Quando i matti erano in divisa da matti, tinta unita.

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4 febbraio, 2024 - 10:47
«In queste istituzioni si tocca con mano l'esistenza di una microfisica del potere e di una scala dell'oppressione in cui, ad esempio, l'infermiere sfruttato e oppresso in un'ottica di classe può porsi, a sua volta, come oppressore sull'anello più basso della catena: il paziente»

(Marco Lombardo Radice. “Il raccoglitore nella segale”)

Chi scrive ha trascorso dieci anni del suo lavoro (1968-1978) al manicomio provinciale di Santa Maria della Pietà, per chiuderlo definitivamente, in qualità di medico “neuropsichiatra”. Così si chiamavano una volta gli specialisti in “Clinica delle Malattie Nervose e Mentali”, prima che la cosiddetta “Legge Cazzullo” (27 aprile 1976) separasse rigorosamente gli Psichiatri dai Neurologi. Può essere utile aggiungere che, i dieci precedenti (1958-1968), chi racconta questi ricordi, li aveva trascorsi in qualità di “Assistente Volontario” di nomina rettorale, alla “Neuro” di Roma in Viale dell’Università 30, alla corte di Mario Gozzano. Il nuovo cattedratico aveva vinto la competizione col trapanese Vito Maria Buscaino (nome altrettanto prestigioso che insegnava a Firenze) e, chiamato dalla facoltà medica della “Sapienza” di Roma, il piemontese di Savigliano, era giunto dall’”Alma Mater” di Bologna, a dirigere la “Neuro” della capitale. Era stato collocato a riposo Ugo Cerletti, inventore dell’eletttroshock con Lucio Bini, il quale, come s’usa per non dare ombra, si era accomodato al manicomio di Monte Mario presso il Padiglione del suo amico Carmine D’Angelo, persona erudita e spiritosa [01], che tra l’altro apparteneva al ristretto club dei 4 pescatori col “rezzaglio” del S. M. della Pietà (il rilegatore Alfredo Desideri, l’infermiere Arturo Carfagnini, lo scrivente e lui). Girava voce fra i giovani psichiatri manicomiali di allora, che fra i loro progetti vi fosse anche quello di fare l’elettroshock al leone del giardino zoologico in depressione d’umore da un po’ di tempo. era la prassi accademica, secondo una consuetudine liberale che durava dall’Unità d’Italia, ovvero da quando la Facoltà di Medicina dell’Università di Roma era stata traslocata da Sant’Ivo alla Sapienza al Policlinico Umberto I, su iniziativa del ministro Guido Baccelli, e poi alla Città Universitaria come immaginata e costruita da Marcello Piacentini, protagonista dell’architettura monumentalista del ventennio mussoliniano.

 

Negli anni Settanta la psichiatria era in subbuglio in tutto il mondo - di qua, di là dall’Atlantico e nel Regno Unito - come ci ricorda Sarantis Thanopulos citando lo slogan studentesco del maggio francese «Ce n’est qu’un debut continuons le combat», che fu vivacissimo, e preminente [02]. Anche per me il 1968 fu un anno di svolta e fondamentale. Lo avevamo anticipato con fragore. Il 23 marzo, Silvia mi aveva regalato una coppia di gemelli biovulari, bicoriali, maschio e femmina, capelli dritti capelli ricci e, dalla “Sapienza”, ero salito a lavorare al manicomio provinciale di Monte Mario, il “Santa Maria della Pietà” di Roma. A rompere gli indugi mi aveva blandito il direttore Gerlando Lo Cascio: «Ma che stai a regalare il tuo tempo lavorando gratis per quelli dell’Università che ti danno due lire solo per le guardie! Vieni su da noi, che non siamo gli ultimi arrivati e, per di più, ti diamo uno stipendio dignitoso. Inoltre, ti puoi fare tutte le perizie che vuoi. Basta che fai la domanda alla Provincia, la dai a me che la porto io a Palazzo Valentini». Fu così che cambiai squadra, scuola e specialità, perché sapevo tutto quello che era necessario per essere un buon neurologo, ma di psichiatria, poco o niente. Su consiglio di Romolo Priori - un grandissimo che frequentavo al CIM di Via Sabrata - leggevo, di nascosto, Karl Jaspers “Allgemeine Psychopathologie” [03]. Lui lo aveva tradotto quattro anni prima, e io stavo imparando i primi rudimenti di Psicopatologia Generale. Ricordo con precisione i dieci anni di servizio prestato al manicomio romano, non solo per il lavoro anti-istituzionale e le assemblee coi pazienti, gli infermieri, le suore, gli studenti iscritti al primo anno di specializzazione in psichiatria, ma anche per la storicità particolare del periodo. Ci furono due Papi e due conclavi in un solo anno. Fu trucidato Aldo Moro, al quale, chiamato a Washington, era stato intimato di non azzardarsi a fare il compromesso storico coi comunisti. Passò l’abolizione dei Manicomi Provinciali (legge Orsini-Basaglia n. 180/1978) e la riforma sanitaria poco dopo con l’assistenza gratuita per tutti (Legge 833/1978).

