Un medico psichiatra, in una vasta e degradata periferia del Sud (la “Terra dei fuochi”), lavora di notte in tre SPDC, di giorno nei SerT ed in un Carcere femminile. Niente di straordinario. Ma questo clinico ha un background fenomenologico. In che cosa, allora, il suo sguardo si differenzia da quello della psichiatria ordinaria? Esistono atmosfere che solo un “colpo d’occhio” coglie dal vivo? Dov’è, oltre la teoria, l’azione che incide l’istante nella convulsa dinamica delle situazioni? Questa rubrica non descrive casi clinici, ne raccoglie solo gli “avanzi”, fissa dettagli percettivi (“eidetici?”); trattiene, come al fronte con una Leica al collo, brandelli di vita in fuga nel tempo. Lacrime, sguardi, mani, schiaffi, urla, silenzi: trascriverli è sviluppare un negativo ritrovato poi tra le tasche del camice; dopo, ma non troppo, che l’onda è passata. Forse proprio tra gli “avanzi” dell’esperienza brillano braci di senso che fanno viva una storia, vera una vita. La rubrica è rivolta a coloro i quali, oltre la fine della psichiatria, credono ancora in una psichiatria dell’incontro, che torni ad esercitare la propria sensibilità per gli aspetti dinamici ed umani dei frangenti psicopatologici.
NDR: per chi lo desidera è disponibile il testo in formato PDF seguendo il link
MAPPA DEL PERCORSO
Introduzione : Last man standing
PARTE PRIMA : LA FENOMENOLOGIA AD “ALZO ZERO”
1. L’ultima corvée
2. Istantanee
3. Viandante o vigliacco?
4. The Waste Land
5. Non luoghi vissuti
6. Atmosfere di guardia
7. Realtà ed irrealtà
8. Anabasi e catabasi
9. Alzo zero
10. Avanzi
11. Una atipica Bildung
PARTE SECONDA : LAMPI NELLA NOTTE
Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora. Nulla oltre questo. Non chiedo perché.
Non mi ribello. Mi piego […] anche se la ragione mi è ignota.
C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino.
Con umiltà.
Ada Gobetti
Il credito va all’uomo che è davvero nell’arena,
il cui viso è sfigurato dalla polvere,
dal sudore e dal sangue; a chi lotta coraggiosamente…
a colui che se vince sperimenta il trionfo dell’alto e, se fallisce,
fallisce almeno osando grandemente.
Theodore Roosevelt
Ci sono battaglie che non abbiamo scelto.
Poi c’è la vita. E quella io non smetterò mai di sceglierla.
Carlotta Nobile[1]
INTRODUZIONE
Last Man Standing[2]
Questo non è un manuale di istruzioni
e non sono neanche sicuro che sia il manuale di quello che io ho fatto.
Il problema è che dubitando di me stesso
non mi fido neppure dei miei pensieri.
Forse nel loro insieme queste considerazioni
sono solo il racconto fantasioso
di come sono riuscito a sopravvivere.
Carl Whitaker
Per uno psichiatra come sono io, formatosi tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, vocato ad una clinica fondata sulla psicopatologia fenomenologica, quelli trascorsi non sono stati per niente anni facili. Quando mi sono affacciato al mondo della psichiatria istituzionale, a giugno del 1990[3], la Riforma del 1978, varata dodici anni prima, era stata largamente avviata, con tutte le sue contraddizioni, in genere nel Sud con maggiori difficoltà rispetto al Centro e al Nord, e tuttavia già si avviava, dopo gli eroici furori, alla fase (attuale) della longue plainte.[4]
Sassolas (2006) mette in luce come, proprio a cavallo del Secolo, si sia passati da una psichiatria (degli anni 1970-1990) militante, innovatrice, con grande slancio emotivo (una psichiatria che si confrontava in modo irruento con il reale che opponeva resistenza, una psichiatria che assumeva il rischio e la responsabilità del fallimento) ad una psichiatria la cui caratteristica è “une longue plainte”, una lunga e grande lamentela ovvero un’attitudine di rassegnazione nei confronti della realtà e di impasse e attesa passiva[5] (Sassolas, 2006). Dunque il 1990 sembra essere proprio la linea del displuvium tra un ventennio di entusiasmo (1970-1990) e un ventennio di torbido riflusso (1990-2010). Naturalmente, di questo, io allora non avevo alcuna consapevolezza, anche se quello che vedevo, all’uscita dall’Università e memore degli anni in cui avevo frequentato il vecchio Ospedale psichiatrico provinciale[6], non mi piaceva né mi attraeva[7]. Nelle sedi universitarie, d’altro canto, mai emancipatesi dal dominio del paradigma positivistico prima e poi biologistico, la collocazione di uno psichiatra con la passione della psicopatologia e della clinica risultava impossibile[8]. Qualche spazio come ricercatore rimaneva soltanto per gli adepti del paradigma scientistico, destinato a divenire monistico, imperante, totalitario e, in genere, molto dedito al vetro del laboratorio e poco alla carne[9]della clinica. Dunque, per uno psicopatologo in pectore, negli anni Novanta, come del resto oggi, quasi tutte le strade erano chiuse. Mentre coltivavo la mia formazione psicopatologica in stretto contatto con Bruno Callieri, che avevo incontrato nel 1993 in un CSM a Piedimonte Matese, e, contemporaneamente, con il gruppo fiorentino e con quello padovano, decisi, dopo la specializzazione in neurologia e quella in psichiatria, di fare un’esperienza nei Servizi per le tossicodipendenze della periferia a Nord di Napoli[10]. Pertanto dal 1998 ho visto prevalentemente tossicodipendenti e, dal 2004 tossicodipendenti con disturbi mentali. Di fatto, dopo qualche anno iniziale da precario[11] per quasi quindici anni ho vissuto lontano dalla psichiatria territoriale ed ospedaliera. Il mio ritorno a pieno titolo nella Salute Mentale è avvenuto solo nel 2012. Con un impatto essenzialmente ospedaliero.
In realtà non sono l’unico, in questi anni, in Italia, ad aver vissuto il dramma di mantenere una posizione ed un atteggiamento psicopatologici all’interno dei Servizi pubblici. Nel corso degli anni, ho tuttavia l’impressione di essere rimasto uno degli ultimi, soprattutto nel Sud. I vecchi “maestri senza cattedra”[12] hanno continuato, oltre il pensionamento e fino alla morte, a testimoniare a noi più giovani la possibilità concreta di un approccio fenomenologico alla psichiatria, ma del tutto fuori dalla prassi clinica pubblica. Alcuni tra i più valenti colleghi, appartenenti alla terza generazione della Psichiatria fenomenologica italiana, sono transitati nelle facoltà universitarie, per lo più di psicologia.
Ritornando nella Salute Mentale nel 2012, a 34 anni dalla riforma, a 47 anni di età, ho vissuto una sensazione simile a quella di chi torna in patria dopo anni di esilio, come Ulisse che torna ad Itaca, dopo una guerra di dieci anni ed un periplo di altri dieci, come uno straccione, riconosciuto solo dal cane, cioè dai pazienti. Di fatto, io non ho mai vissuto a pieno il modello della psichiatria territoriale, anche se ho tentato di applicarne i principi fondativi organizzando un Centro territoriale pubblico per la cura dei tossicomani con disturbi mentali, quelli che la psichiatria rifiutava e che i SerT non potevano curare. Rientrando “a casa” dal fronte delle tossicodipendenze, ho trovato smagliata e sgranata la rete dei Servizi, collassati per lo più sull’urgenza-emergenza, non più aperti sulle ventiquattro ore, con centri crisi chiusi. Il problema principale è ridiventato, così, quello della porta girevole in SPDC. La mia lettura serale delle cartelle cliniche degli SPDC nei quali presto essenzialmente servizio di guardia notturna, non mi ha permesso di rilevare molte note di un qualche significativo spessore psicopatologico. Annotazioni per lo più comportamentali (pz. agitato, tranquillo, adeguato) o descrizioni ipersemplificate di sintomi produttivi (pz. delirante, allucinato, incoerente) senza esplicitazione di contenuti, ma, soprattutto, senza alcuna inferenza concernente le caratteristiche genetico-formali di questi fenomeni produttivi, sono tutto quello che mi è capitato di leggere. Le scarne note anamnestiche, relative a pochi fatti circostanzianti il ricovero, mi hanno ricordato molto da vicino quelle delle cartelle cliniche del Manicomio Provinciale di Napoli “Leonardo Bianchi”. Nessuno sforzo per arrivare ad una diagnosi basata su criteri concernenti le esperienze soggettive del paziente, piuttosto forzature per infilare, come la carne macinata nelle budella, la fenomenica clinica dentro le categorie preconfezionate per la compilazione della SDO. Una condizione o, meglio, un andazzo di questo tipo comporta evidentemente la solitudine di chi vuole porsi il problema di una diagnosi critica, comporta l’assenza di interlocutori spesso anche tra gli stessi colleghi. La disquisizione intorno alla diagnosi differenziale tra un delirio, un deliroide, ed una pseudologia fantastica ad esempio, diventa un problema di lana caprina, come disquisire del sesso degli angeli; lo stesso dicasi della diagnosi differenziale tra una schizofrenia, una paranoia ed una ed una parafrenia. Ho notato, negli stessi SPDC, anche un assottigliamento drammatico del tempo dedicato dai colleghi al colloquio clinico con i pazienti, rispetto al tempo dedicato ad altre mansioni, o semplicemente ad attendere che finisca il turno. Il paziente, in genere, vaga fumando sigarette nel reparto e interagendo per lo più con gli infermieri. Il medico viene chiamato fondamentalmente a gestire l’emergenza. Sembra che la gestione dell’emergenza, della fase acuta psicotica, per lo più indistinta, caratterizzata da destrutturazione dello stato di coscienza, sintomi produttivi e agitazione psicomotoria, sia l’unico momento vivo, in cui l’intervento si vuole che sia sedativo il più possibile, nel più breve tempo possibile[13].
Dal mio punto di vista, invece, negli anni in cui ho gestito un Centro territoriale per la comorbilità psichiatrica dei tossicomani (2004-2012), ho cercato di creare soprattutto un’atmosfera empatica, un ambiente dentro il quale si percepisse di meno la propria diversità e di più la condivisione di esperienze emozionali. Un ambiente con la porta sempre aperta allo straniero, a chi veniva d’altrove, fosse stato esso un operatore o un utente. Un ambiente umano nel quale anche i sintomi più duri, dall’astinenza al delirio, venissero compresi soprattutto da un punto di vista soggettivo, e venissero valorizzati nella loro ricchezza di senso; un ambiente in cui la farmacoterapia venisse prescritta soprattutto in appoggio ad un lavoro sulle relazioni e sulla persona. Le cose non sono andate così male, tranne che con soggetti affetti da disturbo borderline di personalità, con i quali lo sforzo di raggiungere una simmetria nel rapporto è stata del tutto fraintesa, con un ritorno estremamente aggressivo e disidealizzante. Ma questa mia esperienza non è stata supportata dal contesto istituzionale, pertanto, anche se nella lettera in qualche modo continua, nello spirito, di fatto, è naufragata. Da qui molta amarezza, molta delusione. A queste vanno aggiunte, certo, altre delusioni, inparte derivanti dall’indeformabilità del sistema, in parte dalla mia psicopatologia personale.
Si potrebbe dire che questa rubrica, voluta con strenua richiesta dal dr. Bollorino, nasce nello jato tra le sentiment d’etre tout et l’évidence de n’etre rien[14], tipico dell’oltrepassamento definitivo della linea d’ombra tra la giovinezza idealizzante l’età adulta matura. In particolare, a questo scollinamento, hanno contribuito le esperienze accumulate lungo un decennio itinerante, come supervisore o formatore, in varie AASSLL o UULLSS o UUSSLL italiane, nelle quali ho avuto modo di incontrare centinaia di operatori e di toccare vivamente con mano la longue plainte di cui parla Sassolas.
Per lo più tutti gli operatori della Salute mentale e delle Dipendenze si lamentano della burocratizzazione, della carenza dei fondi, dello scarso coinvolgimento delle figure apicali, delle conflittualità insite e sedimentate nelle équipe di lavoro, della riduzione degli organici, dell’invecchiamento degli stessi. Nei gruppi che hanno funzionato c’è il rimpianto nostalgico del passato, quasi una retorica della prima ora. La mia delusione, tuttavia, non nasce dalla constatazione di questi dati di realtà. La delusione nasce innanzitutto dall’aver toccato con mano, negli operatori della Salute mentale e delle Dipendenze patologiche, una diffusa perdita di entusiasmo e di investimento libidico sul proprio lavoro, la mancata elaborazione delle frustrazioni che questo tipo di pratica somministra generosamente, ma soprattutto dal constatare che, di fronte al discorso fenomenologico, molti lo sentono risonante, molti lo sentono, addirittura, elastico e dinamico al punto tale da poter essere calato nella dimensione dei Servizi e della riabilitazione, ma poi, al momento di passare all’atto, più o meno tutti fanno spallucce. Perché fanno spallucce? Perché, in fondo, ognuno ha trovato una propria dimensione di costrizione, certo, nello stato attuale dei Servizi, ma anche di piccoli privilegi, di difesa, di non esposizione, di coinvolgimento in altre cose più gratificanti. In una parola, di accomodamento. O forse, in maniera questa volta più critica, perché il modello fenomenologico è fondamentalmente inapplicabile nella realtà poiché i suoi apriori fondativi finirebbero per mettere radicalmente in discussione le premesse istituzionali (v. la storia di Franco Basaglia) e, aggiungo io, personali di chi lo esercita.
Quasi nessuno degli operatori italiani nel campo della Salute Mentale oggi pensa più di poter trarre gratificazione dal lavoro con la Salute mentale[15]. Nessuno si sente più garantito, né dal clima socioculturale né dalle proprie figure apicali. Pochissimi si sentono di far parte di un gruppo operativo strutturato con storia. Molti si sentono soli, e sbarcano il lunario, come si suol dire, contando i giorni che li separano dalla pensione. I rinforzi promessi non sono più arrivati. E la malattia mentale ha mostrato, nonostante tutto, la sua faccia dura : recidiva, cronicizzazione, non risposta, ricadute medico-legali. Sicuramente tutti gli operatori, agli albori della Riforma, trenta anni or sono, erano giovani. Poi i giovani non lo sono stati più. Con il mancato ricambio, è finita anche quella fase in cui l’anziano può sentirsi valorizzato trasmettendo un sapere sedimentato con l’esperienza.
Tutto ciò, unitamente a delle gravi perdite personali, sulle quali campeggiano la morte del miei maestri : Bruno Callieri, il 9 febbraio del 2012, e Arnaldo Ballerini, il 21 settembre 2015. Queste perdite mi hanno sicuramente buttato fuori carreggiata, rispetto all’idea di poter fondare qualche cosa di fenomenologico dentro le istituzioni. Ho percepito, in qualche modo, lo sbandamento come contraccolpo. Ho perso molto l’entusiasmo di andare predicando il vangelo fenomenologico in giro, per ricevere narcisistici applausi, intascare un grant quando previsto, e ampliare la rete delle conoscenze personali. Mi è apparso tutto, ad un certo punto, come terribilmente fine a se stesso.
