Relazione tenuta a Parma, il 6.3.04, all’interno di una serie di seminari
sull’adolescenza, organizzati dalla Sipre).
Ora in “La scuola di Narciso. Analisi, note, progetti”, autoprodotto con Amazon, p.75 \95
1. Paidòs agogòs: accompagnatori di fanciulli. Invarianze ed adattamenti nel tempo
Poiché l’uomo, come diceva Bernfeld, è un animale nidicolo, il processo di inculturazione richiede in ogni società uno sforzo da parte della comunità degli adulti tendente a far si che la nuova generazione che emerge possa essere accolta dalla vecchia senza soverchi turbamenti.
La psicoanalisi e l’etnologia, infatti, su questo concordano: sul fatto che, come aveva già lucidamente messo in luce Van Gennep, se il processo di inculturazione non fosse guidato e – direi – sancito dalla vecchia generazione rappresenterebbe, di per sé, un pericoloso segnale di “discontinuità” che turberebbe fortemente la pace sociale e l’equilibrio inter-generazionale.
Ciò era già vero in passato, a fronte di culture molto meno dinamiche della nostra. Ed è ancora più vero oggi, nell’epoca della globalizzazione, a fronte di una società complessa ed estremamente dinamica, dai confini incerti e tendenzialmente, ma confusamente, planetari, che perciò sedimentano identità deboli ed erratiche. Fin qui la riflessione etnologica.
Ma anche secondo la psicoanalisi – come hanno messo in evidenza Winnicott, Anzieu e Green – la cultura, cioè l’insieme degli usi e dei costumi di una società, le sue credenze i suoi postulati di base, possono essere visti come un enorme apparato difensivo di tipo gruppale che permette ad un insieme discriminato di individui di dare un senso univoco alla propria esistenza, di governare il cambiamento, di costruire (e ricostruire) nel tempo una specie di “oggetto transizionale collettivo” (Green) che può essere visto come il prodotto finale di un processo che inizia a partire dalla prima separazione dalla madre e continua per tutta l’esistenza nel tentativo individuale e gruppale di ribadire ed espandere nel tempo la propria appartenenza.
E’ a partire da quella separazione primigenia e dal tentativo di vincere l’angoscia che deriva dalla constatazione che a quel punto “l’individuo è: solo indifeso nudo” (Winnicott, 1974) che si innesca dentro di noi quel processo di in-lusione \ de-lusione che, nel tentativo di ribadire ed allargare la nostra appartenenza, ci porterà dapprima ad istituire l’oggetto transizionale, poi il gioco ed il gioco condiviso, infine l’operatività , l’operatività condivisa, l’etica del lavoro e più in generale l’appartenenza alla nostra specifica cultura.
Ed anche secondo la psicoanalisi la comunità degli adulti, al fine di assecondare tale processo di continua espansione della nostra appartenenza mano a mano che il processo maturativo va avanti, ed al fine di vincere le angosce che derivano dalla vicinanza con la nuova generazione, istituisce un insieme di funzioni e delega in particolare qualcuno all’esercizio di tali funzioni, che in effetti a livello potenziale sono presenti in tutti i soggetti. Queste funzioni sono quelle educanti e coloro che, in nome della società, le esercitano sono i genitori innanzitutto (Meltzer e Harris) ed i formatori di ogni ordine e grado (Käes).
I primi, e cioè i genitori, a fronte di un desiderio filiale di continuare ad acquisire senso per loro tramite, esercitano un insieme di funzioni che favoriscono la introiezione o la proiezione in base alle quali si determina un processo che, nel migliore dei casi porterà nell’età adulta all’autonomia ed al progetto, altrimenti a vari stati di dipendenza e di spoliazione di sé.
I secondi, e cioè gli educatori – a fronte ad un discente che, come ci ricorda icasticamente la Dolto, chiede sempre ai propri maestri “fammi qualcosa sul mio corpo”, attraverso “il desiderio di formare” (Käes), o meglio attraverso la specificità di questo desiderio, che si coniuga diversamente in ciascuno di loro ed in ciascuna società, esercitano, sempre in nome della società, un’influenza sul discente qualitativamente sovrapponibile a quella esercitata dai genitori.
Ed anzi si può dire che ogni società istituisce un “sistema educativo”, cioè: “quel tessuto, fatto di pratiche educative, che comprende la scuola, ma non si esaurisce assolutamente in essa, e che si dirama all’interno di varie istituzioni, o in luoghi meno formali” (Becchi, 1987), che hanno come fine più o meno esclusivo, più o meno marginale, più o meno autocosciente, quello dell’educazione, secondo procedure che sono inscritte all’interno delle singole tradizioni istituzionali e non, e che sono soggette a più o meno rapidi cambiamenti a seconda delle concrete condizioni storiche in cui concretamente operano i soggetti che a tali pratiche sono socialmente preposti.
