Premessa
Sarà proposta a Genova nell’ambito della suggestiva cornice del chiostro di San Matteo i prossimi 4 e 6 agosto da parte di Lunaria teatro – per la regia di Daniela Ardini, con Vittorio Ristagno e interventi coreografici di Beatrice Rossi (scene di Giorgio Panni e Giacomo Rigalza, coreografie di Patrizia Genitoni)[i] – la riduzione teatrale del racconto “La mite” scritto da Fëdor Dostoëvskij nel 1876. Come già altre volte è capitato con gli spettacoli proposti da Lunaria[ii], ho cercato nel testo spunti d’interesse per lo psichiatra, e trattandosi qui di Dostoëvskij, un autore che ha più di una responsabilità nella scelta da parte mia di questo lavoro, gli spunti da cogliere sono molteplici, come già è stato quando ho avuto occasione di soffermarmi in altre occasioni sui suoi testi[iii].
Non so se abbia ragione il critico teatrale Dragan Nedeljkovic quando afferma che a fronte della straordinaria difficoltà, se non impossibilità, di rendere sul palcoscenico la ricchezza del testo dei grandi romanzi di Dostoëvskij, La mite è tra le sue opere quella che meglio si presta a questa operazione[iv], ma certo questa messa in scena da parte di Lunaria mi è parsa efficace, potente, coinvolgente. Alcune scelte artistiche, come il modo di rendere la silenziosa e lieve presenza dell’assente o rappresentarne la caduta, particolarmente azzeccate. L’unicità di tempo, di spazio, della voce narrante, il netto prevalere della parola sul contesto e l’azione, la presenza-assenza sulla scena della morta, l’essere tutto rappresentato come intravisto, in penombra, contribuiscono – ancora per il critico serbo – a esaltare le qualità drammatiche e liriche della grande sventura di lei, della tragedia di lui e a rendere possibile la lettura di questo – che Leonid Grossman definì “uno dei più potenti racconti della disperazione” – come un monodramma senza minarne l’equilibrio narrativo che la critica giudica perfetto. Così, una volta visto lo spettacolo viene voglia di rivederlo, ogni volta che si legge il testo di rileggerlo, tali sono la ricchezza delle sfumature e la densità dei concetti, tanto intense le emozioni che ad ogni rilettura affiorano come nuove.
Il racconto[v] nacque, come è noto, sotto l’impressione di una vicenda riportata dalla cronaca, il suicidio della giovane sartina Maria Borisova commentato da Dostoëvskij ne Il diario di uno scrittore: «Su certe cose, per quanto semplici esse appaiano, non si può non pensare per un pezzo, si hanno sempre innanzi e se ne sente perfino la responsabilità. Questa mite anima che ha tormentato se stessa, senza che lo vogliamo ci tormenta il pensiero»[vi]. A questo sentimento di responsabilità, Dostoëvskij risponderà celebrandone il sacrificio con uno dei più grandi racconti della letteratura mondiale, che è insieme quindi atto di denuncia sociale e raffinata indagine psicologica. La critica se ne è occupata cogliendo collegamenti con protagonisti della letteratura europea, come Hugo e Goethe, del resto entrambi citati nel testo; infiniti i reciproci rimandi ad altri testi della produzione dostoëvskijana, le Memorie del sottosuolo innanzi tutto[vii].
“La mite” corrisponde dunque a un monologo interiore, quello del marito, un usuraio, che di fronte al cadavere della giovane moglie – entrambi sono anonimi – appena morta suicida, ragiona tra sé alla ricerca del punto fondamentale che gli chiarisca l’accaduto. Come è sempre in Dostoëvskij il procedere è ondivago, le diverse ipotesi emergono per poi contrapporsi e/o giustapporsi l’un l’altra.
Ci troviamo dunque di fronte, e qui sta per l’autore il solo elemento fantastico di un racconto per il resto fin troppo realistico, al resoconto fedele, quasi stenografico, di un monologo che si svolge interiormente, a tratti rivolgendosi a se stesso e a tratti a uditori immaginari, giudici in senso stretto o comunque persone che vogliano più generalmente giudicare. Le parole di lui sono un torrente dal corso accidentato; in esse lei fa capolino con silenzi, sorrisi, l’espressione stupita dei grandi occhi[viii].
