Ferenczi
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J.L. Borges, Metamorfosi della tartaruga, in Altre inquisizioni, 1952
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Da bambino, alla maniera di un Asterione che scorrazza libero dal Labirinto, mi chiedevo se le cose che venivo scoprendo esistessero realmente o se fosse il mio sguardo a infondere loro un'esistenza provvisoria, pur se persistente, o magari soltanto ripetitiva. (Stranamente, mentre formulavo questi pensieri, evitavo di pensare a mia madre, come oggetto del mondo; probabilmente inconsapevole di esistere perché lei mi guardava).
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E deragliar m’è dolce, in questo mare. O anche delirar.
Il mio passato e il mio presente si confrontano: ciò che ho imparato dai maestri, e ciò che penso oggi. Un arco di vita.
In principio erano le regole. La prima delle quali: l’analista non deve fare nessun’altra cosa che interpretare. Regola numero due: l’unica interpretazione che va a segno è quella di transfert. Ogni altro intervento è inutile. Anzi: è dannoso.
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Sto lavorando alla traduzione di un'intervista che Elizabeth Severn, la più celebre paziente di Ferenczi, concesse a Kurt Eissler nel dicembre del 1952.
Mentre sono ancora influenzato da un racconto di violazioni dei confini affettivi e sessuali fra terapeuta e paziente, letto in un libro qualche giorno fa, mi imbatto in questo passaggio dell'intervista, che mi pare significativo:
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Una volta che sei nato, sei nato. Il fatto di esserci è la cosa più importante e niente può condizionarlo.
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Molte volte, durante il lavoro psicoterapeutico, mi è capitato di incontrare nei sogni, nelle fantasie, nei ricordi di un altro, un "trapianto estraneo", cioè un "oggetto" incistato e di provenienza esterna.