Quindi ogni società istituisce un corpo speciale di “accompagnatori di fanciulli” da essa preposto all’accoglienza ed alla educazione della nuova generazione, di modo che quest’ultima possa inculturarsi ed acquisire il “carattere etnico” (Devereux) della cultura di appartenenza e rimuovere “l’inconscio etnico”, in un equilibrio dinamico che muta nel tempo in base alle mutevoli esigenze d’ordine strutturale e culturale di ogni società. Nell’esercizio di queste due funzioni possiamo notare alcune invarianze ed alcuni mutamenti nel tempo.
Le invarianze sono essenzialmente quelle presenti a livello strutturale che potremmo così riassumere: ogni società, indipendentemente dalle modalità specifiche, presenti a livello diacronico e sincronico, secondo le quali poi esse sono in effetti esercitate: – si dà delle funzioni educanti miranti al controllo dei sistemi di inculturazione; – individua, distingue e prepone un insieme di “sacerdoti del passaggio” che guidano la nuova generazione lungo le varie fasi del processo maturativo; – istituisce una banda più o meno ampia di comportamenti attesi o tollerati, nonché dei modelli di crescita e di adultizzazione; – tende a mettere fuori gioco, secondo una banda altrettanto oscillante, comportamenti disattesi o tabuizzati.
Ogni società cioè sente il bisogno di accompagnare la crescita della nuova generazione per esigenze che sono nel contempo difensive (Van Gennep) ed espansive. Weinstein e Platt hanno ben messo in evidenza, secondo un modello interpretativo che è a metà strada fra psicoanalisi e sociologia parsonsiana, le vicissitudini in base alle quali poi tali esigenze possono persistere nel tempo o cambiare. E nel far ciò individuano un percorso che, anche in momenti di crisi, solitamente determina come dei modelli (dei pattern) di cambiamento. Pattern che a loro modo di vedere variano secondo questo schema: 1. In un primo tempo i modelli coatti di espressione sociale tradizionali funzionano e tendono a stabilizzare l’interazione sociale; 2. Col variare delle esigenze sociali tendono a diventare inadeguati, disfunzionali e distruttivi; 3. Da questo stato di crisi nascono nuovi modelli coatti di espressione che, alla fine, 4. Vengono stabilizzati.
2. I proff come sacerdoti del passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza e da questa all’età adulta: la metafora del labirinto
Una volta inquadrato in questo modo tutto il percorso vediamo ora più da vicino ciò che accade in adolescenza. Se noi continuiamo a guardare alla scena in un’ottica funzionalistica ben presto ci accorgeremo che anche l’adolescenza – così come tutto il resto del percorso che dall’infanzia conduce all’età adulta, come abbiamo appena cercato di mettere in evidenza – da una parte ci apparirà in tutto il mondo come una terra di mezzo, separata e congiunta nello stesso tempo sia col passato che col futuro del soggetto, funzionalmente preposta a favorire quella vera e propria migrazione interna che dai comodi e domestici territori dell’infanzia e della dipendenza conduce il giovane verso gli aspri e impegnativi orizzonti dell’autonomia[1]. Dall’altra, a fronte di questo elemento che potremo ritrovare identico a livello funzionale in ogni cultura, potremo riscontrare una infinita gamma di possibilità secondo le quali poi in ciascuna cultura si definiscono e si possono ridefinire nel tempo le modalità concrete attraverso le quali tale migrazione avviene.
In questo modo ad una pluralità e ad una specificità delle modalità concrete con cui ciascuna cultura affronta e risolve il passaggio – alcune delle quali così brevi che si esauriscono nell’atto stesso del passaggio, altre, come la nostra, che sembrano tendere ad avere gli anni di Nestore e di Priamo, e a prolungarsi ben oltre la linea d’ombra oltre la quale ci si attende che cominci l’età adulta – corrisponderà una unitarietà a livello funzionale, riscontrabile in ogni cultura, e che potremmo così riassumere:
Si tratta dovunque di funzioni inerenti il passaggio e la sua cerimonializzazione; di funzioni inerenti il processo maturativo ed i compiti di sviluppo propri di questa età della vita; di funzioni inerenti le modalità di aggregazione dell’ex adolescente nella comunità adulta, etc. – In una parola di funzioni inerenti nel contempo sia le esigenze universali, sia le modalità socio-specifiche di ‘riproduzione sociale’[2] riscontrabili in ogni cultura.
E qui, nell’introdurre la funzione che gli adulti, e la scuola in particolare, ricoprono lungo il percorso di passaggio, vorrei proporvi l’immagine del labirinto. Non quella che solitamente abbiamo in mente allorché oggi pensiamo al labirinto: cioè quella di un luogo in cui facilmente ci si può perdere. Ma quella, direi, più archetipica, del labirinto come luogo in cui ci si perde e ci si ritrova: ci si perde come bambini e ci si ritrova come adulti. Infatti in tutto il bacino del Mediterraneo, così come in molte altre parti dell’Europa, in epoca preistorica il labirinto era, come hanno dimostrato gli archeologi, il luogo principe dei riti di passaggio dall’età infantile all’età adulta: luogo elettivo di rinascita psicologica che veniva proposto, a cavallo della crisi puberale a ragazze e ragazzi al fine di aiutarli a ridefinirsi, a ricollocarsi nella gerarchia sociale, a re-identificarsi come adulti (Kern).