La mia posizione attuale, diciamo dopo la caduta, è quella di un navigatore in solitaria, che trova ancora il piacere di incontrare pazienti nei contesti della psichiatria, delle tossicodipendenze e del carcere, ma che non riesce a strutturare, non fosse altro che per mancanza di continuità, situazioni di campo, di ambiente, di milieu, eccezion fatta il lavoro di gruppo[16].
Questa rubrica vuole essere, allora, un modo per valorizzare ciò che resta dopo l’urto, o, se vogliamo, più malinconicamente, quando la festa è finita, a tavola sparecchiata, per utilizzare gli avanzi, gli scarti. Tutto ciò, certo, sembra minimale rispetto all’idea di una presa in carico globale, forte, costante e continuativa. Ma ciò che resta è comunque qualcosa. Ridà, quantomeno, alla partita con la realtà un’altra possibilità. Una delle letture ispiratrici di questo testo è forse l’ultima consigliatami da Bruno Callieri: un librino di Vladimir Jankélévitch, dal titolo assai emblematico, la cui lettura consiglio a tutti i reduci della grandeur: Le Je-ne-sais-quoi et le Presque rien.
Del resto, oltre a fare di necessità virtù, questa rubrica[17] vuole ribadire che la fenomenologia forse trova un suo specifico proprio nelle situazioni acute, improvvise, inspiegabili, nelle quali l’immediatezza dell’osservazione coincide con l’immediatezza dell’azione, in un contesto in cui non è possibile distinguere l’osservare dall’essere coinvolti, l’occhio dalla mano, il comprendere dal curare.
Da questo punto di vista, mi sento di spezzare una lancia verso la speranza: almeno fino a quando uno psichiatra continuerà ad imbattersi direttamente nei frammenti delle rotture umane, forse non potrà fare a meno della fenomenologia.
PARTE PRIMA
LA FENOMENOLOGIA AD “ALZO ZERO”
Non mi ribello. Mi piego […] anche se la ragione mi è ignota.
C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino.
Con umiltà.
Ada Gobetti
Il credito va all’uomo che è davvero nell’arena,
il cui viso è sfigurato dalla polvere,
dal sudore e dal sangue; a chi lotta coraggiosamente…
a colui che se vince sperimenta il trionfo dell’alto e, se fallisce,
fallisce almeno osando grandemente.
Theodore Roosevelt
Ci sono battaglie che non abbiamo scelto.
Poi c’è la vita. E quella io non smetterò mai di sceglierla.
Carlotta Nobile[1]
INTRODUZIONE
Last Man Standing[2]
Questo non è un manuale di istruzioni
e non sono neanche sicuro che sia il manuale di quello che io ho fatto.
Il problema è che dubitando di me stesso
non mi fido neppure dei miei pensieri.
Forse nel loro insieme queste considerazioni
sono solo il racconto fantasioso
di come sono riuscito a sopravvivere.
Carl Whitaker
Per uno psichiatra come sono io, formatosi tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, vocato ad una clinica fondata sulla psicopatologia fenomenologica, quelli trascorsi non sono stati per niente anni facili. Quando mi sono affacciato al mondo della psichiatria istituzionale, a giugno del 1990[3], la Riforma del 1978, varata dodici anni prima, era stata largamente avviata, con tutte le sue contraddizioni, in genere nel Sud con maggiori difficoltà rispetto al Centro e al Nord, e tuttavia già si avviava, dopo gli eroici furori, alla fase (attuale) della longue plainte.[4]
Sassolas (2006) mette in luce come, proprio a cavallo del Secolo, si sia passati da una psichiatria (degli anni 1970-1990) militante, innovatrice, con grande slancio emotivo (una psichiatria che si confrontava in modo irruento con il reale che opponeva resistenza, una psichiatria che assumeva il rischio e la responsabilità del fallimento) ad una psichiatria la cui caratteristica è “une longue plainte”, una lunga e grande lamentela ovvero un’attitudine di rassegnazione nei confronti della realtà e di impasse e attesa passiva[5] (Sassolas, 2006). Dunque il 1990 sembra essere proprio la linea del displuvium tra un ventennio di entusiasmo (1970-1990) e un ventennio di torbido riflusso (1990-2010). Naturalmente, di questo, io allora non avevo alcuna consapevolezza, anche se quello che vedevo, all’uscita dall’Università e memore degli anni in cui avevo frequentato il vecchio Ospedale psichiatrico provinciale[6], non mi piaceva né mi attraeva[7]. Nelle sedi universitarie, d’altro canto, mai emancipatesi dal dominio del paradigma positivistico prima e poi biologistico, la collocazione di uno psichiatra con la passione della psicopatologia e della clinica risultava impossibile[8]. Qualche spazio come ricercatore rimaneva soltanto per gli adepti del paradigma scientistico, destinato a divenire monistico, imperante, totalitario e, in genere, molto dedito al vetro del laboratorio e poco alla carne[9]della clinica. Dunque, per uno psicopatologo in pectore, negli anni Novanta, come del resto oggi, quasi tutte le strade erano chiuse. Mentre coltivavo la mia formazione psicopatologica in stretto contatto con Bruno Callieri, che avevo incontrato nel 1993 in un CSM a Piedimonte Matese, e, contemporaneamente, con il gruppo fiorentino e con quello padovano, decisi, dopo la specializzazione in neurologia e quella in psichiatria, di fare un’esperienza nei Servizi per le tossicodipendenze della periferia a Nord di Napoli[10]. Pertanto dal 1998 ho visto prevalentemente tossicodipendenti e, dal 2004 tossicodipendenti con disturbi mentali. Di fatto, dopo qualche anno iniziale da precario[11] per quasi quindici anni ho vissuto lontano dalla psichiatria territoriale ed ospedaliera. Il mio ritorno a pieno titolo nella Salute Mentale è avvenuto solo nel 2012. Con un impatto essenzialmente ospedaliero.
In realtà non sono l’unico, in questi anni, in Italia, ad aver vissuto il dramma di mantenere una posizione ed un atteggiamento psicopatologici all’interno dei Servizi pubblici. Nel corso degli anni, ho tuttavia l’impressione di essere rimasto uno degli ultimi, soprattutto nel Sud. I vecchi “maestri senza cattedra”[12] hanno continuato, oltre il pensionamento e fino alla morte, a testimoniare a noi più giovani la possibilità concreta di un approccio fenomenologico alla psichiatria, ma del tutto fuori dalla prassi clinica pubblica. Alcuni tra i più valenti colleghi, appartenenti alla terza generazione della Psichiatria fenomenologica italiana, sono transitati nelle facoltà universitarie, per lo più di psicologia.
Ritornando nella Salute Mentale nel 2012, a 34 anni dalla riforma, a 47 anni di età, ho vissuto una sensazione simile a quella di chi torna in patria dopo anni di esilio, come Ulisse che torna ad Itaca, dopo una guerra di dieci anni ed un periplo di altri dieci, come uno straccione, riconosciuto solo dal cane, cioè dai pazienti. Di fatto, io non ho mai vissuto a pieno il modello della psichiatria territoriale, anche se ho tentato di applicarne i principi fondativi organizzando un Centro territoriale pubblico per la cura dei tossicomani con disturbi mentali, quelli che la psichiatria rifiutava e che i SerT non potevano curare. Rientrando “a casa” dal fronte delle tossicodipendenze, ho trovato smagliata e sgranata la rete dei Servizi, collassati per lo più sull’urgenza-emergenza, non più aperti sulle ventiquattro ore, con centri crisi chiusi. Il problema principale è ridiventato, così, quello della porta girevole in SPDC. La mia lettura serale delle cartelle cliniche degli SPDC nei quali presto essenzialmente servizio di guardia notturna, non mi ha permesso di rilevare molte note di un qualche significativo spessore psicopatologico. Annotazioni per lo più comportamentali (pz. agitato, tranquillo, adeguato) o descrizioni ipersemplificate di sintomi produttivi (pz. delirante, allucinato, incoerente) senza esplicitazione di contenuti, ma, soprattutto, senza alcuna inferenza concernente le caratteristiche genetico-formali di questi fenomeni produttivi, sono tutto quello che mi è capitato di leggere. Le scarne note anamnestiche, relative a pochi fatti circostanzianti il ricovero, mi hanno ricordato molto da vicino quelle delle cartelle cliniche del Manicomio Provinciale di Napoli “Leonardo Bianchi”. Nessuno sforzo per arrivare ad una diagnosi basata su criteri concernenti le esperienze soggettive del paziente, piuttosto forzature per infilare, come la carne macinata nelle budella, la fenomenica clinica dentro le categorie preconfezionate per la compilazione della SDO. Una condizione o, meglio, un andazzo di questo tipo comporta evidentemente la solitudine di chi vuole porsi il problema di una diagnosi critica, comporta l’assenza di interlocutori spesso anche tra gli stessi colleghi. La disquisizione intorno alla diagnosi differenziale tra un delirio, un deliroide, ed una pseudologia fantastica ad esempio, diventa un problema di lana caprina, come disquisire del sesso degli angeli; lo stesso dicasi della diagnosi differenziale tra una schizofrenia, una paranoia ed una ed una parafrenia. Ho notato, negli stessi SPDC, anche un assottigliamento drammatico del tempo dedicato dai colleghi al colloquio clinico con i pazienti, rispetto al tempo dedicato ad altre mansioni, o semplicemente ad attendere che finisca il turno. Il paziente, in genere, vaga fumando sigarette nel reparto e interagendo per lo più con gli infermieri. Il medico viene chiamato fondamentalmente a gestire l’emergenza. Sembra che la gestione dell’emergenza, della fase acuta psicotica, per lo più indistinta, caratterizzata da destrutturazione dello stato di coscienza, sintomi produttivi e agitazione psicomotoria, sia l’unico momento vivo, in cui l’intervento si vuole che sia sedativo il più possibile, nel più breve tempo possibile[13].
Dal mio punto di vista, invece, negli anni in cui ho gestito un Centro territoriale per la comorbilità psichiatrica dei tossicomani (2004-2012), ho cercato di creare soprattutto un’atmosfera empatica, un ambiente dentro il quale si percepisse di meno la propria diversità e di più la condivisione di esperienze emozionali. Un ambiente con la porta sempre aperta allo straniero, a chi veniva d’altrove, fosse stato esso un operatore o un utente. Un ambiente umano nel quale anche i sintomi più duri, dall’astinenza al delirio, venissero compresi soprattutto da un punto di vista soggettivo, e venissero valorizzati nella loro ricchezza di senso; un ambiente in cui la farmacoterapia venisse prescritta soprattutto in appoggio ad un lavoro sulle relazioni e sulla persona. Le cose non sono andate così male, tranne che con soggetti affetti da disturbo borderline di personalità, con i quali lo sforzo di raggiungere una simmetria nel rapporto è stata del tutto fraintesa, con un ritorno estremamente aggressivo e disidealizzante. Ma questa mia esperienza non è stata supportata dal contesto istituzionale, pertanto, anche se nella lettera in qualche modo continua, nello spirito, di fatto, è naufragata. Da qui molta amarezza, molta delusione. A queste vanno aggiunte, certo, altre delusioni, inparte derivanti dall’indeformabilità del sistema, in parte dalla mia psicopatologia personale.
Si potrebbe dire che questa rubrica, voluta con strenua richiesta dal dr. Bollorino, nasce nello jato tra le sentiment d’etre tout et l’évidence de n’etre rien[14], tipico dell’oltrepassamento definitivo della linea d’ombra tra la giovinezza idealizzante l’età adulta matura. In particolare, a questo scollinamento, hanno contribuito le esperienze accumulate lungo un decennio itinerante, come supervisore o formatore, in varie AASSLL o UULLSS o UUSSLL italiane, nelle quali ho avuto modo di incontrare centinaia di operatori e di toccare vivamente con mano la longue plainte di cui parla Sassolas.
Per lo più tutti gli operatori della Salute mentale e delle Dipendenze si lamentano della burocratizzazione, della carenza dei fondi, dello scarso coinvolgimento delle figure apicali, delle conflittualità insite e sedimentate nelle équipe di lavoro, della riduzione degli organici, dell’invecchiamento degli stessi. Nei gruppi che hanno funzionato c’è il rimpianto nostalgico del passato, quasi una retorica della prima ora. La mia delusione, tuttavia, non nasce dalla constatazione di questi dati di realtà. La delusione nasce innanzitutto dall’aver toccato con mano, negli operatori della Salute mentale e delle Dipendenze patologiche, una diffusa perdita di entusiasmo e di investimento libidico sul proprio lavoro, la mancata elaborazione delle frustrazioni che questo tipo di pratica somministra generosamente, ma soprattutto dal constatare che, di fronte al discorso fenomenologico, molti lo sentono risonante, molti lo sentono, addirittura, elastico e dinamico al punto tale da poter essere calato nella dimensione dei Servizi e della riabilitazione, ma poi, al momento di passare all’atto, più o meno tutti fanno spallucce. Perché fanno spallucce? Perché, in fondo, ognuno ha trovato una propria dimensione di costrizione, certo, nello stato attuale dei Servizi, ma anche di piccoli privilegi, di difesa, di non esposizione, di coinvolgimento in altre cose più gratificanti. In una parola, di accomodamento. O forse, in maniera questa volta più critica, perché il modello fenomenologico è fondamentalmente inapplicabile nella realtà poiché i suoi apriori fondativi finirebbero per mettere radicalmente in discussione le premesse istituzionali (v. la storia di Franco Basaglia) e, aggiungo io, personali di chi lo esercita.
Quasi nessuno degli operatori italiani nel campo della Salute Mentale oggi pensa più di poter trarre gratificazione dal lavoro con la Salute mentale[15]. Nessuno si sente più garantito, né dal clima socioculturale né dalle proprie figure apicali. Pochissimi si sentono di far parte di un gruppo operativo strutturato con storia. Molti si sentono soli, e sbarcano il lunario, come si suol dire, contando i giorni che li separano dalla pensione. I rinforzi promessi non sono più arrivati. E la malattia mentale ha mostrato, nonostante tutto, la sua faccia dura : recidiva, cronicizzazione, non risposta, ricadute medico-legali. Sicuramente tutti gli operatori, agli albori della Riforma, trenta anni or sono, erano giovani. Poi i giovani non lo sono stati più. Con il mancato ricambio, è finita anche quella fase in cui l’anziano può sentirsi valorizzato trasmettendo un sapere sedimentato con l’esperienza.
Tutto ciò, unitamente a delle gravi perdite personali, sulle quali campeggiano la morte del miei maestri : Bruno Callieri, il 9 febbraio del 2012, e Arnaldo Ballerini, il 21 settembre 2015. Queste perdite mi hanno sicuramente buttato fuori carreggiata, rispetto all’idea di poter fondare qualche cosa di fenomenologico dentro le istituzioni. Ho percepito, in qualche modo, lo sbandamento come contraccolpo. Ho perso molto l’entusiasmo di andare predicando il vangelo fenomenologico in giro, per ricevere narcisistici applausi, intascare un grant quando previsto, e ampliare la rete delle conoscenze personali. Mi è apparso tutto, ad un certo punto, come terribilmente fine a se stesso.
La mia posizione attuale, diciamo dopo la caduta, è quella di un navigatore in solitaria, che trova ancora il piacere di incontrare pazienti nei contesti della psichiatria, delle tossicodipendenze e del carcere, ma che non riesce a strutturare, non fosse altro che per mancanza di continuità, situazioni di campo, di ambiente, di milieu, eccezion fatta il lavoro di gruppo[16].
