di Giuseppina Manin, Il Corriere della Sera, 22 ottobre 2013
A volte le mani rivelano segreti che la parola non sa o non può dire. A volte la sabbia, sottile, leggera, impermanente come un sogno o come un mandala, diventa il mezzo ideale per raccontarsi. Le mani e la sabbia, un gioco che si fa terapia, fluido tramite di un inconscio afasico, che tra quei granelli trova voce per plasmare segreti, ricreare emozioni sepolte. Perché, parafrasando Prospero, noi siamo fatti della stessa sostanza della terra e nella terra andiamo a frugare le nostre ombre, là dove il pensiero si ritrae. «Alla fine si tratta di mettere in scena i sogni», sintetizza Lella Ravasi Bellocchio, psicanalista junghiana, autrice di Come una pietra leggera. Giochi di sabbia che curano (Skira, pp. 128, e 15).
Quel gioco di vita incantatore lei lo mette in pratica da anni, attraverso le rappresentazioni ricreate nel suo studio da tanti piccoli pazienti e anche da qualche adulto. Le loro storie, raccolte ora nel libro, mostrano un approccio singolare al rapporto terapeutico. Che qui passa attraverso a una cassetta dal fondo azzurro ripiena di sabbia, un po’ d’acqua per impastarla e un armadio delle meraviglie, scrigno di infiniti oggetti lillipuziani, sassi, perle, legnetti, casette, lettini, ma anche di figurine umane, donne, uomini di ogni età, di personaggi fiabeschi e mitologici, di animali domestici e feroci… Da scegliere e sistemare nel paesaggio sabbioso secondo i dettami di quella storia segreta che si dipana come in sogno per immagini, in un’area misteriosa oltre la parola.
Una «terrapia», la definisce scherzosa la psicanalista rubando il termine a un piccolo paziente che ben aveva colto la concretezza della materia e delle «cose» rappresentate. La stessa intuizione di Freud: «Non si interpreta, si costruisce», avvertiva in uno dei suoi ultimi saggi.
Ad affondare le loro manine in quella «scatola di mondo» in cerca di paure e ansie indicibili sono tanti bambini: Giovanni, che soffre di balbuzie, si rappresenta in ogni scena solo su una panchina rossa. Martino, che a 4 anni decide di volersi vestire da femmina e sceglie tutte le principesse della vetrina per rappresentarlo. Bianca, 7 anni, terrorizzata da un lupo che solo lei vede. Lella gioca con lei a catturarlo inscenando una sorta di rito magico in cui la bestiaccia resterà intrappolata per sempre. Mentre il piccolo Anton, che arriva dalla steppa russa, raffigura come dei principi quei genitori che l’hanno abbandonato e se stesso come il figlio dello zar…
Ad aprire e chiudere il libro due storie di «grandi» tornati bambini: Paolo che nella sabbia mette in scena una morte per lui imminente, Letizia che tenta di dare un senso a quella, improvvisa, del giovane marito. «Il lavoro sul lutto ci accompagna in ogni incontro analitico — ricorda l’autrice—. Forse la sabbia cenere è la materia che ci accoglie tutti, i vivi e morti, quelli che sono passati come noi che passeremo». «Polvo seràn, mas polvo enamorada ». Polvere sottile come la sabbia, che si perde e svanisce ma non del tutto. Perché, come dice il verso di Quevedo, è «polvere innamorata».