Al banco dei pegni
Il primo incontro per la coppia ha luogo ai lati opposti del banco dei pegni di lui. La giovane è in cerca di lavoro e gli si rivolge per avere a usura il denaro per pagare le inserzioni sul giornale, biondina, un po’ goffa, silenziosa, gli occhi grandi, azzurri, pensosi. Offre in pegno oggetti di scarso valore che s’intuisce possano esserle cari, piccoli tesori per lei. In un caso esagera davvero, e l’usuraio rifiuta di accettarli, redarguendola; rimane colpito dalla confusione della giovane, ha sedici anni ma gliene se ne si sarebbero potuti dare quattordici. Poi lei si ripresenta con un pegno appena un po’ migliore, e già per lui non è già più una delle tante: «Poiché veniva già dopo la “ribellione” del giorno prima, io l’accolsi severamente. La mia severità è asciuttezza. Sborsandole però due rubli, non mi trattenni e dissi con una certa irritazione: “io, già, questo lo faccio solo per voi (…)”. Le parole “per voi” le sottolineai in modo speciale, e precisamente in un certo senso. Ero rabbioso. Ella avvampò di nuovo sentendo questo “per voi” ma rimase zitta, non lasciò il denaro, lo prese… eh eh, la povertà…. Ma come avvampò! Capii di averla ferita» (p. 660).
In questo passaggio è già chiaro quale sarà il filo del loro reciproco darsi nella relazione: quello cerebrale, ragionato, tattico, sempre rispondente a fini complessi di lui; e quello spontaneo, ingenuo, semplice della mite che appare creatura socialmente in grande difficoltà ma psicologicamente più lineare. Ed ecco lui a chiedersi: perché gettare due rubli, solo per fare un’azione cattiva, infondo, a una sconosciuta? Perché tanto rancore, rabbia verso la giovane, già da quel primo momento?
E’ allora che l’usuraio prende a interessarsi della giovane, ad attaccar bottone, riuscendovi perché le persone “buone e miti”, si sa, dopo un po’ rispondono. Lei intanto finisce con l’impegnare ogni cosa, fino a un’icona che s’intuisce di famiglia, l’oggetto più caro. Nel prendere il sacro che la povertà trasforma in merce, lui mostra una quasi superstiziosa titubanza; vorrebbe limitarsi a prendere l’involucro d’argento e lasciare l’immagine a lei. Poi finisce per prenderla, ma per riporla in uno spazio ambiguo, l’angolo delle immagini della sua casa-bottega. Non solo pegno, dunque, ma anche ancora icona, oggetto sacro, l’icona di lei nella casa di lui. E’ una premessa. Quanto a lei, cedergliela in pegno è l’ultimo disperato tentativo di sacrificio simbolico, anziché il sacrificio umano di sé al quale i ricatti dell’economia e della psicologia finiranno per costringerla.
E’ allora che lei osserva con apparente ingenuità, ma anche malizia: «Vi vendicate della società, sì?» (p. 663). Un’osservazione che sorprende e ferisce l’usuraio; dunque anche lei pensa, e talvolta può fare anche male. Solo qualche passaggio dopo ripensandoci ammetterà con se stesso: «io mi vendicavo della società, proprio, proprio, proprio» (p. 667). E’ un primo livello dei suoi sentimenti inconfessati, il primo piano che lui incontra nella discesa al sottosuolo, quello più superficiale.
E l’usuraio prosegue nella sua opera di conquista. Corrompe senza difficoltà la domestica della casa in cui lei vive, e confessa: «allora già la consideravo come “mia” e non dubitavo del mio potere» (p. 664). Viene a conoscerne la storia: orfana di entrambi i genitori e lasciata in miseria, è tenuta in schiavitù da due perfide zie e nonostante ciò è riuscita a superare un esame. La differenza di classe è del tutto favorevole a lui, le zie si propongono di “venderla” a un grosso bottegaio cinquantenne. Lei ne è sgomenta e per evitarlo cerca disperatamente il denaro per fare inserzioni e trovare lavoro. E’ allora che giunge a proposito l’usuraio come un rapace sulla preda. Avanza la sua proposta: le si confessa “egoista a buon mercato”, “forse carico di molto altro di sgradevole”. Mettere i propri difetti dentro il contratto dotale è certo un modo di costringere l’altra a prenderne atto senza che possa più pretenderne, di lì in poi, emenda. Ma non solo; quei difetti posti così in primo piano hanno anche per l’usuraio il significato, come acutamente osserva Marina Mizzau, di frapporre ostacoli all’amore di lei nel momento in cui lo cerca[ix]. Ostacoli che, come vedremo, è per lui necessario che lei superi, perché lui possa credere a un incredibile essere amato; ha un esasperante bisogno di prove infinite.