Questa rubrica vuole essere, allora, un modo per valorizzare ciò che resta dopo l’urto, o, se vogliamo, più malinconicamente, quando la festa è finita, a tavola sparecchiata, per utilizzare gli avanzi, gli scarti. Tutto ciò, certo, sembra minimale rispetto all’idea di una presa in carico globale, forte, costante e continuativa. Ma ciò che resta è comunque qualcosa. Ridà, quantomeno, alla partita con la realtà un’altra possibilità. Una delle letture ispiratrici di questo testo è forse l’ultima consigliatami da Bruno Callieri: un librino di Vladimir Jankélévitch, dal titolo assai emblematico, la cui lettura consiglio a tutti i reduci della grandeur: Le Je-ne-sais-quoi et le Presque rien.
Del resto, oltre a fare di necessità virtù, questa rubrica[17] vuole ribadire che la fenomenologia forse trova un suo specifico proprio nelle situazioni acute, improvvise, inspiegabili, nelle quali l’immediatezza dell’osservazione coincide con l’immediatezza dell’azione, in un contesto in cui non è possibile distinguere l’osservare dall’essere coinvolti, l’occhio dalla mano, il comprendere dal curare.
Da questo punto di vista, mi sento di spezzare una lancia verso la speranza: almeno fino a quando uno psichiatra continuerà ad imbattersi direttamente nei frammenti delle rotture umane, forse non potrà fare a meno della fenomenologia.
PARTE PRIMA
LA FENOMENOLOGIA AD “ALZO ZERO”
- L’ultima corvée[18]
Posso dire, con la tranquillità di chi ha razionalizzato il fallimento, che quanto verà descritto in questa rubrica è solo un lavoro, e non l’aspetto collaterale di una carriera. Certo, un lavoro retribuito. Ma retribuito al prezzo sindacale di qualunque lavoro analogo. Pertanto ho ritenuto come non retribuiti gli anni di studio e di formazione volti a strutturare la mia capacità di clinico (due analisi personali e il lungo approfondimento fenomenologico).
Il Sistema sanitario pubblico paga allo stesso modo un medico psichiatra con una formazione personale e un medico che lavora nei Servizi di Salute Mentale senza avere neanche la specializzazione in psichiatria, un medico endocrinologo, ad esempio, che ha vinto il concorso nella Salute Mentale nei primi anni 90, quando la specializzazione non era obbligatoria per diventare assistente di psichiatria. Quando lo stesso, poi, ha conseguito la specializzazione come dipendente pubblico, lo Stato italiano ha inteso sanare l’ingiustizia, spesso diplomando l’ignoranza. Un costoso training personale, ad esempio, viene ancora giudicato non rilevante ai fini della prestazione da erogare, quale una diagnosi provvisoria, una terapia farmacologica, un ricovero. Questo azzeramento è mostruoso, se si pensa che a formazioni diverse non vengono attribuite competenze diverse e riconoscimenti diversi. Ad ogni modo questi sono discorsi che lasciano il tempo che trovano. Sta di fatto che, constatando che avrei potuto svolgere il lavoro che sono stato chiamato a svolgere anche senza tutta la via crucis della mia preparazione personale, mi piace attribuire il termine di corvée ad alcune mansioni, ovvero come se le svolgessi gratuitamente ma doverosamente per lo Stato, in quanto mio padrone feudale e datore di lavoro. Il mio senso del dovere, d’altro canto, è spiccato nei confronti della psichiatria stessa, avendo essa rappresentato molto nella mia vita personale, e nei confronti di quegli psichiatri che con il loro pensiero e la loro opera hanno reso possibile la psichiatria come scienza complessa e come risposta alla tragedia della malattia mentale.
Mi consola il pensiero che, in un Paese assurdo come l’Italia, con un po’ di fortuna di notte una persona straziata da una rottura psicotica, può ancora interloquire con uno psichiatra che ha studiato i sintomi di base da Parnas, come Andrea Raballo[19], piuttosto che con un counselor qualunque. Fatta questa premessa vengo alla ragion d’essere di questo testo.
Negli ultimi anni ho scritto sempre di meno[20]. Le grandi perdite sono eventi che seccano le parole, ripristinando lo spettro dell’inutilità. Quando, invece, il lutto ti libera dalla sua presa, ti lascia andare come un’alga, al ritmo periodico dell’onda.
Un giorno, nella primavera del 2012, qualcosa è accaduto. La mia vita si è rimessa in moto in maniera inesorabile, ma apparentemente imprevista. Ho lasciato la mia postazione fissa degli ultimi otto anni, il mio avamposto tra i tossici comorbili vicino al famigerato Parco Verde di Caivano[21], sulla frontiera del nulla, e sono rientrato nei ranghi della madre-grande-madre psichiatria. Mi sono detto, data l’età non più da prima nomina (47 anni), una specie richiamato alle armi.
Che cosa era accaduto? Che la mia vecchia ASL, la Napoli 3, è stata cancellata. Tutto l’hinterland a nord di Napoli è stato inglobato nell’area vasta denominata “Napoli 2 Nord”, la terza ASL più grande d’Italia, assemblaggio di trentadue comuni a nord di Napoli, da Secondigliano al litorale flegreo. Zone densissimamente popolate, tristemente note per l’infiltrazione criminale, per la disoccupazione, per la carenza di servizi, per la presenza di scorie tossiche interrate (terre dei fuochi)[22], per l’abusivismo edilizio. Dal Vesuvio al mare, zone cucite dall’Asse mediano[23], detto anche “l’Asse della morte”, una torcolare di strade statali “che portano al nulla”, attraversando il nulla. Centocinquanta chilometri quadrati di superficie, oltre un milione di abitanti. Tre SPDC, sei SerT, sei Centri di Salute mentale e un Carcere femminile, due isole, Ischia e Procida. Il “territorio”, come inteso dalla Riforma psichiatrica scaturita dalla 180, di fatto, si è andato a polverizzare. Organici di operatori in carenza, presidi psichiatrici e delle tossicodipendenze sguarniti, smobilitati, lasciati aperti massimo sei o dodici ore feriali senza emergenza, solo per ambulatori e certificazioni. Il 118 che effettua il primo intervento sulla crisi, a domicilio, in qualunque ora del giorno e della notte, “carrettando” in ospedale chiunque. L’emergenza psichiatrica, così, senza essere filtrata, viene condotta nel novanta per cento dei casi in Pronto soccorso. I tre SPDC sono dislocati uno a Frattamaggiore, uno a Giugliano ed uno a Pozzuoli, lo psichiatra di turno, di notte, si trova ad essere, così, l’interlocutore unico di quasi cinquecentomila persone, oltre al carico del reparto e alle consulenze in ospedale.
E’ così che, senza neanche averlo deciso fino in fondo, un giorno mi trovo a rimettere il camice, la biancheria di ricambio e il necessaire nello zaino. La mia vita irriconoscibile. Anche se mantengo un filo con la mia vita precedente[24]. Tossici, matti, detenuti diventano, di fatto, i miei interlocutori unici[25]. Non devo più occuparmi di ferie e di permessi degli operatori, di organizzazione del diurno, dei pranzi. Un consultant per il Dipartimento delle Dipendenze ed un turnista-guardista per il Dipartimento di Salute Mentale[26]. Le notti ingoiano le mie ore. Notti dopo notti. Comincio a incontrare colleghi sconosciuti, che stavano oltre il muro divisorio delle due ASL, squadre di infermieri sconosciute, pazienti sconosciuti. Rivedo, dopo anni, i pazienti psichiatrici puri, quelli veri, non sporcati dalle sostanze. Mi torna nelle vene la nostalgia degli schizofrenici. Sento, solo in quel momento e per contrasto, quanto suonano diverse, da quelle classiche, le psicosi da sostanze.
Poi, inavvertitamente ricomincio a scrivere.
2.Istantanee
Questa rubrica vuole essere una raccolta sincronico-diacronica di istantanee. Molte delle persone che incontro ogni giorno, di cui non trattengo frammenti, poi non le rivedo più. Si tratta, a volte, veramente di incontri unici. In questo senso la mia vita è cambiata. Negli anni che ho lavorato al Giano ho praticamente vissuto un tratto di vita con i pazienti che ho incontrato. I loro e i miei lutti, i loro scompensi, le mie incertezze, i nostri fallimenti. I viaggi insieme. Mi sono, certo, congedato da quelli che hanno ripreso, dopo mesi o anni, il flusso della vita. E i morti sono andati vi da me senza congedo. Ho continuato, invece, a vivere con quelli per i quali il Giano era l’unica casa, dovendo poi reggere l’accusa di averne cronicizzato la malattia, avendo, in realtà, solo tentato di trasformare l’incontro con loro in una relazione quotidiana. Di seguito, invece, sono inanellate con data e luogo, le infinite sfaccettature della crisi acuta. Nelle pieghe delle quali mi auguro di aver colto comunque un dettaglio, un particolare, qualcosa che, al di là del casino, abbia un ultimo senso.
Questa frequentazione con la brutalità dell’acuzie, portata ad esplodere nell’ultima spiaggia possibile, il pronto Soccorso di un’ospedale generale, che un po’ mi era mancata negli anni scorsi, mi ha consentito di riflettere più a fondo sull’emergenza, sull’urgenza, sull’allarme, sul setting improvvisato (benché in Pronto Soccorso) in cui una persona porta la propria esperienza esplosa ed incontenibile, spesso con coinvolgimento di familiari e forze dell’ordine, ed un clinico chiamato, delegato ad intervenire dalla collettività, in qualunque ora del giorno e della notte.
Allora, punto primo: perché l’acuzie?
Da qualche parte ogni evento, nella sua percezione vissuta, si fa acuto quando emerge alla coscienza. Nel senso che la percezione lo acuisce. La percezione dal vivo di un evento lo incarna, lo estrapola dal flusso routinario degli altri eventi e lo presentifica. L’acuzie è innanzitutto una dimensione di precipitazione spaziotemporale interna all’operatore che è chiamato a risolverla. L’acuzie, dunque, può essere stanata continuamente dal flusso della normalità quotidiana e informale. Ma l’acuzie di cui dico in queste righe è un’acuzie che io stesso mi sono andato a cercare. E’ un’acuzie, di cui avevo nostalgia, che mi ha cercato, forse da dentro, prima che io potessi intercettarla da fuori. E’ come un andare sulla linea lungo la quale sai che l’acuzie accadrà.
Che cosa accade, di fatto, quando uno psichiatra viene chiamato ad intervenire in una situazione acuta? Il clinico osserva, sente, valuta, decide un trattamento. Ma sulla base di che cosa accade questo? Quali sono i dispositivi che consentono a quel clinico, in quel momento, di prendere presumibilmente la migliore decisione per quel paziente, dato anche il contesto, in uno spazio tempo estremamente coartato? In quel momento i colleghi medici del Pronto Soccorso, se la situazione accade in Pronto Soccorso, ma può avvenire in reparto, o anche in ambulatorio, o per strada, o a domicilio, si fideranno di quanto quel clinico sostiene? Si, perché non hanno altrimenti. Allo stesso modo i familiari del paziente. Ovvero il clinico, quel clinico, chiunque egli sia, in quel momento sarà, di fatto, ritenuto affidabile. Eppure, a ben pensarci, la diagnosi differenziale di un quadro di agitazione psicomotoria tra isteria e psicosi, tanto per fare un esempio, è solo basato sulla presenza, all’interno del clinico, di un dispositivo efficace e rapido di lettura. Di questo dispositivo, in fondo, si discute in questa rubrica, esaminando le immagini, le istantanee, che questo dispositivo ha scattato. Ora, se questo dispositivo è ritenuto efficace nelle situazioni critiche, anche per mancanza di qualsiasi altro dispositivo, strumentale o di laboratorio (si pensi ai parametri strumentali e di laboratorio che confortano un cardiologo nella valutazione di un infarto miocardico acuto) perché lo stesso dispositivo non è ritenuto efficace e affidabile negli studi di coorte, negli studi farmacologici, negli studi che in genere in questo momento vengono pubblicati nelle riviste impattate della psichiatria clinica ufficiale? Si direbbe, quindi, “due fasi e due misure”, che forse danno ragione dello scarto enorme tra la patinata psichiatria ufficiale dei congressi e delle riviste impattate, e la brutale psichiatria della prassi quotidiana. E’ come se il paradigma scientistico vigente non considerasse affidabili proprio quei dispositivi clinici di rilevazione, che tuttavia in acuto decidono del destino degli esseri umani coinvolti, operatori compresi. Come è possibile, infatti, che dispositivi che valgono in acuto, ad acque calme, sono poi sostituiti da dispositivi ritenuti validi, come test psicometrici, rating scales, ed altro, a cui nessuno, ma proprio nessuno, penserebbe di ricorrere nella fase acuta?
Questo è il framework epistemologico di questa rubrica. Ma non è la ragione ultima per la quale questo rubrica prende vita. Il tentativo di rendere conto dell’utilità del colpo d’occhio fenomenologicamente educato nella densità vissuta della clinica è la vera pietra angolare di questo discorso. Ma non c’è solo questo. Il testo vuole tentare di catturare, come in guerra con una vecchia Leica al collo, la vita che scaturisce da un flusso turbolento di istanti destinati inesorabilmente a perdersi. Lacrime, sguardi, pugni contratti, urla, silenzi: il tessuto a macchie e a strappi che l’incontro con l’emergenza vissuta ci lascia dentro ogni volta, qualunque sia la nostra formazione. A volte un gesto, il colore di uno sguardo, la paziente maniacale che stanotte dall’ambulanza per salire la scalinata dell’SPDC ha voluto il mio braccio, senza colonna sonora, fino all’ingresso fatale con gli infermieri adunati che sorridevano. La bava agli angoli della bocca del paziente che ha appena sfondato al porta dell’SPDC e che sta per aggredirti, a cui tu dici, semplicemente : “Perché non ti lavi la faccia, sei un bel ragazzo, che fai con questa bava alla bocca?”.
Insomma, il valore euristico e gnoseologico di un dettaglio percettivo, che, in fondo, nessuno ti educa a cogliere.
Infine, ancora, questa scrittura è stata la necessità di liberarmi, da una parte, di fare il punto dall’altra. Di evitare di essere travolto da un impatto clinico colossale, immane. La necessita di non smettere, ogni tanto, di pensare, pure travolto dal torrenziale fiume del tempo.
3.Viandante o vigliacco?
Perché un medico-psichiatra alla soglia dei cinquantanni, cogliendo al balzo una serie di vicende conflittuali che lo vedono coinvolto in prima persona, lascia la sua sofferta e raggiunta posizione di responsabile di UOS all’interno di un Dipartimento delle Dipendenze Patologiche, senza notti, senza reperibilità, con orario distribuito sui cinque giorni, sabato e domenica sempre libero, per gettarsi nel tourbillon dei turni, notti e festivi, di due SPDC e di un reparto di osservazione psichiatrica in un carcere femminile, mantenendo la consulenza nel SerT, in quella che una volta e per quasi dieci anni è stata la sua unica struttura di riferimento?
Le risposte mancano.
Forse questa rubrica è una risposta. Esso è nato anche su suggerimento di amici, amiche, colleghi, a cui ho raccontato, di volta in volta, quello che vedevo, quello che mi capitava, che incontravo. Quello che vivevo. Più di qualcuno ha detto: “scrivi”…E così ho cominciato a scrivere. Ho cominciato e non ho smesso più. Rompendo un silenzio che durava da alcuni anni.