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/22Oct2013/22Oct20132857acd64a26732857900226254df9ef.pdf
Priebke non è Polinice
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 26 ottobre 2013
In Antigone la questione della sepoltura di Polinice si risolve su due piani: l’esistenza dei vivi non deve essere contaminata dalla presenza dei morti; il nemico è incluso nel legame fraterno, non ne è estraneo (il che è in feconda contraddizione con il fondamento dell’agire politico sulla differenza tra amico e nemico). Qui, come sempre, il discorso tragico converge con quello psicoanalitico: il fratello è costitutivamente un amico/nemico e il legame con lui è il prototipo di ogni relazione successiva di amicizia e di inimicizia. Se la vita e la morte devono essere nettamente distinte (per evitare l’inquinamento) la prima non deve concedere nulla alla seconda: i vivi devono riprendersi tutto ciò che appartiene loro di buon diritto e i morti rischiano di portare via con sé. L’elaborazione del lutto è proprio questo: mantenere viva e duratura l’esperienza della relazione con le persone perdute sia ospitandola nella vita del proprio mondo interno sia rinnovandola fuori di sé in forme nuove e più ampie. Così la morte diventa il concime della vita e la storia vivente di ogni singolo soggetto si trasforma in materia viva dell’umanità. Dal momento che le relazioni non sono vive se non sono libere e la libertà comporta incomprensioni, conflitti e cocenti delusioni, l’amore non è dissociabile dall’odio e ogni pretesa di una loro netta separazione (simile a quella tra amico e nemico) crea soltanto fragili finzioni (tanto diffuse quanto le strade dell’inferno lastricate di buoni propositi). L’odio rende solido l’amore e eliminarlo non è proprio possibile. Ciò può comportare l’uccisione dell’altro all’interno di un conflitto in modo concreto (in guerra quando la nostra sopravvivenza materiale diventa incompatibile con quella dell’avversario) o metaforico (quando si è costretti di sciogliere un legame d’amore o di amicizia). L’uccisione dell’altro è un fatto enorme, una minaccia terribile per la nostra condizione umana, che è fondata sul sentimento di fraternità, e richiede una piena assunzione di responsabilità. Il nemico ucciso deve sopravvivere come oggetto interno e sia le potenzialità sia le reali esperienze di un legame di desiderio che abbiamo entrambi tradito devono trovare in noi uccisori il loro depositario e garante più convinto e solido. Altrimenti abbiamo ucciso invano e la morte ci infetta. Perfino quando muore una persona molto cara l’odio è presente sulla scena e ha un ruolo indispensabile. Con la sua partenza il morto rinnova le delusioni che durante la sua vita ci ha dato, attirando il nostro odio, e attiva il desiderio inconscio di morte che abbiamo nei confronti di coloro che amiamo (sia perché rifuggono il nostro possesso sia perché minacciano la nostra libertà). Uccidere il nostro morto (al posto di essere uccisi dalla sua assenza) è una condizione necessaria dell’elaborazione della sua perdita, la premessa della responsabilità nei suoi confronti che ci consente di farlo rivivere. La morte di Priebke, al contrario di quella di Polinice, non è passibile di lutto e di elaborazione perché è al di fuori della scena tragica. Nello spazio tragico la morte non può coesistere con la morte e i nazisti erano già morti mentre erano vivi (avendo ucciso l’essere umano dentro di sé). Inoltre, Priebke non ha ucciso il fratello nemico in battaglia ma il legame fraterno in se stesso nel deserto della sua anima. Il solo posto per lui nel suolo pubblico è una fossa (perché non ci contamini da cadavere come ha fatto da essere vivente) che deve restare anonima perché un uomo col suo nome non è mai esistito.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20131026/manip2pg/14/manip2pz/347749/manip2r1/thanopulos/
La Tv in analisi. Il lettino e la fiction. Gli psicoanalisti della Spi recensiscono la serie televisiva In Treatment
di Pietro Roberto Goisis, L’Unità, 26 ottobre 2013
«Voglio sapere, voglio vedere davvero quello che succede dentro quella stanza!», «Ma cosa vi dite quando vi incontrate? Di cosa parlate per 45 minuti?». Al di là di un fisiologico bisogno voyeuristico, questo desiderio accomuna molte persone e molti psicoanalisti. È legittimo. Chi vuole andare in terapia ha bisogno di avere un’idea di cosa accade. Tra noi psicoanalisti, per confrontarci con sincerità, è necessario sapere cosa diciamo.
In Treatment, senza mai dimenticarci che è in primo luogo uno sceneggiato che parla della vita di un terapeuta e dei suoi pazienti e, solo di conseguenza, parla di psicoterapia, tra le tante funzioni ha assolto anche a questo compito. Onorario compreso.
