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DIRITTO alla SOLITUDINE

5 Nov 13

A cura di Manlio Converti

Questo capitolo sarà molto difficile per me e spero diventi controverso giacché dirò l’una e l’altra cosa insieme.
 
I sofferenti psichici hanno diritto alla solitudine allora assume questa volta un valore di domanda da declinare a volte con un no, a volte con un si e questo nell’arco della stessa giornata.
 
Sicuramente il modo migliore di aiutare un sofferente psichico è quello di non lasciarlo solo ad affrontare la necessità di terapie farmacologiche, di controlli periodici, di emarginazione sociale e stigma.
 
Se per le prime due evenienze i familiari spesso sono in prima linea, ma talvolta sono conflittuali in modo estremo, se non a loro volta sofferenti psichici, accade anche che alcuni di loro vengano ad espellere questo loro compito delegando a istituzioni pubbliche o manicomi privati non solo il ruolo di gestione farmacologica e delle visite psichiatriche, ma anche quello dell’abitazione e dell’alimentazione, che diventa pertanto “istituzione totale”.  La solitudine viene negata nelle famiglie accoglienti dove il valore è la relazione mentre diventa una soluzione in quelle espulsive o con altri problemi, ma la solitudine è diversa se implica emancipazione o reclusione in strutture private, che privano della libertà.
 
L’abbandono e la solitudine sono due concetti diversi e due modalità diverse di stare da soli. L’abbandono, soprattutto quando implica istituzionalizzazione in una SIR pubblica o in un manicomio privato, è sempre un fattore esistenziale e psicopatologico negativo per il sofferente psichico.
 
L’emarginazione sociale e lo stigma sono invece molto più difficili da combattere e da risolvere, soprattutto in quegli ambienti coartati dall’eccessiva prossimità sociale, in quei casi domiciliati in luoghi isolati ed infine in quelli che devono sopravvivere nella giungla urbana in luoghi anonimi dove regna la pubblica indifferenza e l’anonimato.
 
Spesso i pazienti si adeguano a questa realtà come alla prima, chiedendo di essere esclusi ulteriormente e rinchiusi in manicomi privati per non gravare sull’emotività familiare già ostile per altre ragioni, in genere economiche e sociali, come l'età geriatrica dei care-givers, cui non si vogliano sostituire soggetti più giovani.

Altre volte la richiesta di solitudine è un sintomo psichiatrico grave che serve ad evitare qualunque contatto con la realtà esterna in modo più o meno grave, anche se non esiste alcuna realtà ostile.
Altre volte ancora c'è una resilienza, un arrendersi all'indifferenza o all'ostilità degli altri, comportamento estremamente maturo, ammettiamolo, che rende la solitudine un valore costitutivo di un'identità sana.
 
Il muro dell’indifferenza e quello dell’ostilità sono ovviamente diversi ed apparentemente al primo è più difficile fare fronte perché il paziente, già deprivato eventualmente anche dalla patologia o dagli psicofarmaci di alcune capacità relazionali, non può affatto esercitare nei confronti del nulla sociale che lo circonda alcuna forma di controllo adeguato.
 
All’ostilità si risponde anche in modo subalterno, rischiando gravi danni fisici, o ribellandosi, e rischiando oltre ai danni fisici anche la beffa di un ricovero. Ecco che la solitudine diventa un'arma potente per salvaguardare il proprio sè, ad ogni costo, ma questo diventa difficile da conciliare quando ci siano capacità lavorative residue o altre inerenti altre libertà di cui abbiamo parlato.
L'assenza di campagne sociali contro lo stigma della sofferenza psichica rende spesso inutile ogni proposta individuale. La mancata assunzione di responsabilità da parte dell'assistenza sociale del Comune, che spesso rifiuta la visita domiciliare ai sofferenti psichici per pregiudizi immotivati, rende la solitudine una richiesta implicita delle istituzioni indifferenti al destino di queste persone e delle loro famiglie.
La solitudine colpisce infatti anche i familiari, anche quelli sani, o diventa una risorsa necessaria alla salvaguardia del nucleo familiare, soprattutto per l'assenza di supporto da parte dell'assistenza sociale dei Comuni.
 