Non so se quello che ne verrà fuori è un testo scientifico o un testo letterario. Ma poco importa. So che ho provato, in ognuno di questi momenti, dentro ognuno di questi incontri, un sentimento di vicinanza molto forte e acuta all’evento in atto. Il tentativo di trascriverlo è stato come lo sviluppo di un negativo ritrovato tra le tasche del camice, dopo, ma non troppo dopo, che l’evento è finito. In fondo questa rubrica è solo una collana, che tenta di inanellare dei cocci, una ricetta, che tenta di realizzare un pranzo con gli avanzi.
La guardia, dunque, un antico deja vu rimasto intatto per venti anni. Le guardie alla clinica dei Camilliani, a Casoria, le guardie all’IRMI, sul Lago Patria, le guardie al Nuovo Pellegrini, sulla Doganella, le guardie al Policlinico universitario, sulla collina dei Camaldoli. Mai pensavo più di dovermi ritrovare a fare le guardie. E ritenevo, in fondo, a torto, saldato per sempre il mio conto con il camice, con la medicalità, con la psichiatria claustrale (manicomio-carcere). Invece non è stato così. Ad un certo punto, passata da anni, con lo scolorire della giovinezza, la supponenza di aver gettato il camice alle ortiche, ho avuto, al contrario, quasi la nausea di figure spurie, laiche, non cliniche, arroganti, senza camice o, peggio, quello che mi ha dato più fastidio, è che non avendo alcuna nozione della patologia, la trascuravano nella loro valutazione del paziente, attribuendo tutto alla sua soggettività “manipolativa”, “viziata”, “cattiva” (educatori, assistenti sociali, psicologi, medici non psichiatri, fatte salve le debite eccezioni)[27]. Da qui valutazioni di tipo morale. La sciatteria, l’incuria, l’indifferenza o l’entusiasmo salvifico hanno fatto il resto.
Scontratomi un giorno con un burocrate ex sessantottino avido di potere, messo a dirigere il Dipartimento di cui facevo parte, come un ufficiale degradato[28], sono ritornato al fronte, in trincea, sulla linea del fuoco. Mi sono accorto che, sulla frontiera delle tossicomanie da strada, credevo di stare in faccia alla realtà, ma avevo invece, come fanno le rondini al tetto, costruito un bozzolo, una ridotta, con le mie affezionate, dilette, amate e odiate psicologhe allieve-tirocinanti-contrattiste, in cui vivere la dimensione nostra come la migliore dimensione possibile, gli altri tutti fuori, i pazienti come in una grande famiglia. Avevo trasformato, in pratica, il nietzschiano noi-senza-patria di esseri umani (tossicomani-psicotici) dispersi nella terra di nessuno nella binswangeriana patria-del-noi, ma dimenticandomi che, fuori dall’atollo, esisteva il resto del mondo. Molte cose sono state possibili in quel bozzolo, altre no. Molte sono state sbagliate. L’errore più grosso è stata la chiusura nella patria-del-noi e il mancato tentativo di collegamento della patria-del-noi con il mondo circostante, con gli altri. Non siamo mai riusciti veramente ad integrare nella patria-del-noi neanche gli operatori di ruolo dell’istituzione, che ci hanno sempre vissuti come una manica di matti esaltati. Poi è arrivata l’istituzione, con il suo passo pesante. La poetica dell’accoglienza a soglia zero è finita. L’atmosfera è cambiata. E’ stato allora che, approfittando di una crepa, il viandante ha ripreso la sacca. Per alcuni solo un vigliacco che si è sottratto alle sue responsabilità. Ma Ulisse, in fondo, chi era veramente : un viandante o un vigliacco? Era uno che non sosteneva i legami o sentiva il bruciore del mare e del sole sulla pelle come una nostalgia potente del viaggio? Era uno che si fingeva matto per non andare alla guerra o era un guerriero che avrebbe voluto tenersi lontano dal mare della storia, perché sapeva che avrebbe sconvolto per sempre i suoi equilibri familiari? Perché sapeva che, lasciato una volta il suo aratro, non ne avrebbe fatto mai più veramente ritorno?
In un momento di grave e destabilizzante crisi della mia vita, tornare a contatto con i pazienti allettati mi ha ridato il senso (direbbe qualcun altro, mi ha confermato il ruolo) del mio essermi iscritto a medicina tanti anni fa.
4. I non luoghi vissuti
Sono le quattro del mattino. La scena è la seguente : gli androni del Pronto Soccorso dell’ospedale di Pozzuoli sono ormai deserti. Un uomo con il camice bianco ed una donna con il pigiama siedono su due sedie a rotelle messe di tre quarti, davanti all’ufficio vuoto dei sanitari. Intorno un silenzio surreale. La donna parla, impastata. Ha urgenza di raccontare a qualcuno la sua vita. Il medico ascolta, non può fare altro. Ha preso tutti i farmaci che aveva a casa ed ha bevuto. L’unico farmaco che il medico può usare, a questo punto, è se stesso. Non c’è altro rimedio quella notte. La donna si è fatta condurre dal 118, che l’ha depositata ed è andato via. Viene dal rione Tojano. La sorella di quindici anni morta di leucemia. Il padre morto. Due aborti. Il compagno che la ha abbandonata. La voce della sua nuova amante che la chiama a telefono e le dice “lui adesso è mio”. Lei che aveva una 42 ed era una bella donna[29].
Questa scena da teatro dell’assurdo si svolge in un ospedale cittadino, nel quale non è previsto alcun setting per la consultazione psichiatrica, pur essendo l’emergenza psichiatrica una componente preponderante dell’attività del Pronto soccorso.
L’SPDC dell’Ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli (Ospedale la Schiana) sorge sul lago d’Averno, nell’antichità ritenuto la porta degli inferi. La plumbea, immota pesantezza delle sue acque, provocata forse dal fondo (senza fondo Ab-grund) del vecchio cratere, conferisce un carattere tenebroso al luogo, circondato da misteriose e paurose leggende. La schiana, invece, è una distesa di terra, piantata a viti e ad oliveti, nel mezzo della quale sorge la moderna struttura ospedaliera. Al tramonto o all’alba, orari in genere di monto e di smonto, fiancheggiare con la jeep per un tratto le acque immote del lago d’Averno mi ha dato calma, tranquillità, a volte una voglia di piangere. Ad ogni modo, l’idea di vegliare la notte accanto ad un luogo così denso di presenze mitologiche mi ha dato coraggio. In fondo, per certi aspetti, sentire di stare di guardia alla porta dell’inferno, mi ha fatto sentire la forza che proviene dalla vicinanza al male, ed è fondata sull’idea che peggio di così non si può stare, che tenebra più oscura non può esservi. Il sentirsi, in parte, sul confine, già imparentato con le creature della notte, dà l’idea che la notte stessa non può fagocitarti, perché già tu sei creatura notturna. L’SPDC è un corpo basso distaccato dall’ospedale, per cui per andare in pronto Soccorso bisogna attraversare un cortile, con dei giardini, aprire un porticina sul retro, per trovarsi poi nella illuminata piazza dei miracoli, tra barelle e croci rosse, tra sangue dolore e vomito.
L’SPDC di Frattamaggiore, invece, circa 40 km più a sud, verso Napoli, è allocato nell’Ospedale S. Giovanni di Dio, che sorge, invece, nel cuore del tessuto urbano, tra Frattamaggiore e Frattaminore. L’ospedale detto “di Pardinola” sorge, al confine tra Frattamaggiore e Frattaminore, in una curva lungo una strada che si perde nello sterminato hinterland a nord di Napoli. L’SPDC è al terzo piano. La stanza del medico è dentro il reparto, in collegamento con la stanza degli infermieri. Per andare in Pronto Soccorso si rimane all’interno dell’ospedale. Il tempo di transito dell’ascensore è quello nel quale si fantastica sul tono della chiamata e quello nel quale si rimugina sul senso del proprio intervento, quando si torna sopra senza paziente. Il Pronto Soccorso è più piccolo e organizzato in maniera più caotica, pertanto accade non infrequentemente di dover fare la terapia al paziente cercandosi le fiale e preparando le iniezioni in proprio. Un cunicolo di barelle, di separè tra uno stand e l’altro. Di personale e di popolo in agitazione. La Fratta, da cui deriva il nome Frattamaggiore, era un territorio disboscato a sud dell’antica città di Atella, accolse i profughi di Miseno, scampati alla furia dell’assalto saraceno. Luogo consegnato alla storia dall’industria canapiera. La statua in bronzo della lavoratrice della canapa, la canapina, è l’ultimo saluto, da casa mia all’ospedale, prima di montare la guardia. L’ospedale fu fondato nel 1873 nel convento di Pardinola.
Il carcere femminile di Pozzuoli è ospitato in un convento del XV secolo (1472). Già sede di una confraternita di marinai e pescatori, bagno penale dal 1867. Vi si spense, nel 1736, Giovan Battista Pergolesi. 22 celle distribuite su tre piani. Due quelle destinate all’osservazione psichiatrica. Fino a 12 persone per cella. Molte straniere. Per lo più nordafricane e dell’est europeo. L’esperienza del gruppo fenomenologico qui è stata forte. L’avevo fatta nel carcere di Poggioreale in anni giovanili. Con le donne la musica è diversa. Quello che mi ha fatto più piacere è stato non sentirmi a disagio. Per la prima volta nella mia vita, non mi sono sentito a disagio di fronte a tante donne. Non ci sono emozioni prigioniere ed emozioni libere. Il gruppo ho iniziato a farlo ogni quindici giorni, supportato da Margherita Attanasio, giovane e appassionata psicologa nata in carcere. Una mattina a settimana faccio l’ambulatorio. Tossiche, masculilli, ansiose, assassine, depresse, cleptomani, psicotiche : donne.
Il centro Giano di Caivano era dislocato a pochi metri dal Parco Verde, una delle aree di spaccio più importanti per tutta l’area a nord di Napoli, tristemente noto alle cronache mondiali per la morte di due bambini, Antonio e Fortuna, in circostanze tragiche e perverse. Il Parco Verde è sorto dopo il terremoto dell’Ottanta, per ospitare i profughi. 4000 persone agglomerate in un complesso di edifici alti e ravvicinati, tinti di verde pallido. “Caivano ti accoglie con una serie di palazzine popolari dipinte in verde pisello. Guardo cose che si possono vedere ovunque: un cane che dorme e un bambino col telefonino.” (F. Arminio, 2013). La struttura è stata rinnovata completamente dopo che il SerT è stato trasferito ad Acerra. E’ il centro di doppia diagnosi da me fondato e attualmente gestito dal Dipartimento delle dipendenze, da cui io sono fuori. Intorno le terre dei fuochi, terre avvelenate da discariche a cielo chiuso e a cielo aperto. Ignoranza, spaccio, sacche di emarginazione e di degrado, la sensazione che la civiltà si sia fermata. Di là Pascarola, il casertano, i Regi Lagni di borbonica memoria.
Il SerT di Pozzuoli, dove ogni mercoledì decine di tossici matti mi aspettano, insiste nel rione Tojano. Nel SerT c’è agitazione, gli utenti entrano dentro. La psichiatria getta il suo sguardo. E’ uno sguardo che mette inquietudine. Qui vedo gli “allunati”, quelli che il medico del SerT, fedele nel suo immacolato camice, mi prepara ogni settimana. Il rione Tojano fu costruito per dare ospitalità ai profughi del Rione Terra dopo il bradisismo del 1970. Migliaia di appartamenti in palazzi alveare. Campi sportivi in cemento e porte dipinte, come le piscine gonfiabili nelle Salicelle ad Afragola, dove morì il buon Salvatore. I tossici, aggrumati sulle sedie spaiate e sgangherate fuori al SerT, lo picchettano. Il SerT è in fondo al rione, in una serie di container impilati l’uno nell’altro. E’ l’ultimo miglio, dove la terra intorno ai container cementificati è ancora verde ed è lavorata dai pazienti dell’alcologia.
5. The Waste Land[30]
L’area a nord di Napoli, che si stende dal Vesuvio al mare, e tira su verso il litorale laziale, ha delle peculiarità che la distinguono nettamente dalle altre province italiane. Francesco Saverio Nitti, nel 1903, la definì “la corona di spine che attornia la città e la soffoca”[31]. Centinaia di migliaia di abitanti, zone in continua espansione, zone cicatriziali, zone industriali dismesse, cantieri abusivi, strade spesso senza nome e case senza numero[32] : il tutto reticolato da strade e raccordi autostradali, imbocchi di tangenziali e sopraelevate. A sera, con la scarsa illuminazione di alcuni punti, vie buie e piene di fossi, i campi dei nomadi con le roulottes, lunghi doppi sensi di collegamento, prostitute di colore e fuochi di gomme, i terremotati e bradisismizzati assemblati da sempre in baraccamenti di container, le siringhe che cospargono le aiuole di cemento, le infrastrutture e i viadotti, l’asse mediano, gli extracomunitari che vivono alla meno peggio, le cattedrali del deserto dei Centri commerciali fioriti come un cespo di funghi su un tronco tagliato dopo una notte di pioggia. Il forte squilibrio demografico, la conurbazione impressionante di comuni escresciuti come metastasi lungo le vecchi strade statali, come la Sannitica, la Nazionale delle Puglie, hanno generato suburbi, quartieri decentrati e sovrappopolati, un mosaico di frammenti istituzionalmente autonomi, antiche identità rurali polverizzate, cupole e campanili a volte maiolicati in stile moresco e vecchie corti catalane sepolti dal cemento di costruzioni senza senso, come “incollate dalle mani di un cieco” (Arminio, 2013). Difficile distinguere[33] la linea di confine tra la città madre, le aree contigue ed entroterra, completamente saldate tra di loro in un unico agglomerato urbano senza soluzione di continuità[34]. Se sommo le ore trascorse sulla jeep per portarmi da un capo all’altro di questa wasteland, contando le prostitute che segnano le miglia sulla strada americana[35], verso il lago Patria, snodando l’asse mediano[36], sommo le ore in cui la domanda di Chatwin, “che ci faccio qui?”, è stata ruminata nella mia testa, senza trovare altra risposta che non fosse il rifare la stessa strada, nello stesso modo, con gli stessi pensieri. Un territorio respingente, eppure avvolgente, una giungla perimetropolitana che dà mal d’Africa, che attraverso quotidianamente con lo spirito con cui Marlow risaliva il fiume Congo[37]. “Al largo, mare e cielo erano saldati insieme senza una giuntura, e nello spazio luminoso le vele tinte di tannino delle imbarcazioni, che risalivano con la marea, sembravano immobili in masse rosse di velature appuntite, con sprazzi di pennoni verniciati. Una bruma indugiava sulle basse rive che si perdevano in mare in una distesa evanescente” (Conrad, 1899). La meraviglia di guardare la distesa metastatica del brutto è a sua volta sublime, qualcosa di unico, di irriproducibile, simbolico della capacità di miseria e della capacità di adattamento dell’uomo. Sono vissuto a lungo[38], dunque, ed ho incontrato gli esseri umani, in questa sterminata periferia metropolitana, frutto del trapianto eterologo rigettato tra il Meridione e la modernità: industrializzazione, distruzione del mondo rurale, massiccia e selvaggia urbanizzazione, crisi dell’ industria, disoccupazione, criminalità organizzata e comune, politica clientelare, dispersione culturale e umana, totale assenza di progettualità, religiosità profana e credenze istituzionalizzate. Quanto può esser brutta e al tempo stesso, nella sua lacerazione, anche ricca di anfratti umanamente significativi[39], una sterminata provincia metropolitana, è cosa assai difficile da descrivere, ma forse meno da capire. Qui, nel luogo di quest’ area metropolitana indiscriminata, non è più campagna, non lo è più, non è ancora e non sarà mai città, non c’è un centro e non c’è storia, tutte le industrie della zona (centinaia di insediamenti) impiantate negli anni Sessanta, hanno chiuso : desolata pasoliniana distesa di gru e di centri commerciali. “Afragola, perfettamente congiunta con Casoria e Cardito, è in mezzo ad una selva di paesi giganti che insieme fanno ottocentomila abitanti.[…]A Casoria la piazza è una distesa di SUV con i vetri oscurati, parcheggiati in doppia e in tripla fila. […]Casavatore è un luogo sfilacciato, desolante, una teoria di case dimesse o mal costruite. Poi palazzi a più piani e i soliti negozi, parrucchieri, alimentari, abiti e motori.” (F. Arminio, 2013)
Questa periferia dell’esistenza mi ha addestrato alla nientificazione del mondo. Quest’immagine del mondo nientificato che ben si presta a fare da metafora del mondo psicotico o tossicomane io lo descrivo, allora, ancor di più in prima persona, per averlo toccato, rasentato, sfiorato io stesso in molti suoi bordi.
