welfare

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     Reggio Emilia, Aprile 2012

 



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 (2018)

 
1968 e dintorni: “in quel tempo” furono dati alle stampe in Italia un insieme di testi esplosivi nei confronti delle istituzioni, alcuni dei quali influenzarono non poco la lotta antistituzionale degli studenti e degli operatori dell’allora neonato welfare italiano.


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Ho cominciato a lavorare come psicologo il primo gennaio 1972 nel Gruppo Infanzia del CIM di Reggio Emilia, allora – e fino al ’78 – guidato da Giovanni Jervis.


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(2007)

All’inizio – stiamo parlando dei primi anni ’70 – si chiamavano “monitori”. Li avevamo voluti nell’équipe Infanzia del CIM di Reggio Emilia perché seguissero i bambini e gli adolescenti che tiravamo fuori dal De Sanctis, il reparto infantile del manicomio di Reggio Emilia.


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“Papà, che cos’è la burocrazia?” chiede mio figlio di otto anni. Dove l’abbia sentita questa parola, chissà. Domanda ostica quasi come quelle sulla riproduzione della specie. La sorella di sei anni, di solito il genio di famiglia, questa volta comprensibilmente cade dal piedistallo: “IO LA SO!” urla. “LA BURROCRAZIA E’ QUALCOSA CON IL BURRO!!!” Scoppio a ridere e i bimbi mi seguono nella risata.



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È indubbio che la pandemia rappresenti una immane catastrofe in tutto il mondo.



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Il welfare mix
 


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Uno degli elementi costitutivi del welfare reggiano delle origini fu quello dello stretto legame dei vari servizi col territorio. Ciò significa che tutte le attività di base dei servizi sanitari, psichiatrici, psicologici e sociali erano fisicamente e mentalmente collocate nei vari quartieri della città (e praticamente in ogni paese di una certa consistenza in periferia secondo una logica distrettuale che faceva si che anche i paesi più piccoli avessero a disposizione un centro vicino cui potersi riferire).



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