 

Fondamentali e complicati furono quei dieci anni compresi tra il 1968 e il 1978 trascorsi in qualità di medico al manicomio dell’Amministrazione provinciale di Roma, a Sant'Onofrio in campagna, sulla Collina di Monte Mario, costruito nel 1913 e inaugurato da Vittorio Emanuele III l’anno successivo. Vi si trasferiva lo storico “manicomio della Longara” che, a sua volta, aveva preso il posto del primissimo “Ospizio per i pazzerelli” aperto nel 1561 dal Cappellano Ruiz, nella Chiesa di San Bartolomeo ai Bergamaschi al centro di Roma, in Piazza Colonna, dove c’è tutt’ora una targa che lo ricorda. Le guardie mediche all’ospedale psichiatrico erano di 24 ore, dalle ore 12 alle 12 del giorno successivo con “cambio a vista”. Si facevano in coppia, io con Massimo Marà, uno dei ribelli de “Il potere della Psicoanalisi”, 1974, che aveva giocato nella Lazio. I ricoverati, allora erano circa 800 e, per giustificare l’enorme lavoro, non solo clinico-terapeutico, ma anche psico-socio-riabilitativo, erano contemplati due medici di guardia, teoricamente uno per i padiglioni maschili e uno per quelli femminili. Ciascun “padiglione di accettazione” - per donne sul lato sinistro di chi entra e per uomini sul lato destro - aveva in dotazione un medico psichiatra anziano, responsabile (il “medico di Sezione”, con funzioni primariali) e altri due specialisti, uno con funzioni di Aiuto e l’altro di Assistente. C’era una suora caporeparto con funzioni equivalenti a quelle di caposala ed una vice. C’erano i “sorveglianti” di solito infermieri anziani, che controllavano il personale infermieristico. Insomma, rispetto alle altre strutture nosocomiali, quelle psichiatriche erano equivalenti, simili, analoghe, conformi, ma gli ospedali psichiatrici erano profondamente diversi. Le visite mediche e chirurgiche, con i relativi interventi specialistici avvenivano in giorni fissati della settimana, per il resto della guardia, si doveva arrangiare lo psichiatra di guardia o chiamare l’ambulanza ed esportare l’ospite. Rammento che a me capitò nel cuor della notte di fare da ostetrico perché la levatrice tardava. A qualsiasi estraneo era proibito operare in manicomio con funzioni sanitarie, anche se necessarie, ma non programmate. Il Direttore era come “il Capitano del Pilcomayo” [04]. L’Istituzione spaventava anche perché doveva essere impermeabile, autonoma, estranea, autosufficiente, isolata. Mia madre e mia suocera, non erano d’accordo che qualche volta mi portassi in manicomio qualcuno dei cinque figli, ma mia moglie Silvia era molto contenta, perché respirava un po’. Se poi fosse capitato che avessi dato due punti di sutura al cuoio capelluto di qualche “testa di matto” infortunata, indossando il camice bianco ed entrando in sala chirurgica per “cucire” coi ferri giusti e i guanti appositi, al rientro a casa l’avviso era fragoroso: “Sai mamma, papà è davvero un medico, perché lo fanno entrare in camera operatoria col bisturi e le pinze come quelli veri e mette i punti col camice bianco!” La descrizione continuava tutta la settimana. Gli infermieri e le infermiere si alternavano in turni lavorativi di squadre da sette. Le chiavi, grandi e di ottone, per l’accesso ai Padiglioni, erano di due tipi: quella “a un giro” e quella “a due giri”, unica e in possesso esclusivamente della suora caporeparto che dopo l’ingresso dell’ultimo turno, quello di notte, girava le due mandate e isolava la sua popolazione dal mondo esterno fino al mattino successivo. Per l’allarme nelle eventuali sommosse c’era una trombetta gialla. Le simmetrie manicomiali erano rigide, ripetitive, riconoscibili. Si basavano esclusivamente su quelli che nelle scienze sociali sono definiti ruoli di genere, come detto sopra donne a sinistra, uomini a destra, anche per passeggiare, sempre sorvegliati dal personale.

 