Rito di passaggio e di iniziazione all’età adulta che come ogni rito veniva cerimonializzato dalla comunità attraverso una procedura che consisteva nell’ingresso e nell’uscita dal labirinto, che in questo modo era visto come una specie di utero sociale (Kern) che aveva in sé la possibilità di sottrarre il non più bambino ed il non ancora adulto da una penosa e pericolosa condizione di assenza di significato, e di ri-collocarlo all’interno del più confortevole e meno angosciante universo di cose conosciute e definite. Condizione penosa per il soggetto appena pubere, ma pericolosa – come ci ricorda Van Gennep – anche per gli adulti della società di cui quel soggetto neo-pubere faceva parte poiché non definibile all’interno di codici certi che ne permettessero il riconoscimento e la discriminazione.
La mimesi della rinascita, rappresentata letteralmente attraverso l’ingresso e l’uscita, di fronte a tutta la comunità, del neo-pubere nel e dal labirinto permetteva un rapido ingresso nel mondo degli adulti, riducendo il momento di pericolosa discontinuità ed la conseguente situazione di liminalità ad un insieme di atti dovuti e cerimonializzati che favorivano la ricomposizione del corpo sociale come un tutto esplicato in ogni sua manifestazione, comprese quelle che, come la crisi puberale, altrimenti avrebbero minato alle fondamenta l’armonia e la pace fra le generazioni.
L’ingresso e l’uscita rituale nel labirinto infine veniva guidata – cosa per noi importantissima – da alcuni adulti preposti dalla comunità ad officiare la cerimonia; cioè da alcuni sacerdoti del passaggio che accompagnavano il neo-pubere lungo il percorso che mimava la morte e la rinascita. Cioè gli accompagnatori dei fanciulli che erano alle soglie della pubertà si trasformavano in sacerdoti del passaggio.
Tornando con un salto di millenni all’oggi, la domanda che mi pongo e vi pongo ora è: la scuola è uno dei labirinti odierni in cui i nostri giovani passano dall’infanzia all’età adulta? Cui segue subito l’altra: e i proff rappresentano o no per noi (insieme, certo, ad altre componenti dell’ecosistema adulto) quei sacerdoti del passaggio che accompagnano oggi il giovane lungo il tragitto verso l’età adulta?
La mia risposta si colloca ancora nel filone funzionalista e mi porta a dire che, se distinguiamo fra ciò che effettivamente succede a livello funzionale e la coscienza che gli adulti che lavorano nella scuola media inferiore e superiore odierna hanno di svolgere queste funzioni, noi concluderemmo che da una parte la scuola è oggettivamente un luogo di cerimonializzazione del passaggio e che essi svolgono nei fatti una funzione di sacerdoti del passaggio, che essi officiano la cerimonia del passaggio scandendo ad esempio le tappe della crescita psicologica, ma che dall’altra in effetti essi sono spesso totalmente ignari di essere gli attuali sacerdoti officianti un simile rito.
Le ragioni di questo scarto fra effettiva pratica quotidiana sul piano della ritualizzazione del passaggio e mancata coscienza adulta del significato, o del meta\significato che tale pratica assume sul piano della crescita psicologica, sono da ricercarsi nelle varie complicazioni implicite nel passaggio all’età adulta nella nostra società complessa. Esigenze d’ordine materiale:– la estrema complessità che è implicita nella formazione di una forza-lavoro adatta alle attuali esigenze produttive; e psicosociale: il fatto che la soggettività nella società complessa, per potersi dispiegare pienamente, implichi un rapporto fra le generazioni molto meno armonico ed organico di quello occorrente nelle società più semplici.
Entrambe queste esigenze sono all’origine stessa dei quel prolungamento del momento del passaggio, di quella vera e propria divaricazione fra fanciullezza ed età adulta che abbiamo chiamato adolescenza (adolesco = mi nutro), e che è il tempo occorrente a nutrire il non più fanciullo ed il non ancora adulto affinché possa giungere all’età adulta ben forte e preparato a sostituire la precedente generazione.
In questo modo però l’adolescenza diventa un lunghissimo momento liminale in cui il soggetto che si va formando si trova come sospeso in un’ “ Isola che non c’è” , cioè in un luogo a parte che ha tutto il fascino, ma che è pregno anche tutte le illusioni dell’Isola che non c’è.
La non coscienza da parte del mondo adulto della funzione cerimonializzante che molte azioni esercitate sui o dai giovani hanno (pensiamo ai passaggi da una classe all’altra, e da un ciclo scolastico ad un altro; pensiamo al significato della conquista della notte ed al fatto che ciò sia fatto spesso in totale discrasia col mondo adulto, e\o con l’aiuto, sempre relativo, che può derivare dal gruppo di pari) così appare legata alla enorme dilatazione del cerimoniale, che diventa in questo modo una componente del paesaggio abitato dall’adolescente che risulta invisibile proprio in base alla sua diafana presenza.