E’questo lo scenario che sta dietro i miei incontri.
5. Atmosfere di guardia
“Da un lato il paesaggio è un deserto verde, non più sporcato da risa e urla sguaiate, da lattine o cartacce abbandonate. E’ un mondo col capo rivolto verso l’alto, per usare un’immagine paolina (apokaradokìa), proteso verso il trascendente e il divino. D’altro lato, il cielo è popolato da un’accolta di stelle il cui brillare intermittente è simile all’alfabeto segreto di un dialogo misterioso. E su tutto si stende il manto puro del silenzio.” (G. Ravasi, Breviario-Notte silente, pag. 1, Sole 24 ore, Domenicale, 4-8-2013). Rientrare, dopo tanti anni, in un reparto ospedaliero, mi ha dato lo strano senso di un ritorno a casa. Dopo una missione forse compiuta, forse anche fallita. Mi ero allontanato dai reparti, circa quindici anni fa, con l’idea romantica e rivoluzionaria di portare il pensiero clinico alla deriva del mondo. Il rendermi conto, oggi, che la clinica non può prescindere da un letto, alla cui sponda la parola stessa di “clinica” è nata (dal greco clinomai, stare coricati), è per me un doloroso passo indietro, ma al tempo stesso un saggio passo avanti nella consapevolezza psichiatrica. Sembra strano rimettere il camice dopo tanti anni, non andare più a lavorare in mezzo alle abitazioni civili. Non avere altre figure professionali fuori dai colleghi medici e degli infermieri. Non fare gite o viaggi con i pazienti e con gli operatori, tutti mischiati, nella favola bella di essere senza ruoli, sentire, invece, come sottofondo del silenzio, i rotori dell’aria condizionata e le luci perennemente accesi. In un triangolo dove il malato è il malato, il medico è il medico, e l’infermiere è l’infermiere, tutti con un ruolo molto ben definito. Con regimi militari di monto, smonto, guardia, intervento, chiamata, consegne, reparto. A riavere la sensazione di non essere più solo, un atollo perduto lungo una frontiera tra il noto e l’ignoto, ma di stare in un team. In questi anni mi sono sentito solo, solo perché mi assumevo da solo responsabilità che non potevo condividere con nessuno. Perché un manipolo di volontari e basta, nella migliore delle ipotesi con qualche operatore di ruolo assai perplesso, è stato tutto ciò su cui potevo contare : i miei infermieri, i miei colleghi, i miei supervisori. Così ho ripreso lo zaino e ho detto addio alla stanchezza. La marea montante della stanchezza non ha avuto mai il tempo di sentirla. Il mio turno, la guardia di notte, dura 12 ore. Spesso con guardie giustapposte una dietro l’altra. Arbitro di un reparto, del Pronto soccorso, dei pazienti, delle squadre di infermieri, delle consulenze in ospedale. Ho ricominciato ad avere rapporti con infermieri in divisa, blu verde bianca, uomini e donne, più grandi ma spesso anche più giovani, di vedere cosa pensavano, come pensavano, di cosa parlavano, cosa cucinavano. Di vedere come mi percepivano, che cosa era rimasto dentro di me di uno psichiatra. Dopo anni di tossicodipendenza, di territorio strano, di diurno, di lavoro inventato. Di vivere il Pronto Soccorso, di sentire la confusione, la disorganizzazione, di guardare in bocca il dolore. Di vivere atmosfere vissute, ma sulle quali si era posato il velo del tempo.
Il cordless bianco sulla sedia di panno blu, accanto alla branda. Il camice, appoggiato svogliatamente alla spalliera della stessa sedia. I lampioni nel cortile ampio dell’ospedale accesi, i bagliori delle luci che filtrano oltre la tapparella calata. Un ultimo sguardo all’orologio con quadrante grande, alle tacche fluorescenti. La speranza di non essere chiamati. La cena, frugale, consumata con gli infermieri in reparto, T-shirt e pantalacci larghi, zoccoli di gomma ai piedi del letto. Un sonno, assai leggero, che pure tarda a venire. E che quando viene, per la stanchezza, rimane superficiale, senza sogni, come uno stato di veglia latente, sincronizzato sul trillo del cordless, sul guanciale di gommapiuma dura. E poi, in genere, o il risveglio alle prime luci dell’alba, che surclassano i bagliori dei lampioni, o la frustata del cordless. “Pronto, Psichiatria?” “Si”, “Psichiatra in Pronto Soccorso” “Ok, vengo”. Dal reparto nessun rumore. Gli infermieri vegliano, o dormono in campana, come i pastori maremmani il gregge. Le luci di notte sono accese, il linoleum, le porte di alluminio, il silenzio, il fresco della notte. Il rumore delle macchinette elettriche che erogano caffè. Non ho mai capito perché, varcata la grande porta del Pronto Soccorso, tutti ti riconoscono. Si rivolgono a te come se tu fossi lo psichiatra, e dunque come se ti stessero aspettando. Come l’arrivo di un deus ex machina. Tu invece non capisci chi è il paziente. Giri lo sguardo assonnato, mentre il tuo corpo si riattiva. Hai le mani nelle tasche, sai che hai il reparto pieno. Che se porti un altro paziente gli infermieri si incazzano. Ti pare di sentirli nelle orecchie: “E questo dove lo mettiamo?” “abbiamo già due pazienti in sovrannumero”. Riuscirai a dissuaderli dal ricovero? I parenti saranno furiosi, vorranno disfarsi della patata bollente? Se c’è polizia o carabinieri, in genere il paziente tuo è quello che sta in mezzo a loro. Se vedi uno distaccato dal contesto, trascurato, allora quello è il tuo paziente. Poi, generalmente, se non lo individui subito, qualcuno ti ci porta. Può stare steso, sul lettino. E allora la situazione si presenta meglio. Oppure può stare in piedi, con il vuoto intorno, lo sguardo allarmato e il corpo pronto allo scatto, e allora la situazione è più critica. E’ un paziente conosciuto dai servizi? Già ricoverato? Oppure è un paziente nuovo? Nel frattempo il Pronto Soccorso è animato. Non ci sono spazi liberi. Questo diventerà un problema per instaurare un minimo di colloquio. Se ci sono operatori in arancione o in blu con croci gialle allora ci sono quelli del 118. I più temibili, poiché raccattano tutti. Finalmente lo vedi, il tuo paziente, lo identifichi. Cerchi uno spazio per poterci scambiare due parole. Ma le impressioni vengono prima. Come ti ha guardato, quanto è stravolto, quanto è assente. Mentre vi spostate alla ricerca di un angolo libero dentro la tua mente si affastellano le ipotesi. Partono spontaneamente. Così come si muovono gli occhi. La gioia subentra alla perplessità ansiosa quando lo riesci a liquidare, quando gli fai accettare la terapia. La costernazione quando lo devi ricoverare.
Dove sta la psicopatologia in tutto questo? Come funziona che fai ad un certo punto una diagnosi, che trovi un minimo di tranquillita’ interiore per mandarlo a casa? Sulla base di che cosa decidi la terapia? Si suiciderà veramente?
6. Anabasi e catabasi
Quello che ancora mi stupisce sono tutti gli anni che ho trascorso senza rimpianti, dal 1998 al 2012. Senza rimpianti per la psichiatria e meno che mai per la psichiatria ospedaliera. Ritenevo di aver fatto una scelta, perché avevo fatto una scelta, e che questa scelta fosse definitiva. Invece, mi sono ritrovato proprio la da dove ero fuggito, accettando tutte le limitazioni di quella realtà. Accettando il mio ruolo di psichiatra con tutti i suoi compromessi, riconoscendo in esso, alla fine, il punto di convergenza di tutta la mia vita. Si può dire che ho cominciato veramente a fare lo psichiatra solo a 47 anni, perché è stato solo allora che ho sentito di essere fino in fondo, senza rimpianti, semplicemente uno psichiatra. Il gioco caleidoscopico delle identificazioni mi ha portato lontano, poi è crollato. Tutto questo probabilmente è stato catalizzato dalla mia seconda analisi personale, cominciata nel febbraio del 2007, che ha contribuito a ledere tutta una serie di illusioni e di resistenze. Da un’altra parte, probabilmente il raggiungimento di un migliore compromesso con la realtà, mi ha fatto rendere conto che mi mancava l’aria nella bolla dentro la quale mi ero chiuso e mi auto ossigenavo e auto referenziavo. La mia incapacità, come team leader, di coinvolgere nella mia mission il personale di ruolo che mi era stato assegnato ha fatto il resto. I miei interlocutori erano il volontari della cooperativa, i quali, essendo giovani, stavano ricevendo una immagine deformata di cosa fosse nella vita avere un responsabile. Adesso probabilmente stanno avendo il loro impatto con la realtà, avendo a che fare con un responsabile più attento alla burocrazia che alla clinica, che non ha alcuna formazione personale in termini psicoterapeutici. E per questo non smetteranno mai di odiarmi, per averli prima illusi e poi delusi. L’anabasi è la risalita che mi ha portato all’apice o al culmine di un processo, la catabasi è la discesa che sto compiendo. Una sorta di discesa agli inferi. Anabasi e catabasi, dentro di me, sono processi, in qualche modo. contemporanei.
7. Realtà e irrealtà
L’infermiera Anna mi parla, seduta sul divanetto della stanza del medico di guardia. E’ compiaciuta, abbronzata. Mi racconta delle figlie, i suoi due gioielli. Quando l’aria si scalda di confidenza sfodera il suo Samsung S-III e mi mostra gli interni della sua villa, la fontana di pietra, il giardino curato, l’albero di Natale, i festoni. Sono riprese della sua casa il giorno di Natale. Poi le figlie, atteggiate da modelle, e poi i tramonti, il mare. Mi ricorda mia sorella, che documenta tutta la storia della sua famiglia fotograficamente, con didascalie ed elementi del posto nell’album, quasi a trattenenre il colore, l’odore, la sabbia dei posti dove sono stati tutti insieme. Tutte famiglie del mulino bianco. Mi ricordo le foto che arrivavano dal Canada, dall’Australia, dagli Stati Uniti, dal Sud America degli zii di mia madre e di mio padre. Erano contenute in buste di carta velina, con il bordo a strisce blu e bianche. La scena era standard : albero di natale, fanciulla sorridente. Casa arredata con tutti i comfort. Anna, l’infermiera, è felice. La casa, le cose, le figlie, il marito, particolare costante del paesaggio. Tranne che sempre lateralizzato nelle foto. Mentre mi coinvolge in tutto questo io sento di stare nella realtà proprio perché sto in contatto con lei che mi fa entrare nel vivo della sua vita vera e reale. Sento che la realtà è tutto questo. Non la casa in affitto, il frigo vuoto, la solitudine, i gatti randagi in giardino. La televisione e una birra sul blacone che dà sulle ortiche. Se volessi contraccambiare Anna e trasportarla nella mia vita, lei avrebbe un senso di irrealtà, di vuoto, di precarietà, di assenza di fondamento. Sentirebbe l’inverso di quello che sento io affaciandomi alla sua vita.
La cena con gli infermieri, mentre la televisione è accesa, per dare un clima di familiarità alla medicheria, e i pazienti che dormono o vanno e vengono dai meandri del reparto, è un altro di quei momenti nei quali dico: esisto, sono una persona normale anche io, sto svolgendo una funzione essenziale, mi sto guadagnando lo stipendio come tutti, sto, finalmente nella realtà. Così quando squilla il telefono, quando interagisco, in Pronto soccorso o nei reparti, con lo sguardo allarmato dei colleghi medici che mi chiamano per dare un senso alle crisi che, nei termini della loro medicina, non hanno senso. Gli infermieri parlano di cibo, di vacanze, di soldi, a volte di amanti. I pazienti si curano tutti con gli stessi farmaci, al di là della diversa diagnosi. Qualunque cosa abbiano, la terapia è quella. Nelle cartelle cliniche scarsi accenni, per lo più comportamentali. Zero psicopatologia. Questa, mi dico, è la realtà.
Ho studiato per venti anni una dimensione culturale ed esperienziale della quale tutti fanno tranquillamente a meno. Serve realmente conoscere Jaspers, Schneider, Blankenburg, Minkowski e Binswanger? Serve se il tempo è annullato nel reparto? Se il tempo fermo della follia è confermato dal tempo fermo della “diagnosi e della cura”. La differenza si sente subito, quando si accede negli altri reparti. Camerate ampie e non anditi bui o labirintici, luce e non penombra. Senso di pulizia e non trascuratezza. Attività e non attesa passiva. Intenzionalità e non epoché subita imbalsamata. Infermieri superattivi. Medicherie traboccanti di cartelle e di farmaci. Camerate piene, di degenti, di parenti. Si percepisce, camminando nei corridoi, un’intenzionalità ad andare avanti, a superare il ricovero, a rientrare nel mondo. Dall’SPDC, guardando fuori dalle finestre, si percepisce un mondo che non ti aspetta, un mondo che, senza di te, continua meglio per la sua strada. Quanto, sulla base di queste riflessioni, la psichiatria appartiene veramente alla medicina? Quanto no? Quanto siamo diversi? Entrare in una medicheria di un altro reparto e sfogliare le cartelle, leggere sugli sguardi delle infermiere e dei colleghi l’interrogativo della meraviglia, la sorpresa, la sfiducia, la commiserazione. Ognuno si attiva a raccontare le proprie storie. Cosa pensano di noi, psichiatri e psicotici? Che siamo degli sfigati? Come facciamo a stare nei nostri silos con il nostri pazienti? In che termini apparteniamo veramente alla medicina? Tutti e due gli SPDC, in fondo, sono formalmente e fisicamente annessi all’ospedale generale, ma in realtà considerati dei veri corpi estranei. Credo che la psichiatria non risolverà mai l’enigma della sua appartenenza alla medicina, nel frattempo perde sempre di più la sua parentela con le scienze umane.