I pazienti, in gergo istituzionale, erano divisi in “malatini” e “malatacci”. I primi erano quelli che facevano i servizi, avevano cioè competenze specifiche: falegnameria, idraulica, elettricità, Tv, rilegatura di fascicoli, lavori di segreteria, ecc. Erano apprezzati dalle Suore Capo-sala che li chiamavano da un padiglione all’altro, per le necessità di reparto. I “malatacci”, invece, erano quelli più problematici che, poveri loro, erano dotati di un quadernetto a parte dove venivano ordinati brevi periodi di contenzione, con la firma del medico di reparto. In generale, però, l’alleanza fra l’infermiere e il paziente era reciproca e vantaggiosa per entrambi. A riprova si può citare un dettaglio molto importante. Andavano a ruba i calendarietti coi turni degli infermieri e delle infermiere segnati per tutto l’anno, compresi i riposi e le festività. Veramente un’opera d’arte e di miniatura, sempre pronto per il primo dicembre di ogni anno. Un cartoncino poco più grande di un biglietto da visita, ripiegato varie volte su se stesso, dove venivano scritti in nero i giorni lavorativi e in rosso le festività, secondo una specie di algoritmo che girava così: mattina, pomeriggio, notte, riposo, libertà. Tutto il personale li acquistavano codesti calendarietti, anche i sindacati e gli impiegati della Provincia a Palazzo Valentini. Erano comodissimi per sapere quando sarebbe capitato Natale, Pasqua o Ferragosto e quando avresti potuto chiedere la sostituzione alla collega o al collega. Sicuramente il manicomio era qualcosa di molto simile ad un penitenziario, molto, troppo ordinato. Quando scappava un malato, erano guai seri per gli infermieri e per il medico di guardia. Bisognava fare un rapporto circostanziato all’Autorità Giudiziaria (il «Pubblico Ministero» di servizio in quel giorno), come se fosse scappato un criminale. Gli infermieri più esperti la prima cosa che facevano era quella di cercare nell’abitazione del fuggitivo perché di solito “tornavano a casa”. La questione fondamentale nel lavoro psichiatrico era il rapporto con la persona che ti stava davanti. Il punto strategico era la relazione col paziente di tutto il Servizio (la vecchia èquipe di Settore), i molteplici aspetti del prendersi cura, farsi carico ... [05]. Bisognava, per quanto possibile, cercare di non avere pregiudizi, né paure. L’ascolto, la parola, il dialogo, il colloquio, costituiscono l’essenziale e il fondamenta del lavoro coi pazienti psichiatrici, e dunque necessitano, dal punto di vista assistenziale, di un rapporto almeno doppio rispetto a tutti gli altri pazienti dell’area della Sanità.

 