3. I perché di una scarsa autoconsapevolezza da parte del labirinto – scuola
Cosa dicevano i sacerdoti del passaggio allorché nel cuore del labirinto (o, ancor prima, in fondo alle caverne istoriate[3]) comunicavano agli iniziandi i segreti della vita? Nelle società di cacciatori i segreti della caccia, in quella agricole quelli che potevano fare del giovane un buon contadino; e per le ragazze le attese di ruolo connesse con il loro ingresso nella casa come buone madri e buone custodi del focolare domestico.
Ma, a fianco di queste informazioni, ve n’erano certo altre più legate alla sessualità e quindi alla ri\definizione di quella che era l’identità pre-pubere in quella che stava per diventare l’identità pubere adulta.
Il labirinto, la caverna erano cioè i luoghi della rivelazione dei misteri più profondi inerenti il mondo della produzione e della riproduzione : misteri che, una volta rivelati, sancivano l’ingresso in una nuova dimensione sia del corpo che della psiche dell’iniziando, che veniva così in\segnato delle stigmate (spesso reali, oltre che simboliche: pensiamo alla circoncisione!) che attestavano la sua nuova appartenenza.
A ben vedere allora (e fino a qualche decennio fa in tutte le società semplici) la simultaneità con cui scattavano dentro all’iniziando i tre timer che ne permettevano l’accesso all’età adulta (1. Maturità biologica ; 2. maturità emozionale ; 3. autonomia) non permetteva al soggetto di dispiegarsi pienamente sul piano soggettivo, di individualizzarsi e di inserirsi in quanto “individuo” (nel senso letterale del termine) all’interno della società adulta. La velocità con cui avveniva il passaggio non gliene lasciava il tempo. Ne derivava una identità adulta in cui l’Io sociale (gruppale) aveva nettamente il sopravvento su quello individuale.
Venne poi una lunga stagione, quella che parte alla fine del Medioevo nella città protoborghese, all’interno della quale l’individuo modernamente inteso è andato incubandosi fino esplodere nella singolarità della individualità borghese: in questa società i tempi della formazione cominciano ad allungarsi notevolmente e vede la luce dapprima la bottega artigiana e poi la scuola: cosicché, come si prolungano i tempi della maturazione e della individuazione, così si prolungano nel tempo quelli delle cerimonie borghesi del passaggio: l’apprendistato e la formazione scolastica, per l’appunto.
Oggi invece il dilatarsi all’infinito dei tempi è all’origine del misconoscimento da parte degli adulti dell’importanza e anche dell’esistenza del labirinto iniziatico, la cui significazione, in termini di rito di passaggio, viene così pressoché totalmente scaricata sulle spalle del giovane, ma la cui persistenza nel tempo permette a quest’ultimo di costruirsi come una palestra: un ginnasio della maturità emozionale e dell’autonomia, che poi è la sua vita in questo luogo liminale che comprende la scuola, ma non si esaurisce in essa, che comprende gli adulti, ma ne può fare anche a meno qualora essi non siano ricettivi nei confronti delle mille ansie che il lungo percorso sedimenta dentro all’adolescente. Attraverso questo percorso alla fine egli diventerà un soggetto adulto, dotato di una identità gruppale, ma anche (è questa la novità più sconvolgente che la borghesia va lasciando in eredità alle generazioni che verranno) individuale, e perciò potenzialmente eccentrica, rispetto a tutto l’universo adulto costituito.
Identità gruppale ed individuale si pongono così in un equilibrio dinamico in cui il dato della sessualità e della riproduzione, è ancora una volta, insieme a quello della produzione, l’elemento centrale intorno al quale si definisce il mondo dei significati che in adolescenza vanno criticamente acquisiti in modo che il giovane possa ridisegnare e re-inventare il mondo in un rapporto di confronto-scontro con la generazione precedente.
Gli adulti operanti nella scuola – così come tutto il resto dell’ecosistema adulto – in questo modo non hanno alcuna precisa sensazione del significato che il passaggio e la sua cerimonializzazione assumono per il giovane; non sono in grado di compiere alcuna riflessione sui risvolti inerenti la crescita psicologica impliciti nelle peripezie che lungo il tragitto il giovane ha modo di sperimentare; non hanno alcuna coscienza di essere fra le poche entità sociali che concretamente svolgono la funzione di sacerdoti officianti il passaggio (Angelini, 2001). Per cui anche nei pur molti casi in cui intuitivamente i docenti che operano con gli adolescenti compiono passi significativi sul piano dell’aiuto nel doloroso e luttuoso processo di passaggio, lo fanno senza rendersi pienamente conto di ciò che fanno: non riescono cioè a passare da una conoscenza intuitiva ad una appercezione piena e, direi, programmatoria su questo piano.
In secondo luogo, se noi tentiamo un’analisi delle ragioni di questo scarto fra effettiva pratica quotidiana sul piano della ritualizzazione del passaggio e mancata coscienza adulta dei significati, o dei meta\significati impliciti in tale pratica, emergono tutte le varie complicazioni che nella nostra società complessa sono connesse al lungo passaggio dell’adolescente all’età adulta.