Cominciano così le torture psicologiche, alle quali la mite è sottoposta. Lui ne avverte la paura e la sensazione di intrappolamento e insiste, prospettandole severamente una vita senza fame sì, ma senza agi: sente di essere per lei in quel momento, in ogni caso, il liberatore. Sente appunto che è “sua”; l’ha in suo potere.
Inaspettatamente, non è senza esitazione, invece, che lei accetta. Sa che è l’ultimo degli oggetti, infondo, se stessa, che sta dandogli in pegno. Il debito le risulterà in questo caso inestinguibile. Ma non ha scelta, e questo elemento di costrizione peserà su tutta la vicenda come un peccato originale. I due lati opposti del banco dei pegni, dunque; non il luogo migliore, evidentemente, per far nascere l’amore. Forse uno dei pochi luoghi, anzi, dove far nascere l’amore è proprio difficile.
Possiamo provare a indovinare cosa pensasse la mite nel corso di quell’iniziale esitazione: non lo amo, ma potrò compiere ogni sforzo per amarlo e forse col tempo… Sarà l’abitudine a aiutarmi. E comunque sarò per lui la moglie devota e fedele di cui non potrà lamentarsi. Non riuscirà, infatti, ad andare oltre la fedeltà di una buona moglie, l’amicizia e la tolleranza di ciò che lui non poteva tollerare di se stesso, quel qualcosa di cui con l’usura si stava vendicando del prossimo.
Lui pare godere del trionfo sulla preda: «io stesso mi dicevo: amo le orgogliosette. Le orgogliose sono particolarmente belle quando, beh quando non hai più alcun dubbio circa il tuo potere su di loro, eh?» (p. 668). E ancora: «io avevo quaranta e un anno e lei appena sedici. Questo mi seduceva, questa sensazione di disparità, è una sensazione dolcissima questa» (p. 669). C’è un gusto certo in questo, nel fatto che la povertà vinca la virtù, la fanciullezza e gli ideali; il gusto perverso che sarà di Fëdor Karamazov nel vedere la purezza macchiarsi, la beffa dell’Inquisitore a Cristo quando gli mostra l’ineludibile necessità del governo. E c’è, certo, in ciò bisogno di vendetta, di risarcimento; ma la rabbia dell’usuraio verso la mite risponde a istanze più profonde, la consapevolezza infondo di non poter avere amore e stima altro che comprandole, e insieme quella del fatto che amore e stima non possono essere comprati. Una tragica aporia.
Nel corso del breve fidanzamento lei gli spalanca il cuore: «Il più si è che ella fin dal principio, per quanto si facesse forza, si era gettata verso di me piena d'amore, mi accoglieva, quando venivo la sera, con entusiasmo, mi narrava col suo balbettio (l'affascinante balbettio dell’innocenza!) tutta la sua infanzia, la fanciullezza, parlava della casa dei genitori, di padre e madre» (p. 669). Lei si dà, questo è l’impegno che ha preso con se stessa, entusiasta, logica, semplice, pulita, leggera come i suoi anni, come i passi di danza classica con i quali Lunaria ha scelto di rendere la sua presenza nel monologo. Si dà con entusiasmo, sente di aver scelto di essere, nonostante tutto, la sposa. All’opposto, lui tace di sé, calcolatore, riservato, severo, orgoglioso, intimamente tortuoso e complicato. Tace, perché chiedere comprensione, confessare le proprie debolezze, sarebbe chiedere l’elemosina: «Oh è che anch’io ero stato infelice! Ero stato abbandonato da tutti, abbandonato e dimenticato, e nessuno, nessuno lo sa» (p. 670). Del resto, cosa avrebbe potuto capire una sedicenne, si chiede? E commenta: «Ma io su tutta questa ebbrezza versai lì per lì, di colpo, una doccia fredda. Ecco, in ciò appunto stava la mia idea. Agli entusiasmi rispondevo col silenzio, benevolo, certo…. ma pure ella vide rapidamente ch'eravamo diversi e ch'io ero un enigma. E io battevo soprattutto sull’enigma! Già, per proporre un enigma io forse ho fatto questa sciocchezza! In primo luogo, severità: così, anche in casa la introdussi sotto il segno della severità. In una parola, allora, mentre andavo in giro soddisfatto, creai tutt'un sistema. Oh, senza sforzo alcuno esso si formò da sé! Né poteva essere altrimenti, io dovevo creare questo sistema per una ineluttabile circostanza…. a che infatti mi sto calunniando? Era un vero sistema» (p. 669).