Quando mi affacciai alla Facoltà di Medicina di Roma la neurologia veniva insegnata insieme alla psichiatria e, se si eccettua la scoperta psicoanalitica di Freud, veramente rivoluzionaria, la disciplina psichiatrica proponeva cure somatiche grossolane e feroci. Dalla storia della medicina sappiamo che fin dai tempi degli asclepiei, in tutta la Grecia antica c’erano numerosi Templi della Salute (Atene, Coo, Epidauro, Pergamo, Trikala). Situati in luoghi salubri, fungevano da santuari, soggiorni, ricoveri e ospedali per gente in attesa di guarigione. I sacerdoti-guaritori si passavano il mestiere e il culto di padre in figlio e le consulenze erano annunziate per mezzo di oracoli. Famosi l'oracolo di Asclepio alle pendici dell'Acropoli di Atene, sotto il Partenone e quello di Apollo ad Epidauro. Apollo e Asclepio, padre e figlio, nella mitologia greca, erano entrambi protettori della medicina, solo che il primo, ufficialmente dio delle arti mediche, delle scienze, dell'intelletto e della profezia, colui che traina il carro del sole nel cielo e suona la cetra, figlio a sua volta di Zeus e Latona, poteva essere ritenuto psichiatra per eccellenza, mentre il secondo poteva ritenersi un buon clinico di medicina generale. Le “cure” psichiatriche, erano basate fondamentalmente sul principio di incutere paura al soggetto colpito dalla follia, per vedere se mentiva e, al culmine delle minacce ricevute, negasse di essere il più immortale di tutte le divinità o continuasse a delirare a rischio della morte. Fra le leggende mitologiche del più celebre dei suicidi per amore, girava quello di Saffo che si sarebbe tolta la vita lanciandosi dalla rupe di Leucade, non corrisposta del giovane Faone. Ebbene l’uso di curare i pazzi con il lancio del paziente dalla roccia bianca dell’isola di Saffo sul Mare Jonio agganciato ad un paio di Cigni per tentare di rinsavirlo, è una storia che ho sentito raccontare da Vito Maria Buscaino, che detestava l’elettroshock, così come l’ho sentito contestare, gli psicofarmaci per la “Cura del sonno”. Ho ancora un appunto di una sua conferenza udita quando era in gara con Gozzano per la cattedra romana della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali: «Per i pazienti psichiatrici, fin dall’antichità era stata durissima, con le paure e gli spaventi. Dalle precipitazioni dallo scoglio di Leucade attaccati a grossi volatili, alle torture, alle catene e infine agli shock di ogni genere, anche chimici, come gli ultimi dei nostri giorni» [06]. Ricordo anche che gli specializzandi di allora ironizzavano sulla sua insistenza nel richiamare l’attenzione sullo studio del “microbiota intestinale”, che oggi va molto di moda, per trovare la chiave delle psicosi. “In sterquiliniis invenitur aurum nostrum” diceva una massima latina, “il nostro oro si trova nei letamai”. “Cosa crede l’eruditissimo prof Buscaino, di trovare lo schizococco nelle feci per caso?” - pensavamo noi, divertiti, sottovoce. Fummo troppo severi, però, noi giovani di quel tempo radicale e rivoluzionario. A giudicare dalla scoperta degli psicofarmaci, però, che si andava preannunciando già dagli anni Cinquanta. Il futuro per i pazienti, dentro e fuori dei manicomi avrebbe avuto meno crudeltà e più opportunità. Tutta la scientificità delle terapie biologiche di cento anni prima - per giunta applicate in regime di “custodia carceraria” - era basata su un presupposto assolutamente sbagliato e cioè, che vi fosse incompatibilità tra epilessia e schizofrenia, senza il minimo di controprova. Laddove si fosse manifestata la convulsione epilettica non sarebbero mai stati segnalati sintomi dissociativi e viceversa. Godevano la triste fama di “Cure disperate” [07], come titolava un libro molto polemico del gennaio 1994, firmato E.S. Valenstein, con una presentazione di Giovanni Jervis dov’era scritto. «La psichiatria è la storia della sostanziale impotenza dell’uomo davanti alla follia. È quindi anche storia di illusioni e di frustrazioni di falsi entusiasmi e distorsioni in cui gli stessi psichiatri sono caduti. Talora, e anzi forse con una preoccupante frequenza, la psichiatria è stata anche, purtroppo, storia di bassezze e crudeltà». Il periodo più florido delle cure somatiche in psichiatria, ossia, molto puerilmente, picchiare duro sul corpo per accomodare il cervello, si verificò nel pieno della “Grande Guerra” - la prima del “Secolo breve” - e prosperò rigogliosamente fino alla crisi dei missili di Cuba. Julius Wagner-Jauregg, un austro-bavarese di Wels, fu il primo a cominciare la sarabanda, epilettizzando i malati di mente con accessi di febbre malarica. Al “Santa Maria della Pietà” c’era un infermiere addetto, che andava nello stabulario a prelevare con l’apposita gabbietta la zanzara benigna, l’“Anofele maculipennis” (non la “falciparum” devastante), da iniettare al paziente per la “malarioterapia”, che gli valse addirittura un Nobel per la medicina nel 1927. Un galiziano di Nadvorna, Manfred Joshua Sakel, ebreo ashkenazita chassidico, fu il secondo che guadagnò fama di curare i matti con accessi di brusca interruzione di coscienza, iniettando insulina fino al coma (“insulino-shock-terapia”) nel 1933. Per inciso, nella capitale dell’Impero Austro-Ungarico e dintorni, accorse anche un gruppetto di medici romani che vi si erano recati per imparare bene la tecnica: Antonio Mendicini, Francesco Bonfiglio, Ferdinando Accornero, Mario Felici, U. Papetti che curava Antonietta Portulano, moglie di Luigi Pirandello, ricoverata a “Villa Giuseppina” per sole donne inferme di mente, in via Nomentana, a Roma, retta dalla Congregazione delle Ancelle della Carità. Il terzo fu l’ungherese di Budapest Ladislas Joseph Meduna un medico nato in una famiglia di ebrei sefarditi che per cancellare le origini religiose mutò il suo nome in Joseph L. von Meduna, il quale, dopo un timido tentativo col monossido di carbonio, nel 1935 propose il cardiazol, una sostanza chimica introdotta per via venosa, al fine di indurre le convulsioni (cardiazol-terapia). Solo il primo morì in patria gli altri furono costretti a fuggire dalle persecuzioni naziste ed ottennero la cittadinanza USA. Ci fu anche uno psichiatra portoghese, un po’ chirurgo, tale Antonio Egas Moniz, che nel 1936 introdusse la leucotomia prefrontale, guadagnandosi un Nobel per la medicina nel 1949. Successivamente in USA, il neurologo Walter Jackson Freeman tagliò la corteccia prefrontale dell'encefalo, eseguì cioè la cosiddetta “lobotomia” alla povera Rosemary Kennedy - sorella di "JFK" - nata da un parto asfittico causato dall’ostetrica che aveva ritardato la chiamata del medico. Rammento ancora le parole di un consulente famoso, chiamato dai genitori a visitare il figlio ricoverato alla “Neuro” in osservazione: «Veda Mellina, il paziente è schizofrenico. Qualunque terapia è autorizzata». La disperazione nel curare la schizofrenia e tutte le altre forme di psicosi era sostanzialmente dovuta al rigido assioma di Wilhelm Griesinger - la cosiddetta “Mitologia cerebrale” [08] tedesca - per cui “tutte le malattie della psiche corrispondono ad una lesione cerebrale, sono cioè malattie mentali come ogni altra malattia, di cui va trovato il corrispettivo anatomo-patologico al tavolo anatomico e al vetrino del tessuto cerebrale sotto il microscopio”. Questo, se da un lato costituiva un progresso rispetto a quando Philippe Pinel, nel 1793, fece liberare i matti dal fido Jean-Baptiste Pussin tenuti in catene alla Salpêtrière, per timore, superstizione e ignoranza, dall’altro bandiva la filosofia la psicologia e la sociologia dal novero delle discipline sanitarie, cosicché si andava delineando un sinistro profilo di “inguaribilità delle malattie mentali”.