La serie trasmessa su Sky nasce in realtà in Israele nel 2005, Be Tipul, dove ha ottenuto un grande successo di pubblico e critica (e di interesse per la psicoanalisi con un significativo aumento delle richieste di trattamento presso i colleghi israeliani). Il format venne poi ripreso anche dall’edizione Hbo che è uscita nel 2008. Nello stesso anno uscì la seconda serie israeliana, nuovamente replicata negli Usa nel 2009, dove nel 2010 è stata trasmessa la terza e, per ora, ultima serie. La prima serie è stata poi replicata finora in altri tredici Paesi del mondo. In Italia nel 2013.
Ne è stato artefice e ideatore Hagai Levi, israeliano, figlio di una famiglia italiana, regista, scrittore e produttore, con esperienze di psicoterapia fin da bambino. Al suo fianco ha lavorato fin dall’inizio Nir Bergman, regista e sceneggiatore israeliano, in analisi in quel momento. Il loro progetto si è infine avvalso della collaborazione come consulente di Roni Baht, israeliano, psicologo clinico e psicoanalista a orientamento relazionale.
Ci sono state varie occasioni nelle quali i tre protagonisti si sono confrontati con il pubblico e con gli specialisti. È stato ad esempio sottolineato lo stretto apparentamento che esiste tra il lavoro «maieutico» dello sceneggiatore e quello del terapista. Secondo Levi, sotto certi aspetti, il lavoro dello psicanalista e quello dello sceneggiatore sono molto simili, perché quest’ultimo cerca di comprendere le motivazioni del suo personaggio esattamente come il terapista tenta di scavare nel profondo dei suoi pazienti. L’unica differenza è che lo sceneggiatore compie un lavoro di costruzione sui personaggi, mentre lo psicanalista deve invece decostruire il comportamento del paziente. Senza dimenticare che nel prodotto finito sono innumerevoli e varie le figure coinvolte. Ad esempio penso che il montaggio svolga in questa serie televisiva un lavoro fondamentale, più che in ogni altra serie. È proprio il montaggio, infatti, che dà un taglio cinematografico alle scene e che ha permesso di ricreare il linguaggio non verbale dei personaggi, come l’incontro di sguardi e il gioco dei movimenti che si scambiano durante le sedute. Per la serie originale è stato scelto un luogo chiuso lo studio del terapista che però fosse attiguo alla sua abitazione, in modo da dare l’idea di una possibile contaminazione tra vita personale e professionale. Al tempo stesso si tratta di un luogo che non è mai completamente ermetico, ma si apre in ogni puntata verso l’esterno.
Nel format della versione italiana è mostrato uno psicoterapeuta di mezza età, Giovanni, noto e rispettato nel suo ambiente professionale, al lavoro con alcuni suoi pazienti. Il lunedì con Sara, una giovane e affascinante anestesista in difficoltà nelle relazioni sentimentali; il martedì con Dario, un carabiniere in congedo provvisorio dopo aver svolto una missione segreta dagli esiti drammatici; il mercoledì con Alice, una adolescente, giovane promessa della danza, alle prese con una sindrome post-traumatica; il giovedì con Pietro e Lea, una coppia in crisi da molti punti di vista. Il venerdì, infine, con un vero e proprio colpo di scena, ci troviamo a conoscere il lato debole dello psicoterapeuta, mentre va a parlare con una collega, Anna, per quella che è difficile definire come supervisione o terapia personale. Il tutto si ripete per sette settimane (nove nell’originale).
Come psicoanalisti della Spi (Società Psicoanalitica Italiana) abbiamo seguito l’evolversi delle puntate con due serie di commenti: una collaborazione settimanale con sky.it e un dossier specifico su spiweb.it.