Ma in cosa consisteva mai questo sistema? La gioventù odia il denaro, e lui insiste sul denaro; la gioventù è generosa, e lui umilia la generosità; il temperamento di lei la porta a essere generosa anche nell’usura, e lui la costringe a violentare la propria indole ed essere fino in fondo usuraia. Il sistema è un crudele, brutale, mefistofelico esperimento psicologico volto a esasperare la cavia per evocarne la reazione. Per verificare quanto la situazione sia in grado di plasmarne la natura. E’ un progetto maieutico negativo, qualcosa di simile all’addomesticamento circense di un animale: ha preso in pegno una sedicenne pura, mite, pulita per poterla sottoporre al «sistema» e adeguarla alle proprie contorte esigenze psicologiche. Non c’è solo ricerca del risarcimento: ci sono anche molta rabbia e molta invidia, l’invidia di chi si sente l’abietto tra gli uomini per il bello morale. Stretta nel sistema, lei dovrà apprendere a odiare fino in fondo, per sentirsi in fallo davanti a lui ed essere poi sorpresa e abbagliata, conquistata alla stima e all’amore, dal suo benevolo perdono. La coppia è il luogo all’interno del quale questo esperimento psicologico mostruoso dovrà attuarsi; la scatola nella quale lo sperimentatore osserva il topino agitarsi, incatenato agli stimoli che di volta in volta decide di somministrargli.
Poi, oltre il sistema, c’è anche un progetto finale; che lui ha fatto per loro, e lei ignora. Nel quale lei è compresa a sua insaputa. Un progetto che ha la tirannia che infondo c’è in ogni sorpresa: il proprio progetto per l’altra. E’ uno strano uomo infondo l’usuraio, sempre come proiettato altrove nel tempo e nello spazio; la donna che desidera non è quella che sposa, ma quella nella quale intende plasmarla, umiliandola e rendendola colpevole per poterla, così, perdonare e divenire splendido ai suoi occhi; vivono a Pietroburgo, ma il luogo della loro felicità è la Crimea dove un giorno, quando tutto sarà pronto, si sposteranno. La Crimea come luogo del suo riscatto ottenuto attraverso il denaro, come il paradiso che lui le schiuderà, un paradiso futuro, dopo averle fatto attraversare l’inferno presente. E anche al momento decisivo, infondo, lui sarà oltre e altrove: fuori casa per i preparativi del viaggio a Boulogne, il viaggio che non potrà avere luogo.
Quanto a lei: «dapprima discusse (…) e poi cominciò a star zitta, tacque perfino del tutto (…) e oltre a ciò io le vidi a un tratto un sorriso incredulo, silenzioso, cattivo. Ecco, con questo sorriso appunto io la introdussi in casa mia. E’ vero anche che ormai non aveva dove andare….» (p. 671). E’ il primo passaggio di un progetto di annientamento dell’altra: la riduzione di lei al silenzio.
Siamo in pieno realismo superiore, insomma, quello di Dostoëvskij, dove oppressione materiale e oppressione psicologica si intrecciano in un vincolo soffocante e indissolubile. Un realismo che è denuncia sociale ed economica e denuncia psicologica e morale, insieme. La prima da sola, che gli aveva in età giovanile attirato le simpatie della critica socialista, non gli basta, perché Dostoëvskij sa che il motore della storia è economia, certo, denaro – la potenza spaventosa e miracolosa del denaro elucidata da Marx nel quarto dei Manoscritti economico-filosofici (1844) e così presente nell’opera letteraria di Dostoëvskij, da Povera gente ai Karamazov, passando per Umiliati e offesi, Delitto e castigo, L’adolescente – ma è anche emozioni, sentimenti, relazioni, psicologia.