 

L’Elettroshock scoperto e brevettato a Roma nel 1938 da Ugo Cerletti e Lucio Bini venne infine a sostituire tutte le altre cure da shock, che furono presto abbandonate, lobotomia compresa, per gli elevati rischi del coma e di danni neurologici permanenti. Tutto sommato, l’ECT, si rivelò il meno pericoloso e gli echi della sua messa a punto, con tanti protagonisti, grandi e piccoli, erano ancora vivaci quando io cominciai a frequentare la “Clinica Neuro” in Viale dell’Università 30. Ho conosciuto in Clinica l’infermiere Spartaco Mazzanti - anzi ci giocavo spesso a boccette al Bar dell’Ateneo - celeberrimo tra il personale della “Neuro” perchè nelle sedute iniziali di elettroshock, Cerletti lo aveva incaricato di suonare una trombetta da lattaio per chiamare a raccolta tutti gli interessati, ogni volta che si praticavano gli esperimenti. Inoltre doveva procurarsi un tubo di gomma piegato in due da porre in bocca tra i denti del paziente per impedire il morso della lingua. Era motteggiato dai più, alla “Neuro”, per due prerogative molto allusive: suonare la tromba, che voleva anche dire diffondere le notizie ufficiali e mettere la “mordacchia” che poteva anche dire tappare la bocca, silenziare il rivale. Al biliardo era un osso duro, ma anche sulla ricerca aveva un suo giudizio attento e preoccupato: «Ah Dotto’! ‘O sapete perché oggi non se fanno più scoperte? Perché i stabulari so’ voti!». lui lo sapeva perché era incaricato di alimentare le cavie. Da Spartaco Mazzanti imparai molti dettagli sulla messa a punto della terapia elettroconvulsivante. Essa nacque tra la “Neuro” e l’ex Mattatoio di Roma a Testaccio, un complesso di padiglioni alle pendici del monte dei cocci, dove Bini e Cerletti avevano scoperto che i suini che cadevano a terra folgorati da una scarica di corrente elettrica non morivano ma restavano semplicemente anestetizzati, poi dovevano intervenire i norcini per ucciderli veramente. Forse è utile aggiungere una postilla per meglio chiarire la serietà della ricerca. Quella universitaria di Roma, è stata una Clinica neuropsichiatrica famosa nel mondo. Chi vinceva il concorso a Cattedra nella Capitale era sempre uno studioso di fama consolidata e Roma, di solito, era il premio finale alla carriera. Adesso non è più così. L’università, la scuola, la sanità il servizio sociale sono le cenerentole del bilancio statale e il danno futuro è incalcolabile! Per tornare al Santa Maria della Pietà, le terapie somatiche e quelle da shock in particolare, non si facevano più dal Sessantotto in poi e la disobbedienza istituzionale era praticata attivamente con le assemblee, nei padiglioni dove lavorava chi scrive, Antonino “Nino” Lo Cascio, Mario Maurillo e il primario Giuseppe Francesconi. Era un sindacalista dell’AMOPI e anche lui tutte le mattine se la prendeva con la suora caporeparto che gli presentava le “vacchette” del personale infermieristico (“presa consegna/lasciata consegna”) e diceva «Io non firmo!». In proposito rammento un dettaglio. Io non indossavo il camice, in Ospedale Psichiatrico. A mio avviso, esso non aveva nulla a che vedere, con il disturbo psichico, perché la psichiatria, è un po’ sociologia, un po’ psicologia, è molto psicopatologia fenomenologica e anche psicoanalisi. Si dette il caso che una maestrina coraggiosa delle scuole medie di Monte Mario, portasse gli allievi della seconda ginnasiale a visitare il manicomio di Santa Maria della Pietà. “Perché dei matti - spiegava agli alunni - non bisognava avere paura in quanto malati come gli altri”. Noi giovani psichiatri della lotta antistituzionale non portavamo il camice come segno di ribellione antistituzionale. Nei vari Padiglioni, lo spazio esterno recintato, la cosiddetta “Sorveglianza esterna”, il giardinetto per potere fare quattro passi, i pazienti senza “divise” che avevamo provveduto ad eliminare, riprendendo dalla “fagotteria” gli effetti personali, nelle belle giornate li facevano e io con loro, informandomi della salute e altre necessità. La maestrina coraggiosa mi si avvicinò e disse: - “Tu da quanto sei qui?” - Io per non deluderla, “Da 1 anno”. - e lei, “La famiglia vero?” - ed io “Si!” - e lei “Ecco, vedete, una persona normale, rifiutata dalla famiglia!

 