8. Alzo zero
La metafora dell’alzo zero l’ho coniata diversi anni fa, quando lavoravo ancora nel SerT, prima di mettere mano al Centro Giano di doppia diagnosi, L’ho coniata affrontando corpo a corpo centinaia di mendicanti di oppio ogni mattina. E’ una metafora di derivazione militare. Compare con la comparsa delle armi da fuoco. E’ noto che ogni arma da fuoco, dal cannone al fucile, ha una gittata del proiettile che copre anche distanze considerevoli, di diversi chilometri. Come decidere, con una certa precisione, la traiettoria del proiettile? Come aggiustare il tiro a seconda dell’impatto del proiettile rispetto al bersaglio? La posizione del bersaglio è quella a cui deve essere adeguato il sistema di puntamento. Il bersaglio è sovrano. L’intenzionalità è diretta al bersaglio. Se il bersaglio è lontano, il mirino va “alzato”, se il bersaglio si approssima, il mirino va abbassato, ovvero “azzerato”. Quanto il bersaglio è a vista, è prossimo al contatto, tutti i sistemi di puntamento perdono di significato, in questi casi si dice sparare “ad alzo zero”, ovvero la bocca dell’arma è ad altezza uomo. L’occhio è complanare all’orizzonte. Quindi l’alzo zero qui è la metafora di un ingaggio ad altezza uomo, con un bersaglio assai prossimo al contatto fisico. Questo è esattamente il mondo in cui ho cercato, in questi anni, di utilizzare la fenomenologia. Niente tempo per elaborare, niente figure antropologiche, niente richiami mitologici, niente magie della comprensione e dell’interpretazione. L’ermeneutica è una disciplina che richiede tempo, elaborazione. Essa nasce dall’esegesi del testo antico. Ma la pagina scritta è perennemente ferma davanti a te, la puoi prendere e lasciare mille volte, puoi chiudere e attaccare come e quando ti pare, dopo esserti schiarito le idee, dopo esserti consultato con qualcuno o dopo aver consultato altri libri. O, semplicemente, dopo esserti andato a fare un caffè. L’uomo vivo che si presenta a te, nello spazio di pochi secondi o di pochi minuti, configura una situazione di ingaggio nella quale tu devi fornire una risposta. Perché egli si aspetta una risposta. E perché spesso anche il contesto si aspetta una indifferibile risposta. Come fare e cosa fare perché questa risposta non diventi una abitudinario arco riflesso, ovvero qualcosa che bypassa l’integrazione con i centri nervosi alti e cortocircuita solo per una via spinale? La sfida, allora, è questa : utilizzare un dispositivo complesso, come quello fenomenologico, elaborato per costituire realtà vive da realtà oggettuali inerti, benché viventi, nello spazio breve di un singolo incontro. Spesso senza setting. Qualcosa che non sia solo affidato all’intuito del singolo clinico. Ma che abbia delle caratteristiche di velocità, di rigore, di efficacia, di riproducibilità: tutte cose che segnano al differenza tra un suonatore ad orecchio ed un conoscitore della musica. L’improvvisazione ha una sua struttura di senso, ma deve tenere presenti i parametri spaziotemporali dell’incontro ed il contesto emotivo intenso in cui accade. Se questo si verifica, l’improvvisazione assume caratteri di affidabilità e di ripetibilità, diventa forse qualche cosa che si può insegnare, trasmettere, e non essere solo appannaggio dell’esperienza del clinico caratterizzato da acume e da sesto senso. C’è un modo per educare alla sensibilità di sguardo, di ascolto, di gesto anche il giovane clinico che, spesso, diventa proprio l’interlocutore delle situazioni più difficili e più urgenti? Nel nostro campo non è infrequente che a mano a mano che l’esperienza e gli anni si accumulano si avanza nella carriera e si assumono posizioni dirigenziali, nelle quali giocoforza l’attività accade di giorno, si sta in contatto più con gli operatori che con i pazienti, più con i sistemi e le organizzazioni piuttosto che con la clinica. Si assume allora un modo di pensare distaccato, abituato a lasciar decantare le cose, a non aprire conflitti, a comporre i conflitti esistenti, ispirato al latino quieta non movere et mota quietare. Si diventa docenti di qua e di la, si imbastiscono corsi, di diventa bravi a raffinare il modello. A me questo non è accaduto perché, ad un certo punto della mia vita, la carriera è sfumata ed il mio è diventato soltanto un lavoro, un bieco, routinario lavoro. Spero non cieco.
La mia ASL non mi ha chiesto di formare personale o di organizzare gruppi terapeutici o di supervisionare équipe. La mia ASL, per erogarmi lo stipendio di cui necessito per vivere, mi ha chiesto di coprire turni in tre SPDC. Il resto non interessa a nessuno. C’è un vantaggio in tutto questo? C’è un vantaggio nel rimanere inchiodati alla carne, alle ossa, al sangue, alla merda? Direi di sì. Poiché la controparte del fare carriera e di arrivare a posizioni apicali è che si finisce per perdere completamente il contatto con il particolare : il particolare è invece la clinica. Il particolare è l’uomo che fa una domanda e che aspetta una risposta non dilazionabile. Questa mia esperienza, nata per una serie di vicissitudini, è un’esperienza che vede un clinico esperto buttato sulla linea del fuoco, a fare cose che in genere fa un giovane. Ad agire con lo stato di coscienza modificato, quale è quello che hai alle tre o alle quattro del mattino, e a tirare fuori delle cose che non vivano solo lo spazio di un mattino, ma che respirino di leggi universali, di leggi generali, che seguano le logiche congruenti di modelli raffinati da cento anni di psicopatologia.
9. Gli Avanzi
E’ la notte di San Lorenzo, è il 10 agosto. Sono di guardia nell’SPDC di Pozzuoli. Mi hanno chiamato in Pronto soccorso. Mi tornano in mente i versi di Giovanni Pascoli (X Agosto) “San Lorenzo, io lo so perché tanto/di stelle per l'aria tranquilla/arde e cade, perché sì gran pianto/nel concavo cielo favilla./Ritornava una rondine al tetto […]”.
Alzo gli occhi al cielo, giacchè mi trovo, per scorgere qualche stella cadente, ma non ne vedo. Ha piovuto molto, c’ è foschia. Non vedo neanche le stelle fisse. Sono le tre di notte e ho appena lasciato il Pronto soccorso. Costeggio il muro per avviarmi verso l’SPDC e lo sguardo cade a terra. Vedo un cosa spinosa appallottolata. Mi fermo sorpreso. Non ci sono dubbi. E’ un riccio! Cosa ci fa un riccio in un ospedale? E’ appallottolato accanto ad un vassoietto di cartone dorato di quelli per pasticceria mignon. Evidentemente gli hanno dato da mangiare. Lo hanno adottatto quelli del Pronto soccorso come mascotte?! Vorrei toccarlo, poi lo contemplo soltanto. Mi sembra surreale, eppure in qualche modo il riccetto si è adattato alla convivenza con gli uomini e con le aiuole di cemento. Mi avvio. Quando mi richiameranno, alle quattro, mi conforta il pensiero di ripassare accanto al riccio. Ma il riccio non c’è più. Il vassoio dorato adesso è vuoto e riluce dei barbagli elettrici dei lampioni. Forzo la porta antipanico ed entro in Pronto Soccorso. In fondo ho avuto la mia stella cadente. E l’ho condivisa con il riccio. “Anche un uomo tornava al suo nido […] E tu, Cielo, dall'alto dei mondi/sereni, infinito, immortale,/oh! d'un pianto di stelle lo inondi/quest'atomo opaco del Male”
Il termine “avanzi” è destinato ad indicare propriamente ciò che resta. Però contiene un radicale comune con la parola avanti. Cio’ che resta sembra imparentato con ciò che rimane, un qualcosa che sta indietro, dunque. In realtà gli avanzi sono ciò che superchia, che sovrabbonda, quindi ciò che rimane davanti, quando uno ha finito.
Il riccio, ad esempio è un avanzo indimenticabile di questa notte di S. Lorenzo.
Faccio, di seguito, un altro esempio.
La madre disse a Maurizio : “Vai a vedere tuo padre che fa”. Nei giorni precedenti aveva avuto strani pensieri. Maurizio aprì la porta e lo trovò impiccato con una corda, che era fissata per un estremo alla grata della finestra e per l’altro estremo al collo. Maurizio si rese conto che il padre era morto. Era tuttavia reclinato in una strana posizione, tra il grottesco è il bizzarro. Gli mise un cuscino sotto la testa[40]. Poco dopo il maresciallo dei carabinieri gli disse : “Maurizio prendi la scala sali e stacca la corda dall’inferriata”. Maurizio rispose : “Ma dopo ci sono le mie impronte sulla corda”. E il maresciallo : “Ma perché hai problemi? Vai!” Più tardi, in caserma, l’interrogatorio fu puntuale. Ma, soprattutto, tra le altre cose, volevano sapere di quel cuscino.
Chi aveva messo il cuscino sotto la testa di un cadavere?
Di questa scena il cuscino può considerarsi è un avanzo, un oggetto comune, che nulla ha a che vedere con i grandi attrattori della scena : il cadavere, la corda. Eppure, un avanzo, un dettaglio di non trascurabile portata. Che ci fa, giustamente, si interrogano e interrogano i carabinieri, un cuscino sotto la testa di un cadavere? Evidentemente ha a che fare con chi con il morto ha un legame. E dice molto della natura di quel legame. Quel cuscino, che emerge dal racconto di Maurizio, è un dettaglio eidetico, perché rimanda ad un insieme di connessioni di senso non presenti tra gli ingredienti della scena. La tenerezza di un figlio che non sopporta il corpo del padre in una posizione scomoda e innaturale. Il tentativo di conferire alla scena un carattere di naturalità. Dormiente. Il cuscino trasforma il cadavere in un dormiente. Un dormiente. Conferisce alla scena un carattere di reversibilità, dà una coloritura ipotetica. Perché nel racconto di Maurizio emerge il cuscino? Perché il dettaglio del cuscino colpisce lo psichiatra interlocutore diventando un addensamento semantico? Il cuscino sotto la testa del cadavere scomposto e suicida del padre è un avanzo, ma, al tempo stesso è un dettaglio che conferisce a tutta la scena una significatività ulteriore. E’ quanto emerge nel racconto di Maurizio: l’ultima pietas di un figlio che aveva rotto le costole al padre in un contrasto pochi giorni prima e che, a cadavere ancora caldo, sottrae al portafogli del padre i soldi per andarsi a comprare la sua dose di droga la sera.
Il termine di avanzo si riferisce all’ambito culinario, alla tavola sparecchiata, a ciò che resta, a ciò che cade fuori dalla possibilità di essere consumato, a ciò che anzi fa pure schifo consumare, soprattutto se è avanzato ad un altro. Ma in un avanzo c’è saliva, c’è il boccone dell’altro, c’è la sazietà e la creanza. Gli avanzi sono sempre multipli. Vengono buttati insieme nel residuo umido, ma hanno a che fare con briciole, pezzi solidi, bucce, gusci.
Gli avanzi finiscono nella pattumiera. La domestica dall’esame degli avanzi capisce cosa i padroni di casa hanno mangiato, cosa hanno gradito, cosa non hanno gradito. Dall’esame degli avanzi non digeriti di cibo il perito settore capisce molte cose, l’ora della cena, l’ora della morte. Lo stato di salute della vittima al momento dell’introito di quel cibo. Forse da dove proveniva quel cibo, come era stato consumato, chi l’aveva consumato e forse con chi.
Il termine avanzi, in questo testo, ha a che fare con il fatto che tutto il lavoro di trascrizione è di fatto un après-coup. La debolezza di questa descrizione si evidenzia nel fatto che l’evento viene descritto dopo che è accaduto, dopo anche diversi giorni che è accaduto. Il tempo che passa, però, diventa una garanzia. Che cosa da senso alla storia? Che cosa fa si che la storia abbia un senso? Forse è proprio il dettaglio percettivo. Lo sviluppo narrativo si verifica intorno al dettaglio percettivo che è rimasto intrappolato dalla memoria. Probabilmente il dettaglio percettivo è quello che dà coloro e spessore a tutta la scena. E’ l’elemento confessionale, la parte per il tutto a partire dalla quale si innesca anche la dimensione percezione-movimento. Le domande alle quali questo testo cerca di rispondere, allora, sono due :
- Perché proprio quel dettaglio percettivo si imprime nella sensibilità del clinico;
- Qual è il dispositivo che consente di fissare quel dettaglio, quale lavoro di selezione e di filtro viene fatto, considerando l’acuzie della situazione?
10. Una atipica Bildung[41]
Ho studiato medicina perché sono il primo figlio maschio di una famiglia della piccola borghesia del Sud, dove il medico, fino alla fine del Secolo scorso, era ritenuto una figura autorevole e di prestigio, e quindi simbolico di una crescita sociale. Se fossi stato lasciato libero, avrei studiato filosofia. I miei nonni erano contadini molisani. I miei genitori insegnanti trasferiti dalle valli molisane al cemento metropolitano della periferia napoletana. Dunque il passo successivo, per la mia famiglia, era quello di accedere alle cosiddette libere professioni. Questo riscatto sociale è stato compiuto da tutto il gruppo dei miei cugini, i quali, rispetto ai genitori insegnati, sono diventati ingegneri, architetti, medici, magistrati. La passione per la medicina è qualcosa che in fondo non ho mai avuto, anche se ho imparato ad amarla, la medicina, come accadeva una volta nei matrimoni imposti o combinati. Ho sempre riportato ottimi voti, mi sono laureato con lode, ho frequentato le corsie e mai disdegnato la medicina interna e la semeiotica clinica. L’aspetto relazionale e il contatto con l’uomo sofferente sono le cose che più mi hanno affascinato, piuttosto che la struttura del sapere che c’era dietro. Ho frequentato con piacere ed interesse i pronto soccorsi e le corsie di medicina interna. Il giro visite e la semeiotica medica hanno sempre avuto su di me un grosso potere di fascinazione. La psichiatria è stata, per me, solo la possibilità di combinare la mia passione per le scienze umane con la scienza dura. Prima di specializzarmi in psichiatria mi sono specializzato in neurologia, poiché ritenevo che la conoscenza e la pratica con la struttura, la funzione e la lesione dell’encefalo mi avrebbero aiutato nella comprensione differenziale delle malattie mentali. Per molti aspetti così è stato. Ho praticato le punture lombari, ho curato parkinsoniani, epilettici, pazienti giovani affetti da scerosi multipla e ho familiarizzato con le melattie neurodegenerative che capitavano frequentemente in clinica universitaria, datala presenza di studiosi di livello internazionale dell’atassia di Friedrich e della corea di Huntington, nonché delle distrofie muscolari e della Motor Neuron Disease. Questo ritardo di quattro anni sulla tabella di marcia, tuttavia, mi ha portato a perdere il treno della mia generazione di colleghi psichiatri che, con quattro anni di vantaggio, si sono subito immessi nei Servizi. Nel 1996 ho effettuato un Praktikum a Berlino, alla Nervenklinik Spandau, una struttura con 32 reparti e 700 pazienti, dove vigeva un paradigma biologico, dinamico e riabilitativo. Poi ho avuto un lungo apprendistato nella clinica delle tossicomanie, che non è appannaggio di tutti gli psichiatri, almeno in Italia, dove le cose sono state separate dalla legge. Qui ho avuto modo di fondare uno dei primi centri italiani per la cura della cosiddetta “doppia diagnosi”, il Giano. Non ho mai smesso di studiare la filosofia, ritenendola la migliore forma di applicazione logica a qualunque problema dell’esistenza. Ho fatto due analisi personali di tipo freudiano con due analisti didatti della SPI, una a Roma in anni giovanili, con un analista di sesso maschile, ed una negli anni della maturità a Napoli, con una donna. Non mi sono interessato ad approfondire più di tanto la meta-psicologia psicoanalitica, considerandola sempre piuttosto noiosa e lontana dall’emergenza dei fenomeni, ma conservando il rispetto epistemologico che si deve ad ogni coerente modello teorico della mente umana. Ho lavorato molto su di me, emotivamente. Gli anni di frequentazione con i tossicomani e di messa a punto della metodologia conosciuta come gruppoanalisi dell’esserci (gruppo fenomenologico) sono stati anni in cui mi sono molto sgranato sul piano personale. Ho toccato, soprattutto, con mano la mia pochezza di ricercatore intellettualizzato che voleva tentare di fare entrare il mare nella buca di sabbia con il secchiello diplastica. Poi mi sono svestito e sono entrato nel mare, ho sentito le onde, la gioia della vita, l’impotenza di fronte alla forza della natura, la paura di naufragare. Ho vissuto il naufragio, laderiva, l’approdo sulla salsa spiaggia.