D'altra parte sono invece gravi sintomi delle patologie psichiatriche tanto l’indifferenza alla relazione quanto la paranoia, ovvero la paura immotivata di essere circondati da persone o da messaggi ostili.
 
E’ necessario fare fronte al questa differenza comprendendo in un caso e cercando soluzioni non solo farmacologiche nell’altro. Rispettando anche il desiderio di solitudine, forse in entrambi i casi.
 
Diciamo anche che se la richiesta di solitudine di fronte a indifferenza o ostilità sociale reale è umanamente comprensibile e di difficile soluzione nel vuoto stratosferico delle istituzioni pubbliche che delegano anche questo solo alle Asl non possiamo certamente dichiarare subito normale anche l’altra.
Le Asl a loro volta sono oggi
fragilizzate e rese incapaci di realizzare efficaci programmi nei Centri Diurni e Nottruni, diventando sole, nascendo isolate nel territorio di periferia o spostate sempre più lontane dagli occhi del corpo sociale perbenista e… diciamolo… "razzista" !

Non dimentichiamo che al mondo appartiene anche la famiglia allargata di cugini e zii, nipoti e zie, di solito assenti, talvolta conflittuali, ma necessari per non dire fondamentali, quando presenti in modo efficace, ad interrompere il circuito negativo della solitudine di familiari e sofferenti psichici.

Se in ogni caso è responsabilità delle istituzioni carenti, così che la solitudine diventa l’arma difensiva necessaria in un mondo che comunque odia o ignora il soggetto sofferente psichico, sia chiaro, dovremo chiederci comunque quanto gli psicofarmaci o altre strategie siano davvero utili a ridurre la solitudine come strategia difensiva dal delirio o dai sintomi negativi della psicosi e della depressione maggiore.
 
Gli psicofarmaci non sono infatti l’unica soluzione, ma possono aiutare in modo efficace soprattutto quando i pazienti hanno deliri attivi a loro stessi fastidiosi, come nel caso in cui stiano sempre con le cuffie nelle orecchie per non sentire le allucinazioni uditive, ed anche passanti meno esperti si rendono conto di questi problemi, ad esempio sui pazienti che parlano da soli o si litigano con fantasmi per strada o negli autobus.

Esistono però i pazienti resistenti ad ogni psicofarmaco!
 
Apparentemente la soluzione migliore sono allora proprio i corsi di riabilitazione, con i DH anche nelle strutture private, meglio pagate dallo stato per realizzare profitti in luogo delle ASL, cui si chiede con sempre minore insistenza di adempiere questo ruolo considerato ormai residuale e non proficuo.
 

Insomma oltre il danno erariale anche la beffa…
 
Non spetta però solo alle Asl ed ai DH privati, sovvenzionati maggiormente dalla stessa identica fonte, ovvero la Regione, ma sarebbe anche compito dei Comuni e delle Cooperative Sociali o delle Associazioni autonome o compartecipate da parenti e sofferenti psichici, ma questo avviene molto, troppo raramente, soprattutto nel meridione, maggiormente vessato dai tagli, dalla povertà e dagli sprechi.
 
La solitudine è infine terapeutica in alcuni casi, dal maniacale che deve imparare una diversa condizione esistenziale al paranoico che deve ricominciare a centrare la propria esistenza prima di integrare nuovamente l’altro, fino al borderline che comunque in società crea manipolazioni eversive dell’ordine sociale e tra i quali, spesso, gradisco annoverarmi anche io, giacché questa definizione è politica ed abusata dalla psichiatria e dalla società ai danni di chi non segue qualsivoglia regola sociale semplicemente perché ha il diritto di essere libero e in questo caso… da solo !!
 

 

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1 commento

  1. lucia_ferretti

    Sono convinta che la
    Sono convinta che la solitudine caratterizzi l ‘esistenza di tutti, sani o malati; imparare a convivere con se stessi, senza dipendere eccessivamente dalla presenza degli altri, è una conquista vitale, e segno di energia interiore, per ciascuno.

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