Le cose andarono molto meglio nel mondo della follia, quando per sbaglio e casualmente ci fu un incontro fortunato: la scoperta degli psicofarmaci. Provati per patologie di medicina interna si rivelarono provvidenziali per curare le psicosi e le nevrosi, non solo in manicomio, ma anche fuori, ambulatoriamente. Un evento propizio e inatteso dopo tante sevizie. È abbastanza conosciuta l’antica fiaba persiana “I tre prìncipi di Serendippo” da cui lo scrittore londinese Horace Walpole introdusse il termine “serendipità” a metà del Settecento, traducendola in inglese. È un neologismo con il quale, nel campo scientifico e nelle esplorazioni geografiche, significa la casualità di una scoperta inattesa, assolutamente non preventivata perché se ne stava cercando un'altra. Serendip era l’antico nome arabo dei mori dell’Isola di Ceylon, abilissimi commercianti, ma il primo a darne notizia nel medioevo fu Marco Polo, che racconto le meraviglie delle rocce antiche dove si trovavano zaffiri, rubini, topazî, berilli, e altre pietre preziose, prima ancora dei Portoghesi, che occuparono l’Isola. Dalla fine della seconda guerra mondiale si smise di parlare di cure da shock e si cominciò a parlare della serendipità per raccontare i miracoli delle pillole della felicità per curare i matti. Ricordo ancora quando ai primi anni Sessanta andavamo al “Mario Negri” di Milano, l'Istituto di ricerche farmacologiche fondato e presieduto da Silvio Garattini - il tenace e sapiente ricercatore bergamasco col classico “dolcevita bianco” - per imparare l’uso corretto dei neurolettici maggiori, gli psicofarmaci col rischio della "sindrome neurolettica maligna" (confusione mentale, rigidità muscolare, ipertermia, iperattività autonomica), di cui si poteva anche morire. Il fatto più clamoroso fu l’efficacia delle benzodiazepine (BZD) nel sedare le crisi epilettiche che si erano scatenate in vari modi per curare varie forme di patologie mentali. Al farmacista istriano di Abbazia (Opatija) Leo Sternbach, ebreo di origini Galiziane diplomato a Cracovia e perfezionatosi in Svizzera - poi immigrato in USA per le leggi razziste fascio-naziste - viene attribuita l’ingente fortuna della Hoffmann-La Roche per la scoperta dei tranquillanti/ansiolitici (Librium, Valium, Mogadon, Rohypnol, ecc) nel 1956 mentre era a Nutley. Sempre lavorando per la ditta svizzera registrò 241 brevetti senza mai tenere nulla per se, ma lavorando felicemente fino a 95 anni e dicendo "Ho sempre fatto esattamente quello che volevo fare". Le proprietà sedativo-ipnotico per le turbe emotive di lieve entità fu scoperta prima del 1940 sfruttando l’attività di un antistaminico, il “Fargan”, una prometazina, derivato fenotiazinico, dotato di spiccata azione depressiva sul SNC. Anche la scoperta dell’impiego della Cloropromazina - nome commerciale “Largactil” - nei disturbi psichiatrici maggiori fu casuale ed extrapsichiatrica. Cominciò il chimico Paul Charpentier che nel 1951 scoprì la rivoluzionaria molecola nei laboratori della Rhône-Poulenc, associata da noi alla Farmitalia. Nel 1952 Henri Laborit un neurochirurgo, anticonformista e curioso, della marina militare francese nato ad Hanoi, ricercatore dell’ibernazione e primo sintetizzatore del GABA (acido gamma-amino-idrossibutirrico), riflettendo sulle qualità preanestesiche della cloropromazina, ne ipotizzò l’impiego come antipsicotico. Proseguirono gli psichiatri di lingua francese Jean Delay, un basco di Bayonne docente di Psichiatria e Neurologia medico primario al “Sainte-Anne” di Parigi, direttore de “L'Encéphale”e il suo Aiuto, Pierre Deniker, un parigino che nel 1951 presentarono uno psicofarmaco, la “Clorpromazina”, un neurolettico maggiore dotato di capacità antipsicotiche, in grado di migliorare o addirittura guarire lo stato di malati mentali ECT-resistenti, ovvero soggetti nei quali diverse sedute di elettroshock si erano rivelate inefficaci. Delay e Deniker, in sei articoli scientifici, rimasti famosi, presentarono una casistica di notevoli miglioramenti in svariate patologie mentali, quali la schizofrenia, disturbi ossessivo-compulsivi, stati di delirio-confusionale, agitazione psicomotoria. Alcuni di questi casi furono giudicati completamente guariti e il riscontro mondiale della scoperta dei due psichiatri francesi rivoluzionò il rapporto tra medici, pazienti e malattie mentali. Cadde la triste fama di “inguaribilità” che circondava la schizofrenia e la psicosi maniaco depressiva. Due anni dopo, nel 1954, la Reserpina, un antipertensivo a basse dosi fu adoperata come antipsicotico, a dosi elevate. Oggi quasi completamente abbandonato, si ricavava dalla rauvolfia serpentina, un arbusto medicamentoso conosciuto per le sue proprietà sedative nel subcontinente indiano dall’antichità. Usato, pare, anche dal Mahatma Ghandi.

 

Analogamente casuali sono state le proprietà antidepressive dell’Imipramina (“Tofranil”, antidepressivo triciclico) scoperte da Roland Kuhn, uno psichiatra svizzero, nel 1955, al quale la Geigy aveva affidato una nuova molecola, la G-223555 per saggiarne gli eventuali effetti antipsicotici sui ricoverati nell’ospedale psichiatrico cantonale di Munsterlingen, presso Basilea.

Invece le prime osservazioni effettuate da Nathan Kline, nel 1957, sugli effetti euforizzanti ed antidepressivi dell’Isoniazide (gruppo antidepressivo IMAO, inibitori delle monoamino ossidasi), un farmaco già utilizzato come antibiotico, per il trattamento della tubercolosi dalla Roche nel 1952.