Giovanni secondo il mio stile e il mio modo di essere uno psicoanalista commette degli «errori». Anzi, potremmo dire, i filmati delle puntate potrebbero benissimo essere usate per delle lezioni del genere «scoviamo l’errore…». In realtà, chi di noi non commette mai errori? D’altra parte Giovanni è anche un analista molto attento, ascolta con pazienza, cerca di sviluppare e stimolare la capacità di pensare dei suoi pazienti, partecipa ai loro racconti, si mette in gioco, coltiva il dubbio e la riflessione. Sembra davvero ben rappresentare, con le parole di Luciana Nissim, «due persone che parlano in una stanza».
A volte, poi, parla più con i gesti che con le parole. Non tutti, e non sempre, sono capaci di gesti e di comunicazioni di questo tipo e al momento giusto. Certamente è anche un semplice essere umano, ora in difficoltà, in un momento di crisi. A tratti è pure difficile aiutarlo come ci mostra bene il suo rapporto conflittuale con Anna, la sua supervisore/terapeuta. Aspetto che consente di capire maggiormente la complessità di una terapia e di una professione.
Un pregio particolare della serie, a mio avviso, è stato quello dii mostrare un terapeuta al lavoro con un adolescente. Fin dalla prima visione di Be Tipul nel 2005 ebbi la sensazione che il personaggio dell’adolescente (Ayala) fosse il più riuscito. L’incontro con Sophie nella versione Hbo, esaltata dalla straordinaria interpretazione di Mia Wasikowska (ora una delle migliori e apprezzate attrici emergenti) fece il resto. La mia sensazione è quella di una relazione caratterizzata da una attenzione reale, partecipe e curiosa, desiderosa di osservare l’evolversi degli eventi prima di intervenire. D’altra parte lo stesso attore, in una bella intervista, ha espresso la sua sensazione e valutazione personale rispetto al fatto che l’episodio di Alice sia la cifra essenziale e centrale di tutto il progetto.
Penso proprio che la rappresentazione e la finzione scenica sembrano confermare che il lavoro con gli adolescenti ha davvero contribuito allo sviluppo del paradigma relazionale nella pratica analitica. È stata davvero la ricerca di un tentativo dii accedere alla cura di situazioni cliniche inesplorate, tra le quali erano spesso annoverate quelli degli adolescenti.
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4006:la-tv-in-analisi-l-unita-26-ottobre-2013&catid=538&Itemid=353
Strizzacervelli Rep. Psicoanalisi politica dei disturbi da antiberlusconismo. L’uomo dei merli e la macchina influenzantedi Guido Vitiello, ilfoglio.it, 26 ottobre 2013
Non temo il Berlusconi in sé, temo il Berlusconi in me. E più ancora temo il Berlusconi in certi editorialisti di Repubblica, dove si è annidato in modi che l’antica demonologia avrebbe catalogato senza indugi come possessione, predisponendo i riti e le formule del caso. Ma già che l’esorcismo non è più di moda, occorrerà affidarsi al suo moderno surrogato, la psicoanalisi. Solo nella Vienna del primo Novecento, dobbiamo riconoscerlo, circolavano ingegni in grado di illuminare i documenti clinico-giornalistici che abbiamo potuto leggere in questi giorni, a opera di pazienti che non sfigurerebbero accanto ad Anna O., all’Uomo dei topi o al piccolo Hans. Ne sottopongo due all’attenzione del lettore.
1. Vedo Silvio. Il primo caso è quello di Francesco M., ma possiamo anche chiamarlo il piccolo Franz o l’Uomo dei merli. Dal suo editoriale del 22 ottobre: “Fabio Fazio sembrava Ghedini e Maradona Berlusconi. E il pubblico televisivo più colto d’Italia applaudiva il reato di evasione, che offende la disperazione del paese impoverito, proprio come la corte eversiva del Cavaliere celebra la frode fiscale davanti al tempio di Palazzo Grazioli”. Come il lettore avrà intuito, siamo in presenza di un caso di incipiente psicosi allucinatoria. Nell’Interpretazione dei sogni” (cap. VII, par. C: L’appagamento di desiderio), Freud ne riportava la genesi a uno stato primitivo dell’apparato psichico in cui si è in grado, in assenza dell’oggetto desiderato, di allucinarne la percezione. In altre parole la psiche del piccolo Franz, non potendo elaborare l’assenza di B. e la sua uscita di scena, ne ricrea l’immagine anche dove di tutta evidenza non c’è, per esempio in un ex calciatore argentino di mezza età. Lo stesso fenomeno, c’è da ipotizzare, si sarebbe verificato se gli avessero messo davanti uno spaventapasseri, uno scimpanzé bonobo in doppiopetto o una sedia vuota. Il caso è del tutto analogo all’episodio di Vedo nudo di Dino Risi in cui Nino Manfredi allucinava donne nude a partire da qualunque stimolo, anche da una coppia di bottiglie (“sono due donne nude con un tappo in testa”). Si raccomanda un lungo riposo.
