di Udine e poi di Padova.
Mi sono nuovamente imbattuto, appunto, di recente nella sua figura in occasione dell’inaugurazione della mostra La follia, le storie e i luoghi sulla storia degli ospedali psichiatrici veneti, organizzata dall’amico e collega  Gerardo Favaretto presso il Museo di Storia della Medicina (MUSME) di Padova. In quell’occasione, ho visto che Massignan aveva raccolto i suoi ricordi del lager in un libretto, Ricordi di Mauthausen, pubblicato nel 2001 e riedito da Cierre Ed. nel 2021, con prefazione di Antonia Arslan.
In copertina il numero nel quale era stato trasformato dal lager, 115609, e il triangolo rosso, quello degli antifascisti, con all’interno la sigla IT (italiano).
Nato a Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza nel 1919 e morto a Padova nel 2020, solo in tarda età si è deciso a raccontare e scrivere le vicende del proprio internamento. Trattenuto forse prima dal dolore, il turbamento e i sensi di colpa verso quelli che non sono tornati, scrive di essersi deciso a farlo perché la memoria di tante atrocità non si perda con la morte dei sopravvissuti e perché aveva già allora «percezione che questo passato storico stia smarrendosi e banalizzandosi nella memoria collettiva», mentre invece la disumanità del lager «non è mai abbastanza sottolineata e resa detestabile».
Ancora studente, entra in clandestinità e partecipa alla guerra partigiana nel battaglione autonomo “Valdagno” guidato da Gino Soldà, del quale è Commissario Politico con il nome di battaglia di “Renzo”, e viene arrestato nel 1944 dalla X MAS su segnalazione di un questurino. Già, quindi, consegnato ai carnefici nazisti dai fascisti italiani, come ha ricordato che spesso è accaduto l’anno scorso da Auschwitz ed è ritornato a ricordare in questi giorni a un’Italia dalla memoria corta il presidente Sergio Mattarella.
Rinchiuso in una caserma della Guardia Repubblicana, poi nel carcere di Vicenza, trasferito a Bolzano dove trascorse commosso – era un fervente cattolico – il Natale, dovette affrontare il trasporto verso nord in un carro bestiame dove grande era la fame, e ancora più grande la sete: «Ammucchiati gli uni sugli altri, ci si dava il cambio per sedersi o stendersi perché non c’era posto per tutti. In un angolo del carro avevamo delimitato una zona come gabinetto comune e il freddo per fortuna limitava le conseguenze dell’accumularsi di feci e urine, in quanto tutto rapidamente gelava e ci si poteva salire sopra per non allargare sempre più la zona inquinata».
Insomma, la deumanizzazione aveva inizio già nel corso del viaggio.
E presto fame e morte sarebbero diventate le compagne di ogni giornata: «questi lavoratori dovevano essere ridotti, per fame e minacce, per privazioni e umiliazioni, a strumenti docili in mano agli aguzzini. Privi di dignità, di senso di sé e di qualsiasi capacità di reazione, rassegnati a tutto sarebbero stati sfruttati fino all’ultima goccia di sangue; poi, passati per il camino, avrebbero prodotto ceneri utili come concime, o sarebbero stati gettati nelle fosse comuni (…). All’imbrunire si correva al blocco per inghiottire come cani affamati la brodaglia calda e puzzolente, spesso senza sale, tuffando naso e bocca dentro alla lurida scodella dove un altro li aveva messi prima di noi».
La vita degli internati contava proprio poco. Davanti ai suoi occhi, a un giovane bastò qualche pidocchio nella cucitura dei pantaloni per essere lasciato tutta la notte al gelo e morirne al mattino. Ai malati bastava essere incontinenti e andare incontro alla diarrea per essere stesi sul “letto della merda” presso la latrina, senza cibo finché sopravveniva la morte. Capitava che I moribondi venissero cacciati giù dai tavolacci a castello a tre piani dai compagni, per avere più spazio. Ogni giorno occorreva smaltire qualche cadavere e quelli che non potevano essere trasportati via si accatastavano fuori dal blocco; e tanto la morte era indifferente che quando l’inverno gelavano venivano usati dai vivi come panchine. Appropriarsi di un biscotto spinti dalla fame poteva essere sufficiente per essere freddati sul posto da un SS, o frustati a sangue dal kapò. Fuggire da tutto questo ed essere catturati, corrispondeva a morte immediata.
Tutto rispondeva a una logica spietata, testimonia ancora Massignan. Tra Mauthausen e i campi satelliti vivevano allora circa 120.000 internati contemporaneamente: «più i prigionieri erano resi innocui, meno soldati erano necessari. Quando i prigionieri non servivano più era logico eliminarli  (….). Per ottenere l’annientamento della volontà del deportato occorreva togliergli fin dall’inizio ogni speranza di reagire, terrorizzarlo, indebolirlo, costringerlo a spendere tutte le sue energie per sopravvivere, portandolo a situazioni limite tali da fiaccare ogni capacità di resistenza attiva (…). Il logorio fisico e mentale era prodotto da un insieme di fattori che si potenziavano a vicenda: la debilitazione fisica (…), la mancanza di qualsiasi notizia su quello che succedeva fuori (…), la fame, il freddo, il sonno, la stanchezza, i maltrattamenti (…), un’incertezza permanente, l’incubo incombente di essere eliminati (….), il vivere in contatto continuo con la morte e i cadaveri». E poi ancora «il ripetersi continuo di controlli, l’essere messi in riga, , contati e ricontati, passi avanti e passi indietro, togliersi e mettere il berretto (…), spostare le file e rifarle», il terrore ogni volta che si incrociava un SS perché un piccolo errore poteva essere fatale.
Se Massignan poté sopravvivere, fu anche perché il caso gli risparmiò le cave di pietra, con i loro 186 gradini disuguali che i prigionieri dovevano salire con un pietrone in spalla, e a ogni gradino il rischio di cadere e far cadere quelli dietro; e poi il sentierino stretto, a picco sul baratro, dal quale chi aveva scelto una pietra più piccola da portare poteva rischiare di essere spinto di sotto. Così come gli risparmiò la “baracca della morte”, riservata ai prigionieri più pericolosi; o la camera a gas, lo strumento inaugurato dai nazisti per l’eliminazione dei disabili e diffuso poi ai lager, dal quale non avrebbe ovviamente avuto scampo.
Ma anche nei giorni della liberazione il campo lasciava alle sue vittime una gravosa eredità: i pidocchi erano diffusissimi e con essi si diffondeva il tifo petecchiale, che non risparmiò neppure Massignan proprio nei giorni felici della liberazione. La sovralimentazione improvvisa faceva correre rischi a volte più gravi di quelli che aveva fatto correre la fame, e costò la vita a tanti.
Massignan ebbe altri problemi di salute subito dopo il ritorno, un’epatite e un ascesso. A curarlo, l’amico Aldo Cappellari, zio del nostro caro collega Lodovico.
«Vi sono esperienze» – scrive ancora Massignan ormai settantenne – «che non si possono raccontare, perché le parole dicono solo quello che in quei momenti si faceva e soffriva, ma non quello che avveniva dentro nel profondo e si consolidava come un nucleo ormai parte di sé (Mi accorgo per esempio che quando sto mangiando a volte ho la vaga impressione che ci siano intorno uomini, ragazzi che guardano con occhi bramosi quello che ho sul piatto e questo mi mette a disagio)».
Le biografie di alcuni compagni di Resistenza e di prigionia, qualcuno dei quali non è tornato, e una biografia completa dell’autore completano questi ricordi.

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