Nella nostra società infatti innanzitutto esistono da una parte esigenze d’ordine materiale, connesse alla estrema complessità dei processi formativi necessari al fine di forgiare una forza-lavoro adatta alle attuali (e future) esigenze produttive, che rendono il passaggio all’età adulta lunghissimo, molto poco scandito sul piano delle sue tappe intermedie, insicuro nei tempi, nei modi e nell’assunzione dei livelli di autonomia connessi al suo esito: l’ingresso nell’età adulta (Laffi, Ross).
Dall’altra esigenze di tipo psicosociale che influiscono sulla definizione dell’immagine di sé e sui livelli di autonomia e di originalità che l’adolescente ha o aspira ad acquisire. Mi riferisco soprattutto alla profonda discrasia che si verifica nell’adolescente che, per un verso è sospinto in una società complessa come la nostra ad espandere ed individualizzare oltremodo la propria soggettività e ad assumere un atteggiamento nei confronti della generazione che lo precede molto meno armonico ed organico di quello occorrente a diventare adulto nelle società più semplici; per un altro verso – come giustamente hanno messo in evidenza la Scabini e la sua équipe di ricercatori della post-adolescenza – ad assumere un atteggiamento conformista, a comprimere ed mettere tra parentesi la sua individualità poiché, rimanendo in famiglia troppo a lungo, deve annegare la sua originalità e malgré soi rimanere in una posizione subordinata rispetto all’universo genitoriale.
In questo modo l’enorme dilatazione dei tempi del passaggio, l’enorme diluizione nel tempo dei vari aspetti del cerimoniale appaiono come le cause prime di questa mancata coscienza da parte del mondo adulto della funzione cerimonializzante che pure assumono molte azioni esercitate dagli adulti, e dai docenti in particolare sui giovani: pensiamo ai passaggi da una classe all’altra, da un ciclo scolastico ad un altro; così come dai giovani su se stessi e sul proprio corpo: pensiamo al significato della conquista di quel vero e proprio luogo liminale rappresentato dalla notte, al significato che assumono i tatuaggi, e tutti gli altri segni più o meno rischiosi con i quali il giovane marca le varie fasi del passaggio in solitudine(Le Breton, Angelini A., Pietropolli e Marcazzan), in assenza di adulti che lo confortino e lo confermino nella sua crescita, ed anzi spesso in presenza di un mondo adulto che si presenta ai suoi occhi in totale discrasia con i suoi tentativi autoterapeutici, e con l’aiuto sempre relativo che può derivare dal gruppo di pari.
In questo modo la dilatazione dei tempi in cui si esplica il cerimoniale semina lungo il tragitto di crescita tutto un insieme di segni che paradossalmente, pur diventando una componente evidente del paesaggio abitato dall’adolescente, risultano però invisibili al mondo adulto poiché troppo incombenti su di esso, troppo carichi di significati incomprensibili, che pure vedrebbero tutto l’ecosistema pronto a montar su in un modo o nell’altro, come dice Pietropolli, sul piano dell’interpretazione e dell’azione se solo ci fosse a portata di mano qualcuno pronto all’aiuto nell’opera scoperta e di decifrazione.
4. Adolescenti e adulti nella scuola odierna: l’isterizzazione della scena scolastica
Nel ribadire che con il termine ‘educatori’ non intendo solo riferirmi ai docenti che lavorano con gli adolescenti all’interno della scuola, ma anche a tutti coloro che, come dice Egle Becchi, a vario titolo operano all’interno del “sistema educativo”[4] cercherò ora di essere più preciso e discriminato circa quanto detto prima a proposito della conoscenza intuitiva che – nonostante tutto – molti educatori oggi tendono ad avere dei significati psicosociali che sono impliciti nella loro consuetudine con i preadolescenti e gli adolescenti. E nel far questo partirò dalle rappresentazioni sociali, cioè dalle immagini che della scuola hanno gli adulti e in particolar modo gli operatori della scuola: e cioè i proff.
Nelle nostre città (io mi riferisco alla realtà reggiana, ma penso che lo stesso si possa dire di qualsiasi realtà metropolitana italiana) non vi è solo una immagine della scuola, bensì un pluralità di immagini, che spesso vanno, al di là del tipo di funzioni da essa effettivamente svolte nella pratica educativa.
Si va da un versante più assistenziale, con attese di tipo suppletivo rispetto all’attività educativa svolta dalla famiglia, come avviene soprattutto nel caso della prescuola, ad un versante meno sussidiario rispetto all’attività educativa svolta dalla famiglia, e via via più autonomo e professionalizzante. Come dire: dall’assistenza all’istruzione[5].
Ciò non toglie che in una parte sempre più ampia della scuola stia montando una grossa sensibilità fra gli addetti ai lavori circa i problemi relazionali che nascono in classe nella doppia dimensione del rapporto fra pari e fra docenti e discenti. Sensibilità circa la contiguità fra educazione ed accudimento nella prescuola (pensiamo a quanto ciò dipenda dalla psicoanalisi infantile e dall’etologia umana); e fra l’educazione e istruzione mano a mano che si passa alle elementari, e da queste alle medie ed alle superiori. Contiguità che è riscontrata anche da una parte delle famiglie.