2. La “macchina influenzante”. Più spinoso è invece il caso di Barbara S., come si evince da queste righe instabili e sofferte dall’editoriale del 23 ottobre: “Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo! Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose”. Qui siamo tipicamente nei territori della psicosi paranoide, e il testo di riferimento è il classico articolo di Viktor Tausk, psicoanalista slovacco allievo di Freud, Sulla genesi della ‘macchina influenzante’ nella schizofrenia (1919). La paziente Barbara S. riferisce infatti di un “dispositivo” persecutorio che “muove le cose”, esattamente come i pazienti di Tausk erano convinti dell’esistenza di misteriosi congegni in grado di intercettare e manipolare i pensieri. Alla stessa famiglia appartiene un altro caso celebre, quello del dottor Tolman convinto di essere controllato da un satellite ad personam, riportato dallo psichiatra Ronald K. Siegel nel suo studio sulla paranoia, Sussurri. E di sussurri anche qui si tratta, come mostra il seguito dell’editoriale: “Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili”. Apprendiamo dunque che tra le voci che Barbara S. sente ci sono grida di concubine, sussurri e perfino una tarantella (dev’esserci l’inferno, nella sua testa). A un redivivo Tausk il compito di chiarire la relazione tra il “dispositivo” influenzante che la paziente chiama “corpo di B.”, la fantasia persecutoria delle “oligarchie impenetrabili” e il suono del mandolino.
Io però in questo caso uno squillo all’esorcista lo farei.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/20362
Tutti al cinema con il dottor Freud
di Luciana Sica, repubblica.it, 27 ottobre 2013
Una ciliegia tira l’altra: l’immagine non sarà particolarmente brillante, ma ha ragione Stefano Bolognini a scrivere, nella sua prefazione, che le recensioni dei film a firma dell’analista Rossella Valdré si leggono non solo facilmente ma anche con un certo grado di emotività che l’autrice sa stabilire con il lettore. Da La pianista a Gomorra, da Il nastro bianco a Somewhere, i testi di volta in volta confezionati e proposti hanno sempre la stessa cifra comune, quella di un’indiscutibile godibilità. Sono pensati e scritti per il web, in particolare per il sito della Società Psicoanalitica Italiana, e ora raccolti in un libro suddiviso in più sezioni – con una qualche forzatura ammessa dalla stessa Valdré, che comunque punta tutte le sue carte sulla contemporaneità. Non a caso è stata tra gli analisti «inviati» a Venezia, e certamente sorprende che gli epigoni di Freud – così diffidente lui, nei confronti del cinema – frequentino in veste di «critici» i grandi festival. Senz’altro questa passione ora un po’ debordante della psicoanalisi per il grande schermo incontra i favori di un certo pubblico, un successo che pochissimi raggiungono attraverso forme di pensiero più radicali ed eccentriche.