La convivenza dei due inizia così, sotto una cappa di reciproco silenzio. Il silenzio ostile di lui che lei, ogni tanto e in modo via via più flebile, tenta di rompere con gesti di affetto. Inesorabilmente respinti. Nessuno dei due, infondo, può amare. Lei che, come aveva stabilito di fare in quel primo momento di esitazione: «mi amava dunque, più esattamente: desiderava amare, cercava di amare» (p. 673). Una pedagogia dell’amore che lei si impone, alla quale simmetricamente si oppone il sistema in cui è stretta da lui, pedagogia dell’odio. Contro l’una e l’altra pedagogia resiste l’indole di lei, le sue emozioni, che può essere certo strappata da una parte e dall’altra, ma resiste ad essere totalmente sovvertita, rendendole entrambe queste pedagogie impossibili da seguire fino in fondo. Ma, certo, il sistema qualche frutto inizia a darlo: il volto mite della giovane comincia a farsi insolente, beffardo. «Ribellione e indipendenza: ecco quello che c’era, solo che lei non ne era capace» (p. 672) osserva lui, sempre lucido e spietato. Già, lei che nonostante gli sforzi ai quali si era impegnata con se stessa, cercava di amare senza pienamente riuscirvi; lei che era la mite e non riusciva neppure pienamente, dunque, a odiare.
Il sistema: una sconcertante pedagogia dell’odio
La mite è in trappola, come una mosca presa nella ragnatela, ogni via di uscita le è interdetta e comincia a fare azioni scomposte per potersi liberare, lacerandosi come chi è legato, per strapparli, tira i nodi e finisce col renderli più stretti. La ribellione non tarda così a manifestarsi. La casa del sistema comincia a divenirle insopportabile, esce sempre più spesso dalla porta senza il permesso del marito, contravvenendo ai patti dotali. Uscire di casa per la porta significa però sottrarsi temporaneamente al sistema, prender aria; ma poi dalla porta bisogna sempre rientrare. Ed è la volta di un amicizia maschile cercata in modo ambivalente; era: «smaniosa di turbolenza, la mitezza però la tratteneva» (p. 677), osserva ancora, lucido, lui. Non sa portare infondo il tradimento e questo primo tentativo di autonomia e, forse, vendetta, o forse solo questo tentativo di attirare su sé l’attenzione, fallisce e la lascia più umiliata. La mite non è Anna Karenina, diverse per età, temperamento, condizione sociale; stessa fine, peraltro. L’usuraio, che la spia, ha accettato questo rischio, e in cuor suo è certo, infondo, dell’esito; può comunque sentirsi moralmente superiore perché il tradimento da parte di lei, anche solo nelle intenzioni, ha avuto luogo.
Quanto a lei, ora è venuta a conoscenza del segreto di lui, la ragione della sua vergogna e dell’esigenza di vendetta. E’ la storia di un uomo umiliato, non amato già al tempo della scuola, un ex ufficiale mal sopportato nell’esercito per il carattere difficile, espulso con ignominia per l’accusa di essersi per viltà sottratto al dovere di difendere l’onore del reggimento in duello. Questo nascondeva dunque l’orgoglioso silenzio di lui; ma conoscere quel segreto non aumenta il potere della mite, perché lei non giudica; si giudica, semmai.
Per la prima volta, ora, lei non si corica con lui ed è un passaggio importante. Si sente ormai indegna del letto coniugale per avere avvicinato un altro uomo ed essere stata colta in fallo? O è un tentativo di mettere uno al riparo dall’altro, stabilire una tregua, la distanza forse salutare per non farsi troppo male reciprocamente?
Anche questo però non basta. L’usuraio tiene ostentatamente un revolver sul tavolo e una notte lei arriva a puntarglielo alla tempia; lui finge di dormire e resta immobile. E’ il momento di massima tensione. Si tratta, per lui, di verificare quanto il sistema sia stato capace di trasformarla in un essere capace fino in fondo di odio. No, ancora una volta, la mitezza ha il sopravvento; ancora una volta, l’usuraio perde e vince insieme la sua ambivalente sfida all’indole delle mite… Che resiste. Non solo. Sarebbe potuto anche accadere che lei sparasse senza pienamente volerlo una volta posata la canna sulla fronte, in quella condizione di sospensione della coscienza – Dostoëvskij l’aveva già presentata a proposito dell’attimo in cui Raskolnikov alza la scure sull’usuraia[x] e qui vi torna – nella quale il colpo avrebbe potuto indifferentemente partire o non partire. Ma neppure questo accade; l’usuraio vince questa roulette russa, insomma quanto gli occorreva per riscattare di fronte a se stesso e anche a lei l’accusa di viltà di fronte a un duello più antico: «Sopportando la prova della rivoltella, mi ero vendicato di tutto il mio fosco passato» (p. 687). Finché: «Aprii rapidamente gli occhi… lei non era più nella stanza (…): io avevo vinto, e lei era stata vinta per sempre» (p. 688).