In questo modo attraverso l’influenza esercitata da questo tipo di operatori e di genitori si sta gradatamente diffondendo l’idea che l’obiettivo educativo sia ravvisabile sia nell’apparente lavoro di accudimento svolto nei nidi e nelle materne, sia – ed è questo che a noi interessa maggiormente – dentro al rapporto educativo che i docenti delle medie inferiori e superiori hanno con i propri discenti adolescenti: rapporto che ovviamente, se il docente non intende rinunciare ai compiti legati all’istruzione certamente andrà sempre embricato col fare operativo.
Perciò si può tranquillamente dire che, come c’è una crescente richiesta da parte delle famiglie di un nido più educativo, di una materna più educativa, c’è anche oggi nelle nostre città una parte consistente della scuola (maestre, proff) che non vivono bene la costrizione del loro mandato all’interno delle anguste stanze dell’istruzione, e che concretamente si pongono e si impongono, a fianco ai compiti di istruzione, obiettivi educativi spesso intrecciati con i primi, in una situazione però che potremmo definire di ‘cogestione educativa’ molto polemica con le famiglie, e in assoluto contrasto con le indicazioni e le prescrizioni degli istituiti di pianificazione scolastica europei e nazionali [6].
È in questa scuola in ogni caso, e nonostante le frizioni con le famiglie, che si è a un passo dal passaggio dalla conoscenza intuitiva dei problemi del passaggio, come dicevamo prima, ad una conoscenza più razionale e trasformativa. E’ su questa scuola che, come vedremo meglio nell’ultimo paragrafo, sarà possibile contare allorché i già gravi problemi di integrazione dei migranti si accentueranno ancor di più. E’ all’interno di questa scuola che il passaggio da un clima basato su difese di tipo ossessivo in cui vigevano rapporti centrati sulla formalità ad un clima più informale può sedimentare pratiche educative centrate su un accompagnamento all’età adulta più ponderato e autocosciente dei profondi significati che l’accompagnamento stesso assume all’interno del processo maturativo dell’adolescente.
Per comprendere meglio la natura di questo cambiamento partiamo dall’analisi, direi classica, che Peter Fürstenau, in un suo saggio apparso significativamente intorno al sessantotto, aveva fatto della scuola pre-sessantottina. In quel lavoro Fürstenau ci proponeva un’immagine della vecchia scuola in cui prevalevano la rinuncia all’informalità, la spersonalizzazione dei rapporti, “l’aggressione contro le tendenze alla familiarità sia negli allievi, sia nel maestro”, la presa di distanza dai problemi inerenti alla relazione, la conseguente tendenza ad assumere sulla scena scolastica difese incentrate sul “rituale pedagogico”, cioè difese di tipo ossessivo, ed un’analisi del fallimento di questo tipo di difese a partire da una lettura dei contenuti aggressivi e erotici innescati nel docente dalla situazione di squilibrio di poteri presente in classe.
Ebbene, a partire dal ’68, dalle spinte ad esso riconducibili circa la riduzione delle distanze fra generazioni, e dalla opzione a favore dell’informalità che caratterizzò quell’epoca e che vide nella scuola il primo e più significativo momento di sperimentazione di un rapporto più ravvicinato e informale fra le generazioni, tutto questo praticamente non c’è più: l’opzione per la formalità e la distanza nei fatti è stata abbandonata in direzione di una opposta opzione per l’informalità e per la vicinanza sia nel rapporto verticale docente – discente, sia in quelli orizzontali fra discenti e fra docenti. Invece a livello formale il quadro dell’istituzione – scuola è rimasto ancorato alle vecchie regole della scuola tradizionale ingenerando non poche ambiguità aggiuntive ad una situazione che già presenta in sé, come vedremo, molti elementi di confusione e di malessere legati alla nuova situazione.
Ciò ha provocato, a mio avviso, una isterizzazione della scena scolastica con conseguenti scelte sul piano difensivo che vanno sempre più trasformando la classe da luogo liminale e nascosto in cui vigeva la tematica dell’allontanamento e della dissimulazione dei sentimenti in un vero e proprio scenario in cui vengono previsti ed esaltati sia la teatralità ed i drammi legati ai vari problemi scolastici sia quelli originati nei docenti e nei discenti dalle problematiche relazionali inerenti la crescita ed i processi di identificazione che, in adolescenza, diventano anche, come dice Octave Mannoni, processi di più o meno ostentata, ambivalente e sofferta disidentificazione.
In una situazione di questo genere è indubbio che anche le modalità difensive prevalenti in tutti gli attori presenti su questo scenario siano molto diverse da quelle fobico-ossessive che contraddistinguevano la situazione precedente. Il quadro di fondo è quello volto alla teatralizzazione, innescata dalla situazione di estrema vicinanza all’oggetto. Teatralizzazione che, si badi bene, non è ‘la’ difesa presente nella scuola d’oggi (così come la cerimonializzazione non era ‘la’ difesa di quella di ieri), ma semplicemente, nell’un caso e nell’altro, il timbro secondo il quale si esprimono le difese. Su questa modalità isterica, che fa da timbro, da canovaccio, si dispiegano varie strategie difensive, più o meno efficaci ai fini del mantenimento di un’atmosfera operativa.