La lingua sognata della realtà, di Rossella Valdré, Antigone, prefazione di Stefano Bolognini, pagg. 224, euro 24
http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/10/27/tutti-al-cinema-con-il-dottor-freud.html
Le nuove frontiere del disagio civile. Un saggio a quattro voci aggiorna lo storico conflitto tra individuo e società
di Roberto Esposito, la Repubblica, 26 ottobre 2013
Fin da quando comparve, nel 1929, la fortuna del celebre saggio di Freud Il disagio della civiltà non è stata omogenea. La tesi di una inevitabile opposizione tra le aspirazioni alla felicità dell’individuo e le costrizioni che la civiltà gli impone è suonata ad alcuni rigida e ad altri generica. Eppure, a quasi un secolo di distanza, l’impronta che esso ha lasciato resta profonda. Almeno in relazione a due questioni decisive. Vale a dire all’intreccio tra dimensione psicologica e sfera sociale e al rapporto tra invarianti biologiche e mutamento storico. Precisamente intorno ad esse dialogano in maniera serrata il filosofo Massimo De Carolis, i due psicoanalisti Francesco Napolitano e Massimo Recalcati e la saggista Francesca Borrelli, cui si deve anche la nitida introduzione al volume edito da Einaudi col titolo Nuovi disagi nella civiltà. Un dialogo a quattro voci.
In particolare sulla relazione complessa tra biologia e storia si erano già confrontati, nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault, con esiti tutt’altro che risolutivi. Mentre il primo insisteva sul carattere innato della facoltà del linguaggio, il secondo respingeva la stessa idea di natura umana, considerandola una costruzione di tipo storico-sociale. Un’obiezione non troppo diversa da quella rivolta a Freud da Marcuse inEros e civiltà. Da allora la situazione è nettamente cambiata — basti pensare alle novità dirompenti dovute allo sviluppo dell’ingegneria genetica —, ma le questioni aperte da Freud appaiono tutt’altro che esaurite. Ciò che i quattro autori condividono è da un lato l’esigenza di superare la tradizionale dicotomia tra scienze della natura e scienze umane; dall’altro il netto rifiuto di un riduzionismo cognitivista, che riduca l’attività del pensiero e della volontà a puri processi neurochimici presenti nel cervello. Se così fosse, l’apparato psichico degli individui verrebbe trattato come un sistema governato da rigidi nessi di causa ed effetto. A venire esclusa, in questo caso, sarebbe quella distinzione tra il senso delle parole e delle azioni e la loro produzione materiale, rivendicata nel Novecento da filosofi come Frege e Husserl, Heidegger e Wittgenstein.
Ma se questo è il presupposto comune degli autori, diversi sono gli argomenti e le conclusioni che ne traggono. Proprio qui, anzi — in tale conflitto delle interpretazioni — risiede il maggior interesse del libro. In quale falda originaria affonda il disagio di cui parla Freud? Nonostante le infinite mutazioni di contesto, l’umanità è in fondo sempre la stessa o è andata incontro a una serie di trasformazioni antropologiche che ne hanno radicalmente cambiato i connotati? Quale rapporto passa tra il “da sempre” e il “solo adesso” — come si esprime Francesca Borrelli, rammentando, con Musil, che «non si può fare il broncio al proprio tempo senza riportarne danno»? De Carolis è colui che si spinge più avanti nella ricerca degli incroci tra invarianti biologiche e condizione contemporanea. Basti pensare al modo in cui oggi vengono sempre di più messe al lavoro attitudini congenite della specie umana come la facoltà creativa del linguaggio e la duttilità nei confronti dell’ambiente. Ciò non esclude, sul piano delle patologie, metamorfosi rilevanti come quella che trasforma l’antico complesso di colpa per ciò che si fa nel nuovo senso di vergogna per ciò che si è.
Quanto, poi, a Napolitano e Recalcati, a differenziarne le posizioni è il diverso punto di riferimento all’interno della scuola psicoanalitica — Freud per il primo e Lacan per il secondo. Per Napolitano anche i più sensibili mutamenti — come quello relativo al nesso tra tempo e denaro — vanno ricondotti al filo di continuità che percorre l’intera modernità. Per Recalcati — cui dobbiamo un profondo rinnovamento degli studi psicoanalitici in Italia — la replica di certi fenomeni non cancella le soglie di discontinuità che modificano in radice la fisionomia del nostro tempo. Ciò che caratterizza l’età ipermoderna è la progressiva scomparsa del desiderio, travolto dalla ricerca di un godimento talmente illimitato da divenire autodistruttivo. Che il paradigma centrale del capitalismo finanziario sia il consumo, come sostiene Recalcati, o il debito come ritiene De Carolis, non è poi il punto decisivo — dal momento che si può interpretare l’uno come il rovescio dell’altro. Ciò che più conta è ripristinare quella funzione simbolica schiacciata tra eccesso di immaginario e una pulsione di morte che sembra spezzare ogni legame sociale. Senza di che i disagi della civiltà diverranno la cifra costitutiva del nostro tempo.