I rapporti che ho intrattenuto con Bruno Callieri e con Arnaldo Ballerini non sono descrivibili. Nel senso che ancora io non ne sono capace. Dal 1993 alla loro morte essi sono stati per me padri, fratelli, un amici, maestri, con sfumature affettive più di accoglienza che di conflitto, più da nonni a nipote che da padri a figlio. Mi hanno preso per mano e mi hanno guidato in una zona di penombra tra la clinica e l’esistenza, dove è meno difficile cogliere la vita. Avevano intuito che le loro carte portavano li:all’hic sunt leones. Anche dopo di loro, io lì sono rimasto, con loro. Ed essi con me.
Mi hanno preparato, in questo viaggio al termine della psichiatria, alcune situazioni-limite, nelle quali mi sono cacciato animato dal desiderio di forzare il contatto con il “fondo della vita”.
Si tratta di esperienze personali extra-professionali: il miei trenta lanci (di cui otto in caduta libera da 4000 metri) con i paracadutisti della Brigata Folgore, dai G222 ad Altopascio, dai CESSNA di Pontecagnano e di Memmingen, in Baviera; l’esperienza a Fort-de-Nogent a Parigi (Fontenais-sous-Bois) e ad Aubagne, vicino Marsiglia, con il I REP della Legion Etrangere; l’ esperienza con le squadre di cacciatori di cinghiali tra le foreste sannite ed irpine, tra le Dolomiti lucane, nella selva selvaggia della Maremma toscana, nelle macchie a ridosso del Soratte; l’esperienza nell’ Appennino tosco-emiliano, di albe e tramonti trascorsi appostato nei prati sulle altane a bordo bosco, oppure nelle savane, a ridosso del deserto del Namib, consapevole di poter sparare sempre un colpo solo, freddo come il marmo e immobile come la pietra. Il rispetto, commosso, per la vita che si toglie e per quella che si riceve.
Tutte queste esperienze genericamente “di azione” hanno, in qualche modo, bilanciato la naturale tendenza mia tendenza di intellettuale, contemplatore, topo di biblioteca, ipersensibile, ossessivo e narcisista, abituandomi al gioco di squadra, all’azione decisa senza se e senza ma, a fronteggiare l’ignoto basandomi sul cuore, come il compagno più forte.
Il mio doloroso percorso di esclusione prima dall’università e poi da un carriera apicale nei servizi territoriali anche sono stati ingredienti che mi hanno costretto a farmi piacere quello che mi passava il convento, o il governo, ovvero, alla fine, nulla più di una branda per la notte e un armadietto metallico con i miei effetti personali.
La mia, non dissimilmente dalla storia dei tanti uomini che ho incontrato, è, fondamentalmente una vicenda di fallimenti, di fallimenti illustri, ma di fallimenti, di delusione di aspettative, di vedersi scavalcare continuamente, contestare, negare ferie e permessi per poter andare a fare formazione. Tutto questo fa un amalgama che costituisce, di fatto, il dispositivo di rilevazione, e come tale va esplicitato.
Deve esser chiaro che non basta una scuola di specializzazione a cogliere dei particolari che si chiamano dettagli eidetici, come non basta lo studio della filosofia o la pratica che si stratifica su se stessa a fare di uno psichiatra uno psicopatologo, di uno psicopatologo un clinico, e di un clinico un terapeuta.
Di un terapeuta un uomo.
Il senso delle pagine che seguono è anche, soprattutto, il senso di una testimonianza. Da una parte, pur nella crisi che caratterizza tutto il sistema occidentale, credo che la psichiatria italiana, soprattutto nelle realtà che ho vissuto io, abbia caratteristiche tali da consentire situazioni di ingaggio con il paziente irripetibili altrove, nel bene o nel male.
Da un’altra parte io oggi mi sento di accettarla, questa psichiatria, nel bene o nel male, come l’ultimo giapponese perduto nella giungla, perché essa, pur non essendo la psichiatria che ho sempre sognato, è pur sempre quella che deriva da Pinel e da Esquirol, da Kraepelin e da Jaspers, da Morselli, da Callieri e da Balerini.
E ad essa, dopo aver vissuto tanto al di fuori di essa, comunque io mi onoro di appartenere.
Ringrazio l’insistente generosità di Bollorino.
E mi appello, sine ira et studio, al giudizio del lettore benevolo.
Gilberto Di Petta
Maggio 2016
Frecciarossa 9526, Napoli-Milano
[1] Ventiquattrenne violinista beneventana, bionda, bella, dolcissima, direttore artistico dell’orchestra da camera dell’Accademia di Santa Sofia. Stroncata il 15 luglio 2013 dal cancro, che ha affrontato lucida, sentendo il ritmo del mondo, fino alla fine.“Con il male apprezzo la vita. Non so più quanti centimetri di cicatrici chirurgiche ho. Ma li amo tutti. Uno per uno, ogni centimetro di pelle incisa che non sarà mai più risanata. Sono questi i punti di innesto delle mie ali.”
[2] Last Man Standing è il titolo di un film americano del 2011, del regista Ernest R. Dickerson, la protagonista è una donna, Catherine Bell, ex soldato delle forse speciali, che, dopo essersi congedata dall’esercito ed essersi ricostruita una vita felice, è costretta a scendere in campo per tentare di salvare il marito rapito. In questa circostanza ritorna in contatto con gli uomini della sua unità. Di fatto, nel corso del film, si trova ad essere proprio lei l’ultimo “uomo” sopravvissuto della sua unità. Un altro film del 1996, di Walter Hill, porta lo stesso titolo. Il protagonista è Bruce Willis, il titolo tradotto in italiano è “ancora vivo”. Last man standing è anche il titolo di un romanzo di David Baldacci, del 2001, tradotto in italiano come “L’ultimo eroe”.
[3] Laureatomi a luglio 1989, iscritto all’Ordine dei Medici di Napoli a gennaio 1990, a giugno, specializzando in neurologia, vinco il primo avviso pubblico come assistente di psichiatria presso la USL 26 (Casoria, Casavatore, Arzano) e mi divido tra il CSM che si trova limitrofo a Napoli,in zona Poggioreale, ed effettuo turni in SPDC all’ospedale S. Giovanni Bosco, sulla Doganella, a Napoli.
[4] Il “lungo lamento” Sassolas, 2006.
[5] “Il contesto sociale attuale, che valorizza il consenso, squalifica i conflitti e promuove a regola di vita il doppio principio di economia e di precauzione, è diventato un ostacolo maggiore ad accettare il rischio, cioè è diventato un ostacolo allo spirito critico, al talento inventivo e alla creatività” (Sassolas, 2006).
[6] 1985-1989, V Donne, ex Ospedale Psichiatrico provinciale “L. Bianchi”.
[7] Nella lentezza applicativa che contraddistingue il nostro Paese e le regioni meridionali in particolare, alla metà degli anni Ottanta la rete dei servizi psichiatrici non era completata. In quella che allora era la mia USL (n. 26, Casoria, Casavatore e Arzano, che poi confluirà nella Napoli 3 e poi ancora nella Napoli 2, Il Dipartimento di Salute mentale non è mai stato aperto H24, non ha mai avuto un Centro Diurno e un Centro Crisi degni di questo nome, per alcuni anni è stato senza SPDC, ma, soprattutto, non ha mai avuto un Direttore di Dipartimento fino al 2010, anno in cui c’è stato l’inglobamento con la Napoli 2, nella nuova denominazione di Napoli 2 Nord. A questo punto le cose sono cambiate, io sono rientrato nella Salute Mentale, ma in tempo per vedere lo smantellamento di tutto un mondo che era centrato intorno al concetto di presa in carico.
[8] Ho frequentato la Clinica psichiatrica universitaria della Federico II di Napoli,diretta da F. Rinaldi,un uomo d’altri termi, dalla preparazione sterminata e dal silenzio altrettanto sterminato.Un uomo irraggiungibile, al tempo di Tonino D’Errico, grande uomo di cultura del sud, associato della SPI, stroncato a Parigi da una patologia cardiaca. D’Errico era un uomo intelligente ed aperto, ed aveva costituito intorno a sé un gruppo di giovani in training psicoanalitico, fino a varare un servizio speciale di psicoterapia, in cui l’utenza pagando un ticket sostenibile, poteva intraprendere un trattamento psicoterapeutico con uno specializzando in analisi supervisionato da un ricercatore in fase avanzata del training psicoanalitico. Esperimento che ha visto la fine, insieme ad altre cose, con l’arrivo di Giovanni Muscettola, incarnazione della psichiatria accademica neopositivista.
[9] L’enfasi sulle basi biologico-molecolari del comportamento umano ha, di fatto, in questi anni, fagocitato la ricerca, assorbito i fondi e la convegnistica, per lo più sostenuta dalle Multinazionali dei farmaci. Quasi nessuna cattedra di psichiatria ha sviluppato programmi di ricerca di ambito psicopatologico-clinico negli ultimi venti anni, né incoraggiato allievi a perfezionare questo ambito.
[10] La mia è stata una scelta, poiché avevo vinto entrambi i concorsi, nelle Dipendenze e nella Salute mentale.
[11] Dal 1990 al 1993 ho lavorato in avviso pubblico presso il DSM della USL 26. Dal 1993 al 1997 ho prestato servizio all’università nel corso della specializzazione CEE in Psichiatria.
[12] M. Rossi Monti, F. Cangiotti, 2012
[13] Naturalmente la mia esperienza non è estensibile ad altri SPDC, se non quello universitario e quello dell’ospedale Don Bosco sulla Doganella a Napoli in cui ho avuto modo di avere, da giovane, il mio battesimo del fuoco. Tuttavia ho ragione di ritenere, scambiandomi esperienze con colleghi di varie parti d’Italia, che il clima degli SPDC sia molto dettato da un certo modo, quello corrente, di intendere e praticare la psichiatria. Ovvero che la psichiatria biologico-nosografica, codificata dalla serie dei DSM III-IV-5, conduca giocoforza ad un impoverimento della clinica e della relazione. Del resto la clinica e la relazione, a giudicare da quello che ho potuto percepire chiamato come consulente in altri reparti ospedalieri, di medicina e di chirurgia, non gode da nessuna parte di buona salute. Si tratta di pratiche, evidentemente, che richiedono tempo oltre che disponibilità umana.
[14] Richard Hillary, L’ultimo nemico, Castelvecchi, 2013
[15] Credo che l’assenza di piacere nell’espletamento del proprio lavoro sia meno foriera di effetti negativi quando le procedure sono chiare, tecniche, normate. Laddove la componente relazionale è preponderante, come in psichiatria, credo che l’anedonia degli operatori, quando non la esplicita sofferenza degli operatori, non possa non tradursi in una ricaduta drammatica sull’efficacia terapeutica.
[16] Il lavoro di gruppo, che ho portato avanti negli ultimi quindici anni prevalentemente con tossicomani affetti da disturbi mentali e che tuttora porto avanti nel Carcere di Pozzuoli, è l’unica forma di continuità terapeutica che mi è dato di sperimentare da un punto di vista psicoterapeutico.
[17] Si potrebbe dire che esso è composto di due parti: la prima è quella riepilogativa del metodo, e chiarificatrice del contesto personale ed extrapersonale rispetto ai quali il metodo viene applicato, la seconda parte è quella che mostra ciò che il metodo è riuscito a raccogliere, a produrre, a costituire, partendo sempre dall’urto con la realtà.
[18] El ultimo déber, USA, 1973, di H, Ashby, tratto da un romanzo di Daryl Ponicsan ed interpretato da Jack Nicholson, Randy Quaid e Otis Young.Due sottufficiali di marina devono scortare nel carcere militare di Portsmouth un marinaio. Durante il viaggio stringeranno amicizia con il condannato e gli faranno vivere le ultime ore di libertà.
[19] Mentre scrivo Andrea è in Norvegia, poiché non è riuscito a trovare presso il suo Dipartimento condizioni favorevoli alle competenze maturate nell’orbita delle sindromi ad alto rischio nei giovanissimi. Un altro cervello fugato all’estero. Di recente è entrato nel Direttivo della Società Europea di Psichiatria come rappresentante della Norvegia….
[20] Mi sono dedicato, certo, ad articoli, recensioni, a prefazioni. Ma non ho più scritto libri. In parte per una forma di pudore che è sopraggiunto solo con la maturità. Pronunciarsi di meno, dire di meno, sentenziare di meno, a fronte all’immenso potere disconfermante della prassi clinica, mi sono apparse cose assai più convenienti dell’inesauribile grafomania della giovinezza. In parte, tuttavia, l’evanescenza della scrittura è stata la conseguenza della perdita di mia madre e della perdita di Bruno Callieri, tanto che ritenevo ormai quasi del tutto prosciugata la mia musa creativa.
[21] Dal 2004 al 2011 il centro Giano è stato ubicato a Casavatore. Dopo aver guidato il trasloco e curato il trapianto, dopo aver supervisionato i lavori in muratura, per un insieme di motivi difficili da spiegare, lascio la direzione della struttura e rientro in Salute mentale.
[22] Per “terra dei fuochi” si intende un territorio di quarantadue comuni, per un totale di un milione e mezzo di abitanti, caratterizzato da una forte desolazione. Sono zone a pochi chilometri da Napoli, a due passi dal mare, zone annoverate nel passato tra le più fertili d’Italia (Campania felix, terra di lavoro). L’epiteto “terra dei fuochi” nasce dalla frequenza di roghi sparsi nelle zone meno cementificate, che esprimono il mascheramento di rifiuti tossici per eliminarne la tracciabilità: rifiuti speciali, cavi elettrici, pneumatici, elettrodomestici, rifiuti industriali, eternit. Questi e altri materiali vengono quotidianamente sversati nelle campagne a ridosso di campi coltivati o di centri abitati, dando vita a incendi che avvelenano il terreno e le falde acquifere in profondità, l’aria, fumi che portano a chilometri di distanza polveri nocive, che vengono respirate da persone, da animali, che si depositano sui prodotti agricoli e sulle tavole dei consumatori. Questo fenomeno si è aggiunto a quello più devastante dell’interamento, ad opera di circuiti criminali, di rifiuti tossici provenienti dal nord, in cave o interreni poi destinati a coltivazioni.