Innanzitutto una tendenza ad assumere su di sé la colpa derivante dai problemi della crescita, che ora, nella scena attuale ‘B’, i docenti vedono e nei quali ora si riflettono con un dolore ed una sofferenza che sono pari a quelle da loro sperimentate nei luoghi ‘A’ in cui per la prima volta le hanno provate come bambini e come discenti sulla propria pelle, in un tempo lontano che dai loro predecessori tendeva ad essere rimosso o agito nella fredda esecuzione del rituale pedagogico, e che loro ora, in base all’attualizzazione dei vecchi nodi problematici innescata dai processi di identificazione, non possono eludere.
Tale tendenza potrebbe essere definita da una parte come un rovesciamento adialettico della precedente concentrazione sul curricolo e sulle materie, rovesciamento centrato sul tema della assunzione, all’interno dei compiti che il docente deve svolgere in scuola, di tutti i problemi che la società, la famiglia e il giovane stesso nella sua interezza, ora che sono vicini, vicinissimi al docente, impongono in lui: è per questa strada che nascono quegli atteggiamenti ‘bulimici’ che portano i docenti ad interessarsi dell’universo mondo, alternando spesso a questi momenti di interesse e di entusiasmo, momenti di nausea e di rigetto.
Un altro elemento che emerge fin dalla scuola elementare, ma che diventa molto più coinvolgente (ed anche usurante) in questo clima isterico è un atteggiamento mirante a negare la presenza della distanza generazionale e dello squilibrio dei poteri e dei saperi in favore dell’affermazione di una vicinanza di interessi e di un iperdemocraticismo che esercita a volte la sua funzione non solo sul piano dei metodi di rapporto, ma anche nella fissazione dei contenuti e dell’O.d.g. della classe.
I rischi, allorché si esagera su questo piano specialmente in adolescenza, sono quelli di estendere l’area della negoziazione che si instaura in quest’età anche fra docenti e discenti fino alla messa in crisi degli elementi strutturali fondanti del fare operativo, e di definire il percorso di crescita come una strada lungo la quale il fare operativo emerge solo di tanto in tanto, in maniera quasi rapsodica, mentre la quotidianità è intrisa di un volersi bene aspecifico, pre-operativo che ben presto fa slittare la classe verso quella dimensione di familiarità che era il babau della scuola vecchio stampo analizzata da Fürstenau.
Una terza ed ultima strategia che ho riscontrato spesso in classe in questi ultimi anni – ma che sicuramente non esaurisce l’insieme delle strategie possibili oggi – è quella basata su una sorta di idealizzazione che ammette, sia nella dimensione verticale che orizzontale, solo la presenza di contenuti e stili di rapporto basati sui buoni sentimenti, su una sorta di storia edulcorata della crescita che lascia fuori dall’uscio della classe i nuclei più problematici. Si tratta di una strategia che è presente spesso in tutto il sistema educativo, che comprende cioè scenari quali l’oratorio, la squadra giovanile, etc., e non solo la classe. E’ per questa strada che spesso ed in maniera paradossale emergono poi in forma mitologica e angosciante tutte le dicerie sui giovani poi amplificate dai media.
Ma è anche vero che è in questo clima che i docenti più accorti nello svolgere la loro missione di ”sacerdoti del passaggio” e più sensibili ai temi educativi possono crescere, specie se supportati sul piano della consulenza e della supervisione, ed instaurare con la classe un dialogo, in cui la vivacità dei vissuti e la vicinanza emozionale con i discenti, lungi dal bloccare la situazione un embrasson nous piacevole, ma sterile sul piano formativo, si risolva in termini costruttivi.
5. Autoctoni ed immigrati: le due adolescenze attuali
Ormai da vari anni, in maniera massiccia nella scuola dell’obbligo, con proiezioni ormai geometriche anche alle superiori, a fianco al bambino ed all’adolescente autoctono, vediamo sempre più il bambino e l’adolescente immigrato. Concluderò il mio ragionamento sull’adolescente e la scuola con un memento circa questa nuova e difficile convivenza.
Da una parte infatti, nel rispecchiarsi negli adolescenti autoctoni, genitori e insegnanti ritrovano una parte di sé più domestica. Infatti la generazione degli adolescenti autoctoni lungo il proprio percorso maturativo, non fa altro che rivivere ed iterare un percorso di crescita che molti genitori e tutti gli insegnanti hanno fatto, prolungando nel tempo – rispetto alla generazione dei ‘nonni’ – la propria adolescenza. Eppure, nonostante questa domesticità vari problemi di rispecchiamento si pongono anche nei confronti di questa adolescenza più domestica.
Dall’altra gli adolescenti immigrati di prima e seconda generazione si pongono e -direi- si impongono con problemi nuovi, nati dalle sofferenze cui sono andate incontro le loro famiglie nel processo migratorio, e che spesso si connettono alle ingenti esigenze economiche e di sostegno che la famiglia immigrata impone ai propri figli adolescenti. Ciò mobilita in tutti, e nei docenti che operano con gli adolescenti in particolare, parti interne molto meno domestiche con le quali però occorrerà fare i conti, se non si vuole lasciare questi i giovani agli effetti della cieca selezione sociale.