IL LIBRO Nuovi disagi nella civiltà di F. Borrelli, M. De Carolis, F. Napolitano e M. Recalcati (Einaudi, pagg. 202, 19 euro)
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/10/26/le-nuove-frontiere-del-disagio-civile.html?ref=search
Gramellini: “Di padre in figlio”. Pubblichiamo il testo della Buonanotte scritta da Massimo Gramellini per i telespettatori di Che tempo che fa su RaiTredi Massimo Gramellini, lastampa.it, 28 ottobre 2013
La storia con cui tenterò di farvi addormentare questa sera l’ho scoperta mercoledì scorso in un bell’articolo di Paolo Foschini sul Corriere della Sera. Apparentemente parla solo di un pensionato milanese che trova per terra un portafogli, ma la ragione per cui ho deciso di raccontarvela è un’altra e se rimarrete svegli ancora un paio di minuti la scoprirete.
Tutto comincia nel parcheggio dell’ipermercato di Nerviano, periferia nord di Milano. Il signor Luigi Musazzi sta spingendo il carrello della spesa verso l’automobile, quando occhieggia un portafogli abbandonato sul selciato. Si china a raccoglierlo, lo apre e gli tremano le mani. Dentro ci sono quattordici banconote da 500 euro.
Irrompe in scena la moglie, pensionata come lui. “Fa un po’ vedere…” Non avendo mai incontrato un biglietto da 500 euro in tutta la sua vita, la Lina giunge alla fulminea conclusione che deve trattarsi dell’opera di un falsario. Ma il Musazzi mica le dà retta: lui i cinquecento euro lo sa come sono fatti e questi sono fatti proprio bene. “Luigi, a cosa stai pensando?” Luigi non risponde. È impegnato in una moltiplicazione. 500 per 14 uguale…
Uguale 7000 euro. Tornato a casa, il Musazzi appoggia il portafogli randagio sopra il comodino e si mette a letto con un pensiero fisso. È vero che settemila mila euro non cambiano l’esistenza a nessuno. Ma è anche vero che di sicuro non gliela peggiorano.
Lui è un ex idraulico di quasi ottant’anni con 1000 euro al mese di pensione, cui vanno aggiunti i 500 della minima di sua moglie. Non vivono nel lusso ma nemmeno nella fame, abitano in una casa di due camere e cucina che si sono costruiti da soli, hanno figli grandi e sistemati. Però i nipotini crescono, i prezzi pure, e con settemila euro…
La moglie interrompe le sue elucubrazioni. “Mia mamma mi ha insegnato che le cose trovate non sono nostre, punto e basta.” E spegne la luce. Beata lei. Il Musazzi non riesce a dormire e si gira nel letto in preda ai tormenti come l’Innominato di Manzoni.
Ci fosse almeno un documento in quel benedetto portafogli! Invece ho trovato solo un badge: a parte i soldi, s’intende. Un badge d’ingresso per la Grande Fiera di Rho-Pero. Ma come si può risalire da un badge anonimo a un proprietario in carne e ossa? Tanto vale che me li tenga io… E però la cifra è grossa: chi ha perso tutti quei contanti avrà denunciato lo smarrimento alla polizia e sarebbe facile rintracciarlo…
Il Musazzi non ci dorme la notte, anzi le notti. Due, per la precisione. Poi succede la cosa che mi ha spinto a raccontarvi questa storia. In cerca di una soluzione, o forse solo di un sostegno morale, va a trovare il figlio maschio Roberto: quel portafogli, in fondo, potrebbe interessare anche a lui… Il figlio lo guarda stupefatto: “Papà, mi meraviglio di te che ancora ci pensi. Io di quei soldi non voglio sapere proprio niente.”