La tranquillità delle malattie mentali è stata rotta del tutto recentemente da una cannonata sparata nel mondo dell’informazione da un miliardario esagerato, tale Elon Musk, che impianta neuroni in proprio come in una fabbrica di automobili, ma non quelle che sono elettriche. Lo ha annunciato sulla sua azienda privata “X Holdings Corp.”, una delle sue social network di microblogging (già Twitter). Quel che è più grave, ignorando completamente il “Lancet”, il “New England Journal of Medicine”, il “British Journal of Medicine” e altre prestigiose riviste, il produttore ha annunciato il primo chip di “Neuralink” (la marca del suo prodotto che si chiama “Telepathy”) è stato impiantato su un essere umano, aggiungendo che “i risultati iniziali mostrano un promettente rilevamento dei picchi di neuroni". Già che c’era ha aggiunto anche che Tesla perde il 12% a Wall Street. (ANSA - www.ansa.it › Tecnologia › Future Tech. Musk, effettuato il primo impianto Neuralink su essere umano - Martedì 30 Gennaio 2024). In ogni caso era impossibile modificare il rigido clima istituzionale, gerarchizzato, in stato di coattività che si respirava nei manicomi. Tutto andava radicalmente aperto e superato in senso veramente terapeutico. Il primo articolo della vecchia Legge n. 36 del 14 febbraio 1904 così recitava «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». A me ricordava molto il paradosso del film “Comma 22” [11] «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». La contraddizione ossimorica tra “cura” e “custodia” era evidente. La cattività vanificava la possibilità di svolgere una vita contatto, e sui ricoveri di durata, tutto si cronicizzava e cessava di avere un minimo di vitalità. Il personale femminile e quello maschile erano assunti in base alla prestanza fisica e al certificato di buona condotta, nei concorsi provinciali. Gli stessi infermieri, avevano abbastanza umorismo per definirsi “guardiamatti” e compivano spontaneamente ogni sforzo per non esserlo. In ogni caso, durante la lotta contro l’istituzione, la solidarietà tra medici e infermiere/i era strategicamente vincente e indispensabile. Talvolta ottenemmo risultati straordinari a favore dei pazienti, quando riuscimmo a trascinare dalla nostra parte le suore capo-sala del Padiglione. Ricordo anche che i sindacati degli infermieri presero l’iniziativa di organizzare con gli psicologi un Corso delle 150 ore per il personale che stava in ospedale: un obbiettivo fondamentale era la formazione psicologica del personale di assistenza. Non fu sufficiente la spinta, l’entusiasmo le alleanze, la continuità iniziali. Non essendosi perfezionata il finanziamento della spesa, nè garantita l’assistenza domiciliare, le famiglie si sentirono tradite. Le Province avevano un apposito bilancio per gli OPP che fin da subito fu disperso, dirottato e inoltrato per sentieri difformi, comunali, regionali, statali, andata e ritorno fino a insabbiarsi nel grande deserto della povertà di uno Stato che fabbrica armi e fa guerre (ancora!) per conto terzi.

 

I primi tempi della riforma, la psichiatria sul territorio garantiva in qualche modo l’assistenza domiciliare e il sostegno alle famiglie con una efficace lavoro degli assistenti sociale, Pasqualini Camillacci, Giangreco, era il frutto di un grande impegno. Poi col passare del tempo, il pensionamento senza sostituzione, la sordida rivincita del sistema assicurativo, mettiamoci anche il tramonto dell’entusiasmo, una serie incredibile di equivoci e furbizie, finirono per dirottare su altri interessi e capitoli di spesa, le finanze per la salute pubblica e la fonte del SSN inaridì, malgrado su ogni scontrino, venisse calcolata la quota sanitaria. Basterebbe una semplice riflessione: perché gruppi affaristici di opaca natura, investono sempre più spesso nella sanità e poi chiedono la convenzione? Il grande appalto della salute, dal gabinetto di analisi, agli accertamenti per immagini, alla riabilitazione, alle case di cura per anziani ed altre attività sanitarie a pagamento, di chi fa gli interessi? Sulle prime sembrò una conquista sociale tanto il battistrada, la famosa “Legge 180/78”, quanto la “L. 833/78”. In seguito, l’aziendalizzazione della salute fu un vero e proprio omicidio della grande Riforma Sanitaria Italiana del 1978. In particolare la Legge n. 502, del 30 dicembre 1992, in virtù della quale le U.S.L. vennero trasformate in aziende sanitarie locali, dotate di autonomia e svincolate da un'organizzazione centrale a livello nazionale, poiché dipendenti dalle regioni italiane, fu un disastro. Da un lato ogni atto amministrativo prevedeva una piccola quota di accantonamento per la salute, dall’altro la burocratizzazione estrema e la parcellizzazione della salute finirono per distruggere un perversa tela di Penelope con personaggi intermedi (il management) che poco avevano a che vedere con la salute, ma molto con il profitto, l’allungamento della tempistica, le linee guida per il massimo sfruttamento delle risorse ospedaliere, anche e sopratutto umane. Si guardi come sono ridotti oggi i Pronto Soccorso Ospedalieri, le Accettazioni, i Dea, le Unità di Emergenza, di Consulenza, Pronto Intervento, H24. In un territorio completamente sguarnito di servizi, nessuno va più a casa. Figuriamoci dei malati psichiatrici! Purtroppo sono passati 36 anni dalla “Centottanta” - il battistrada della psichiatria - e pochi cambiamenti sono avvenuti in maniera profonda e radicale nel campo della patologia mentale. Personalmente sono molto deluso. Talvolta colgo qualche imprecazione indirizzata genericamente verso “i basagliani”: «Colpa vostra che avete aperto i manicomi e mandato tutti i matti a casa!», talaltra sento dire mellifluamente: «Non sarà il caso di riformare la legge dei matti? Ringiovanirla un po’? Renderla più aderente alla realtà odierna?». Il fatto è che nessuna di codeste due “Leggi dei matti”, con o senza divisa, tanto la “180”, quanto la “833” sia vecchia o invecchiata, semmai non sono mai state completamente applicate, come lo fu, e lo è tuttora in buona parte, il National Health Service (NHS), il celeberrimo Sistema Sanitario Britannico, completamene gratuito per tutti i sudditi della Corona Inglese, fin dal 1948. Per anni, sulla base di una tassa appositamente predisposta le cure mediche e la distribuzione di farmaci, sono state del tutto gratuite. Ora pagare le tasse per la sanità, l’istruzione, il welfare è come incitare gli italiani a bestemmiare in chiesa! Bisognerebbe semmai domandarsi come si sia manifestata le desertificazione degli ospedali minori, la mancanza di rinnovo del personale andato in pensione, la fuga dei pazienti verso miraggi di ospedali maggiormente pubblicizzati per interessi personali e del tutto privati. Un esempio? Quando il 14 luglio 1948 un celebre leader politico subì un attentato, fu immediatamente ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma dove il Prof. Pietro Valdoni, titolare della Cattedra universitaria di Patologia chirurgica intervenne in regime d’urgenza salvandogli la vita. Un paio di anni dopo, quando da studente di medicina, con lui sostenni l’esame di Patologia Chirurgica, se ne parlava ancora. Nel tempo presente è venuto a mancare un leader politico, diciamo molto bizzarro, un “tycoon” che li chiamano in America. Aveva una suite personale al San Raffaele, una struttura ospedaliera privata convenzionata con tutto: Medicina Universitaria, Medicina Ospedaliera e ogni sorta di controllo della salute. Questa è la differenza sostanziale con la realtà di oggi, dal punto di vista sociale, economico e culturale. A mio avviso è totalmente carente il finanziamento per quello che nel Regno Unito chiamano “welfare” e che in Italia è indicato anche nel “welfare aziendale”. A proposito di “180”, potrebbe essere utile leggere I “nuovi” manicomi di Benedetto Saraceno, a meno che non si voglia fare come nel Brasile di Bolsonaro.