[23] Strada statale 162, una sorta di tangenziale dell’entroterra napoletano, progettato negli anni ottanta, nell’ambito dei vasti e monumentali progetti infrastrutturali di quegli anni. Lo scopo era di collegare i vari comuni della provincia a nord di Napoli con un’arteria a scorrimento veloce che avrebbe dovuto fungere da asse di collegamento con i principali poli industriali della zona, con la rete ferroviaria, con l’aeroporto di Capodichino, la rete autostradale e la circumvallazione esterna di Napoli. L’opera è ancora inconclusa. L’asse ha una lunghezza totale di circa quattrocento chilometri, con rampe e viadotti. Ha un traffico medio di centomila automobili al giorno, ed è totalmente degradato. Durante le piogge diventa un canale, poiché non è bombato, i viadotti sono molto pericolosi, le piazzole di sosta sono molto strette e stracolme, ci sono buche e avvallamenti, svincoli chiusi, rampe inagibili, carcasse di animali morti, segnali stradali rubati o forati da pallettoni e colpi di pistola. Di fatto è considerata la strada più pericolosa d’Italia, con un bilancio di trenta morti e migliaia di feriti.
[24] Rimango consulente nella struttura che dirigevo e consulente nel SerT di Pozzuoli. In Psichiatria vengo identificato come figura di riferimento per i cosiddetti pazienti di confine.
[25] Non raramente lo stesso paziente seguito al SerT poi lo ho trovato ricoverato in SPDC e quindi l’ho rivisto in carcere.
[26] Il mio passaggio dal Dipartimento delle Dipendenze al Dipartimento di Salute mentale è stato decretato ad horas dalla Direzione generale, senza che io ne avessi fatta esplicita richiesta, per consentirmi la prescrizione dei piani terapeutici per gli antipsicotici atipici, che in regione Campania sono interdetti ai Sert. Questo spostamento di Dipartimento mi ha fatto perdere la mia funzione di responsabile di UOS che avevo acquisito all’interno delle Dipendenze. Vani sono stati i miei tentativi di far diventare la UOS di Comorbilità psichiatrica una struttura interdipartimentale, unica cosa che mi avrebbe consentito di mantenere al responsabilità.
[27] “I tre giri di cordone ombelicale intorno al collo di Marco, quando è nato, evidenziano la modalità coartante con cui i suoi genitori lo hanno messo al mondo” (sic!)
[28] E’ una condizione tipica, quella dell’ex ufficiale che torna soldato semplice, dei ranghi della Legione straniera. Quando si viene reclutati e si proviene da eserciti di altri paesi, o dallo stesso esercito francese, si ricomincia spietatamente daccapo. I primi cinque anni di ferma sono da farsi senza gradi, alla stessa stregua degli altri.
[29] Quando chiedo di metterle una flebo l’infermiere salta fuori dalla branda spennato come un pulcino e impreca contro la chiusura dei servizi territoriali. Ormai la mia notte è andata. Cosa altro potrei fare di più significativo in quel momento della mia vita oltre che raccogliere il racconto di quella donna?
[30] La terra desolata, la terre gaste dei poemi epici medievali, era un territorio devastato, sterile e mortale che dovevano attraversare i cavalieri per arrivare al Graal. Altra e più recente suggestione è quella della terra di nessuno (terra nullius, No Man’s Land), che si stendeva sinistramente tra le trincee nemiche durante la Grande Guerra. The Waste Land (la terra desolata) è l’opera più celebre di T.S. Eliot (1922). La condizione dei tossicomani affetti da patologie psichiatriche è descritta nel testo. “Nella terra di nessuno. Doppia diagnosi e trattamento integrato. L’approccio fenomenologico, Di Petta G, Ed. Univ. Romane, Roma, 2009. L’analogia della terra dei fuochi con la terra desolata o la terra di nessuno è forte: scorie tossiche industriali, lastre di amianto, pneumatici esausti, bidoni di vernice, solventi e materiale di risulta dell’edilizia, in una spessa coltre di cenere nera, dall’odore insopportabile: questo il quadro da day after in cui è facile imbattersi percorrendo di sera l’asse mediano.
[31] G. Mazziotti, La corona di spine,
[32] Una prepotente evidenza di abusivismo edilizio e di speculazione politico-camorristica privi entrambi di alcun piano regolatore.
[33] F. Arminio, I giorni senza miraggi del basso Occidente, Corriere della Sera, 11-08-13, pag. 20
[34] Da qui il concetto di Città metropolitana.
[35] Cosìddetta poiché la prima traccia fu fatta dagli Alleati durante la II Guerra mondiale, a doppio senso di circolazione, per consentire l’andirivieni tra il fronte che si spostava a nord, verso la linea Gustav, e le retrovie stabilizzate a sud.
[36] “Il cuore nero dell’Occidente è qui sull’Asse Mediano dove i cumuli di spazzatura impediscono le fermate sulle aree di emergenza. Ho una lieve e inspiegabile euforia, come se il disordine e l’incuria tonificassero la mia anima.”
[37] J. Conrad, Cuore di tenebra.
[38] Sono vissuto in un hinterland metropolitano degradato che mi ha posto subito con la più chiara evidenza di fronte alla vuotezza di senso della periferia del mondo. Per me il problema di trovare un senso alle cose si è cominciato a porre, allora, da quando ero bambino, come per uno psicotico comincia all’esordio della schizofrenia.
[39] “Guardo la ruggine sul palo di un lampione, gli occhi di un cane zoppo, la busta con il pane che una vecchia porta a spasso per il paese: cose inutili, intimamente clamorose. Quello che c’era sotto adesso è morto, però rimane sempre qualche crepa.” (F. Arminio, ibid, pag.21)
[40] Lo stesso Maurizio, dopo aver constatato la morte del padre, va in cucina, prende il suo portafogli, lo apre, e preleva i soldi per andarsi a fare quella sera. E secondo lui la madre, prima o dopo, fece lo stesso.
[41] Termine tedesco traducibile in italiano come “formazione”.In realtà contiene il sostantivo Bild che significa immagine, figura, dunque forma. E’ classico, nella letterature europea, il cosiddetto Bildung Roman, ovvero il romanzo di formazione, che narra le vicende del protagonista in una chiave spesso avventurosa, ma scandita da progressive, dolorose, acquisizioni di consapevolezza.
SCRIVE GILBERTO:”Ringrazio
SCRIVE GILBERTO:”Ringrazio l’insistente generosità di Bollorino.
E mi appello, sine ira et studio, al giudizio del lettore benevolo.”
Come Editor debbo ringraziare lui e la mia insistenza per averlo nella squadra della rivista visto il dono magnifico che ci ha voluto fare con questo meraviglioso articolo di cui la Rivista è orgogliosa.
Spero susciti dibattito e spinga i lettori registrati a commenti attenti ed approfonditi
Un sincero ringraziamento
Un sincero ringraziamento all’autore dr. Di Petta per quesa testimonianza autentica di vita professionale e soprattutto per lo stile efficace scevro da sentimentalismi o voli pindarici.
Grazie anche all’editor Bollorino che l’ha pubblicato.
A. G.
Sono io che ti ringrazio,
Sono io che ti ringrazio, Anna Grazia, per la tua sensibilità e per la tua resistenza. Mi commuovo ricordandoti ardente di sogni durante la specializzazione e pensando da quanti anni ti mantieni viva e mantieni vivi quelli che incontri, ne rione Toiano..Penso che sia una cosa molto bella che i pazienti in difficoltà possano ancora incontrare persone come te, che, nonostante tutto, (r) esistono e ci credono ancora. E , in fondo, sono quelli che ci fanno sentire “socialmente utili”, rispetto alle volte (più frequenti), in cui ci sentiamo “socialmente inutili”. Un abbraccio.
Gilberto
Le sceneggiature
Le sceneggiature melanconiche, col retrogusto eroico anni venti, contendono il successo ai gattini e ai bambini che riempiono di senso la vita dei teledipendenti. Lo so per esperienza personale.
Non esiste un progetto esistenziale, diciamo pure dall’89, anche se abbiamo vissuto in un’illusione ottica per un po’ di tempo.
Il progetto filosofico e sociologico baumaniano è solo la descrizione di questa deriva planetaria, cui Isis si contrappone fingendo una rivoluzione fascista in salsa verde.
Io sono invece a favore di una favola arcobaleno, con tante sfumature fantascientifiche, in cui il supereroe è quello che scavalca ampiamente gli anni ’40 e si impone appunto dagli anni ’70 ai giorni nostri. Ho preferito fare il sub fino a 46 metri, travestirmi da personaggio delle favole in bicicletta e perdere tempo dietro le mie frasi, come tutti quelli che a questo mondo sono solo un numero su sette miliardi.
Trovo però molto piacevole questo romanzo, che in fondo restituisce senso ad un mondo, che è completamente irrazionale, ed insegue solamente piccoli piaceri edonisti e narrazioni sempre più povere e omologate per tutti.
Anche i telefilm sono diventati piatti, nonostante lo sforzo di schiere di psicologi e sociologi per inventarsi qualcosa di credibile in cui far fede, non potendo noi farlo nella nostra vita sempre più immateriale.
Un mondo senza valori possibili, insomma, molto più libero e ricco, nonostante le tragedie ci sommergano ancora, di quanto sia masi stato questo mondo.
Gli stessi pazienti si adeguano, alla ricerca dell’oblio, nella neutralità, dell’omologazione, e ci rimproverano che prendere farmaci li si renda visibilimente diversi dalla massa.
Molti psichiatri, lamentandosi meno, compartecipano della distruzione della rete relazionale, perchè il godimento dell’altro è talmente variegato nel nostro lavoro, che non esistono amici capaci neanche lontanamente di farsi notare o di consolarci del nostro stesso piattume.
La psicologia di chi pratica sport estremi ci insegna che esiste un fondo depressivo grave, che servono a riempire quel senso di vuoto esistenziale che gli altri, omologati, tollerano meglio grazie alla teledipendenza.
I pazienti non sanno quanto li invidiamo, perchè il fondo tragico delle loro esistenze, anche quando annegato dietro le barricate dei deficit cognitivi e dei sintomi negativi, dell’indifferenza dei parenti e dell’indifferenza dei gesti complusivi, produce unicità inalienabile, proprio perché alienata.
Il fastidio che tanti provano a contatto con la sofferenza psichica, diventa un piacere perverso, un godimento erotico dell’abisso che abbiamo il privilegio di osservare, in cui possiamo tuffarci con la nostra empatia altrimenti inutile al mondo.
La maggioranza dei nostri pazienti inizia a guarire ed a tornare nel grigio esistenziale, in cui noi pretendiamo non possa vivere nessuno. Abbiamo un secondo nemico, oltre la malattia mentale, che è prorpio la guarigione.
Il vuoto esistenziale, infatti, da cui emergono solo quanti abbiano un disagio, è forse la condanna peggiore secondo molti psichiatri e filosofi moderni. Il privilegio, anche tragico, di aver vissuto un’esperienza di alterità rispetto al nulla dell’omologazione globalizzata del pianeta, non può andare oltre per quanti guariscano. Il ritorno a quella condizione di oblio e annichilamento esistenziale è fondamentalmente un male peggiore dell’eterno inferno della psicosi, per quanto desiderabile.
Questa nostra condizione liminare tra il mondo del fantastico e dell’unicità e quello dell’omologazione, ci perseguita almeno quanto il limite tra la cronicità e il ricordo di un benessere passato, la cui idealizzazione lo strappa a quel grigio di cui era veramente colorato.
Le neuroscienze ci insegnano che siamo delle macchine complesse, ma sempre più misurabili in ogni nostro apparentemente oscuro recesso del pensiero. La Spect ed altre tecniche simili colorano spettri di cervelli in azione o in emozione, dando misura, conto e nominando per sempre ciò che era finora solo nella nostra mente. Un giorno un microchip integrato con il nostro SSN entrerà in rete e ci farà perdere del tutto il confine unico in cui ognuno di noi è prigiorniero, come già i cellulari ci impongono una socialità smart, impensabile solo dieci anni fa.
Mio caro collega, guarda il cielo nella sua superficie cromatica cangiante e lascia che le endorfine elaborate, soprattutto dalla sequenza di celeste, arcobaleno e rossi, riempiano loro i recettori del piacere…
Caro Manlio, grazie. Spero di
Caro Manlio, grazie. Spero di trovare quell’arcobaleno sia dentro, che sopra di me. Nel frattempo so di non essere solo in questa ricerca. A presto.
Gilberto
Ho letto con interesse e
Ho letto con interesse e piacere questo scritto: interesse per l’ argomento che mi tocca da vicino e piacere per la prosa dell’autore molto intensa e a tratti lirica, ricca di riferimenti letterari sin dal titolo, e pervasa dalla passione per l’ umanitá e per il proprio lavoro che arriva al lettore, malgrado la drammaticità e la desolazione di molti passaggi. Mi viene in mente leggendo l’ immortale “Homo sum, humani nihil a me alienumi puto” che pervade a mio parere tutto il testo.
Anche io lavoro dal 2008 in un centro di salute mentale e ho lavorato per 3 anni a cavallo tra Sert e csm, in un ausl del nord ( la stessa di Andrea Raballo a cui auguro di realizzare le proprie aspirazioni in Novergia anche se sarebbe un grande dispiacere non vederlo tornare), dove sono approdata da Chieti, dove sono nata e ho studiato.
Ci sono tanti momenti in cui, soffocata da burocrazia, carichi di lavoro, timori di denunce, situazioni complicate di disagio sociale, sarei tentata dal disamore per il mio lavoro di psichiatra…e uno dei pochi appigli rimane il rapporto umano con tanti esseri umani, uno sguardo, un gesto, lacrime e sorrisi, come descrive con tanta passione Gilberto di Petta in questo scritto. Sapere di condividere tanti momenti difficili con una persona cosi colta e speciale, un poeta e amante della vita e dell’ umanità come l’ autore, sapere di condividere l’ ansia di un telefono che squilla nella notte e che sveglia di soprassalto per chiamarci in consulenza e il dubbio di scelte difficili per il destino di altre persone in urgenza , come viene sentitamente descritto nel testo, mi farà sentire meno sola nei momenti difficili.
Grazie di cuore,
Alessandra Grosso
Grazie a te Alessandra. La
Grazie a te Alessandra. La tela di ragno di quanti di noi di giorno e di notte si esibiscono malgrado se stessi sul palcoscenico della psichiatria italiana, a volte come elettroni senza orbitale, a volte come veri e propri saltimbanchi, trapezisti senza rete, angeli con un’ala spezzata o senza le ali, è ciò che ci dona senso. Facciamo che questo ordito silenzioso e fragile possa avere una voce. Possa scrivere una storia diversa da quella che ci viene raccontatà dalla specialità ai convegni, una voce che possa dire : Il Re è nudo”. Riappropriamoci della nostra storia, che è clinica. Delle nostre aspirazioni, dei nostri pazienti. Sottraiamoci al potere che magnifica le sorti progressive. Ma, soprattutto, sentiamoci vivi e portatori di quell’enthusiasmos, che è dio dentro il cuore, che solo ci salva. Un abbraccio.
Gilberto