Il Musazzi esce dalla conversazione con un strano pensiero addosso: come se il punteruolo che lo tortura da due giorni e due notti si fosse finalmente squagliato e al suo posto, adesso, fluisse un mare di orgoglio paterno. “Se ho tirato su mio figlio così, allora sono stato bravo.” Una parte del merito è anche della moglie, ma in certi momenti di felicità si diventa tutti un po’ egoisti. Sta di fatto che il Musazzi non passa neanche da casa. Col portafogli in mano si presenta direttamente alla sede dei carabinieri, che dal nome di una ditta indicata sul badge risalgono a uno stand della Fiera e da quello al proprietario. Anzi alla proprietaria: svizzera ma col nome italiano ed evocativo, Casanova. Una ex tennista professionista che probabilmente di quei soldi smarriti non ha neppure troppo bisogno.
Al Musazzi, come prevede la legge, la signora Casanova lascia un decimo del totale: 700 euro, non uno di più. Lui è contento lo stesso. Magari non conosce Il Complesso di Telemaco, il saggio in cui il professor Recalcati spiega che l’unica eredità che un padre possa trasmettere al figlio è il desiderio. Ma è un po’ come se lo avesse letto.
Il Musazzi è riuscito a trasmettere al figlio il desiderio dell’onestà e glielo ha trasmesso così bene che al momento opportuno il figlio glielo ha addirittura dato indietro. Una sensazione che vale più di un portafogli.
Buonanotte.
http://www.lastampa.it/2013/10/28/cultura/opinioni/buongiorno/il-desiderio-di-onest-BsLTQPgNX5NZEbaY4WsGVN/pagina.html
Audio – La crisi ha cambiato i nostri sogni
da radio24.ilsole24ore.com, Cuore e denari, 22 ottobre 2013
Sognare ad occhi chiusi o ad occhi aperti. Cosa succede nel nostro cervello? Sognare ci aiuta a vivere meglio, ma con la crisi economica è difficile realizzare i sogni. Dobbiamo lasciarli nel cassetto? Nicoletta Carbone e Debora Rosciani ne parlano a Cuore e Denari. Ospiti per la parte dedicata al cuore il dr. Luigi Ballerini, medico, scrittore e psicoanalista freudiano. Come la crisi ha cambiato la nostra vita e ha invaso i nostri sogni? E con il dr. Lino Nobili, Responsabile del Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano parliamo di sogni lucidi e perché, alle volte, non ricordiamo quello che sogniamo.
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/cuoridenari/2013-10-22/crisi-cambiato-nostri-sogni-152715.php?idpuntata=gSLAD5YEX&date=2013-10-22
Video – SPIWEB. Società di Psicoanalisi Italianada filosofia.rai.it, 26 ottobre 2013
Ma il web per la psicoanalisi non è solo un mezzo di comunicazione e di scambio. E’ anche una sfida. E’ possibile un’analisi via skype? Cosa cambia nelle sedute in cui il corpo è assente, come è diversa la resa di una seduta o di un sogno ricordato o registrato? E poi ci sono i problemi relativi alla riservatezza delle comunicazioni. E’ questa la nuova sfida della psicoanalisi moderna: riuscire a capire e utilizzare un nuovo mezzo che è indispensabile, ma che modifica profondamente l’assetto tradizionale delle sedute.
Freud, cosa penserebbe di quest’epoca di cambiamento? Probabilmente, per come lo conosciamo dai suoi scritti, ne sarebbe affascinato. Ma avrebbe un profilo su Facebook? Il sito della Società di Psicoanalisi Italiana: http://www.spiweb.it
Vedi il video al link qui sotto:
http://www.filosofia.rai.it/articoli/spiweb-societ%C3%A0-di-psicoanalisi-italiana/14200/default.aspx
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
0 commenti