In questo modo l’adolescenza attuale si biforca e presenta elementi problematici per la famiglia e per la scuola, sia nella sua componente autoctona che in quella immigrata. Gli adolescenti autoctoni, con i quali pure gli adulti dovrebbero avere più confidenza, tendono ad assumere stili di vita basati, più che su un’etica del lavoro, su una estetica consumista[7] che al centro della propria ideologia di vita non ha tanto la trimurti delle generazioni precedenti: lavoro – risparmio – l’investimento, quanto altri valori che sono poco familiari rispetto alle consuetudini, ma soprattutto alle credenze, ai miti della generazione precedente. Ciò determina ad una vera e propria svolta nei modi di vita, che implica uno s\centramento rispetto alla tradizione, e una ricollocazione rispetto ai valori tradizionali, che sta andando avanti in maniera pericolosamente scissionale e che per la generazione precedente rappresenta una sfida quotidiana e dilacerante.
D’altro lato i giovani immigrati generano una serie di problemi che vanno la di là di quelli che pure nascono sul piano dei conflitti e della concorrenza per il lavoro. Problemi connessi al tema dell’accoglienza e dell’integrazione (intese sia in termini individuali, che sociali e culturali). Con tutta l’ambivalenza e la scissionalità che in questi processi è riscontrabile, soprattutto all’inizio del percorso migratorio, sia in chi arriva, sia in chi accoglie. E’ sulle spalle di questa seconda gioventù che alla fine confluisce buona parte delle problematiche che stoltamente a volte definiamo di “ordine pubblico”, e che, invece, rappresentano – come la droga e la delinquenza, ad esempio – un tentativo di risoluzione autoterapeutica di problemi che invece hanno una valenza psicologica e sociale.
La scuola, dopo il nido e la materna, è il luogo in cui i figli degli immigrati tentano di metter in piedi strategie di “affiliazione” che spesso, come dice la Moro, sono dei dolorosi percorsi di meticciamento, che finiscono con tradire sia la linea di filiazione che li unisce ai propri genitori, sia quella di affiliazione che dovrebbe vederli integrati e inseriti in un processo di autentico meticciato sociale.
In adolescenza in questo modo viene a compimento provvisorio un processo che è frutto di una sofferenza che ha colpito i genitori: – di rapporti primari con una madre sola, deprivata di quel tessuto culturale e di quelle rete familiare ed amicale che permette, insieme ad essa ed in profonda relazione con essa, l’accettazione e il contenimento del neonato; – di un impatto con la scuola elementare che lo ha visto già perdente e ferito sul piano dell’autostima. Ciò che diventerà poi questo adolescente come genitore, così depauperato di modelli, sentiti intimamente come propri e come degni di emulazione, è già segnato in questo percorso che genera “vulnerabilità psicologica” fin dal momento della gestazione, come afferma la Moro.
Il fatto, infine, che la nostra sia una società estremamente dinamica genera una serie di problemi a livello delle politiche dell’educazione che è vero che trovano nella politica, più che nella scuola, la loro sede più naturale di discussione, di progettazione e di verifica, ma che poi si riflettono nella scuola e nella società in maniera pesante. Il principale di questi problemi è nello scarto che si ritrova ormai a livello di tutte le politiche scolastiche fra pianificazione dell’intervento educativo in base ad un’idea dello sviluppo sociale e ciò che poi, dopo anni, effettivamente di dimostrerà realmente importante (Laffi, Ross). Questo fa si che l’impegno nella scuola sia soggetto a verifiche a posteriori che spesso risultano molto deludenti per i docenti. Ed va da sé che questa delusione è maggiore per i docenti dell’adolescenza che per quelli dell’infanzia e della fanciullezza, se non altro per il fatto che la vicinanza dell’adolescente al mercato del lavoro evidenzia in maniera spesso lampante le carenze sul piano formativo.
A fronte di questa situazione problematica sul piano delle politiche scolastiche, a fronte di queste due adolescenze, anch’esse, come abbiamo visto, entrambe problematiche, i docenti rischiano in ogni momento di perdere le loro disposizioni alla docenza e di andare in burn out.
A mio avviso l’autoconsapevolezza dell’importanza che il fine educativo assume per i docenti, e il loro impegno sul piano dell’accompagnamento nel passaggio dei loro allievi all’età adulta è fondamentale per evitare l’appannamento e per rimanere coerenti rispetto alla grande richiesta che viene nella maggior parte di loro da quei fantasmi formativi (Angelini, 1998) che nella maggior parte di noi sonnecchiano, ma che in loro son ben svegli ed esigenti.
È chiaro che però questo impegno non può risolversi in un’azione “a lato” della docenza, ma che deve essere mediato attraverso di essa. Non si tratta cioè a mio avviso di un impegno di tipo declaratorio, ma di una modalità di dare e di darsi in quanto docenti che può essere appresa: io ritengo che noi psicoterapeuti ‘laici’ possiamo, anzi dobbiamo per questo compito uscire dai nostri ambulatori e contaminare il nostro sapere col loro per arricchirci a vicenda.
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