 

Note

01. Si veda Carmine D’Angelo. Il neurone narrato da se medesimo. Idelson Gnocchi. Napoli, 1996. CARMINE D’ANGELO, UGO CERLETTI E IL LEONE DELLO ZOO. In “Tutti Allucinati” Il manicomio visto da dentro. Finché c’è stato. di Sergio Mellina 7 luglio, 2018 Pol.It Psychiatry on line www.psychiatryonline.it/node/7464

02. Cfr. Ce n'est qu'un début A 50 anni dal 68 di Sarantis Thanopulos, Pol.It Psychiatry on line Italia, 24 dicembre 2017, Riflessioni (in)attuali, Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune. www.psychiatryonline.it/node/7138

03. Karl Jaspers. Psicopatologia generale, traduzione dalla settima edizione tedesca a cura del prof. dott. Romolo Priori. Il Pensiero Scientifico Editore Roma, 1964.

04. A pensare il Direttore del Manicomio veniva in mente Emilio Salgari: “Il tesoro del Presidente del Paraguay”, 1894 «Ed io sono il Capitano del Pilcomayo, e in questo momento a bordo del mio legno comando io dopo Dio»

05. Si veda “La prima volta dallo psichiatra - suggerimenti di Gilberto Di Petta” Francesco Bollorino conversa con Gilberto Di Petta. Rubrica “Caffè e Psichiatria” n. 97 Pol.It Psychiatry on line 2 gennaio, 2024. www.psychiatryonline.it/node/9967

06. Cfr Agostino Pirella (1930+2017) psichiatra fenomenologico impegnato nel sociale. In memoriam. di Sergio Mellina. Pol.It Psychiatry on line 2 luglio, 2018. www.psychiatryonline.it/node/7449

07. Cfr. Elliot S. Valenstein. Cure disperate. Illusioni e abusi nel trattamento delle malattie mentali. Giunti Editore Firenze 1994.

08. Si veda “Weggenossen. Le parole dell’amicizia, quelle della follia e i compagni di strada della psicopatologia fenomenologica per ricordare Bruno Callieri (1923-2012)”. di Sergio Mellina. Pol.it 3 luglio 2018. www.psychiatryonline.it/node/7452

09. Cfr. L’elettroshock. Una “terapia” empirica, inefficace e anche “pestifera” di Sergio Mellina Pol.It Psychiatry on line 25 febbraio, 2019 www.psychiatryonline.it/node/7879

10. Cfr. Luciano Del Pistoia (1937-2023) psichiatra fenomenologico e dantista versiliese di Sergio Mellina. Pol.It Psychiatryon line Italia, 2 novembre, 2023, www.psychiatryonline.it/node/9925

11. “Comma 22” USA 1970, un film di Mike Nichols, ispirato al romanzo di Jospeh Heller, una satira feroce del militarismo negli anni del Vietnam, con Jon Voight, Martin Balsam. Orson Welles.

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