Ora è chiaro che non era tanto il disprezzo degli altri il problema dell’usuraio, quanto il proprio. La scelta come moglie della mite non è avvenuta per caso: ingenua, povera, costretta. Sentiva allora che nessuna donna libera e mediamente esperta della vita avrebbe potuto accettarlo, odioso al mondo perché disonorato e usuraio. Ma, soprattutto, per entrambe queste ragioni odioso a se stesso, privo della stima di se stesso. Indegno dell’amore (prima di tutto dell’amor proprio) perché indegno di stima e perciò costretto a strappare l’uno e l’altra con la prepotenza, la tattica, il ricatto, la violenza del denaro. La sua rabbia verso la mite, fin da quei primi incontri intorno al banco, è rabbia per il fatto di sentirsi costretto a costringerla, ad amarlo. E prima di tutto a stimarlo. E insieme invidia per la tranquilla autostima di lei, quella che gli manca; ha bisogno di vederla scendere al suo livello, costringerla a praticare l’usura spietatamente, come è logico praticarla, di vederla avvicinare l’adulterio, sfiorare l’omicidio. Soltanto così, vergognosa di se stessa, potrà vederla costretta a implorare il suo perdono e amarlo per la generosità. Anche a questo il sistema serviva, a deturparla moralmente, renderla a sua volta odiosa a se stessa, come lo è lui a sé. Perché la purezza e onestà della mite sono per lui, lei malgrado, un atto implicito d’accusa. Vendetta, rabbia, invidia, scarsa autostima: sono molteplici i sentimenti che muovono l’usuraio; risarcimento, amore, stima, soprattutto amore confuso con la stima, gratitudine, sono tante anche le cose delle quali ha bisogno.
Segue parte II. Un femminicidio sui generis? (clicca per procedere)
[i] Replica a Chiavari, Giardini di Villa Rocca, Domenica 14 agosto. Clicca qui per il programma completo.
[ii] M.A. Ortega Pardal, P.F. Peloso, Ricordare troppo. Ipermnesia in scena nell’estate genovese, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 12, 3, 2004, pp. 123-134; P.F. Peloso, E. Lavorato, W. Santamato, Camminando per mano: alcune note su Gradiva e sulla sua lettura freudiana, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 3, 2005, pp. 89-101; O. Guglielmi, P.F. Peloso, Siamo tutti Hyde? Lunaria mette in scena la faccia buia della luna (e di noi), Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 14, 4, 2006, pp. 35-52; O. Guglielmi, P.F. Peloso, Divagazioni criminologiche, antropologiche e storico-psichiatriche intorno a Dracula di Bram Stoker (1896), Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 16, 3, 2008, pp. 65-87.
[iii] Sono partito da spunti colti nell’opera di Dostoëvskij per i saggi: P.F. Peloso, Cinque ipotesi di lettura per il caso Raskolnikov, Rassegna Italiana di Criminologia, 6, 4, 1995, pp. 547-564; P.F. Peloso, Problemi relazionali e sociali correlati all'alcoolismo. Rappresentazione e autopercezione di un bevitore problematico in Delitto e Castigo di F.M. Dostoevskij, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LII, 1995, pp. 171-192; P.F. Peloso, Nonostante affrontassi la vita con furore. Catastrofe del soggetto ed esordio della psicosi nella letteratura e nella clinica, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LIV, 1997, pp. 175-214; P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov, Il reo e il folle, 9-10, 1999, 309-324 (Psychiatry on line Italia, sezione di Psichiatria forense, 1998); P.F. Peloso, C. Schinaia, G. Tabò, Contributi alla definizione e alla tipologia delle personalità e delle condotte pedofile attraverso il romanzo in: Pedofilia, pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo (di C. Schinaia), Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 179-200; P.F. Peloso, Violenza dello sguardo e relazione di aiuto: il problema psichiatrico in F. Dostoëvskij, in: Tra follia e salute: L'arte come evento (a cura di M. Ercolani), Genova, graphos, 2002, pp. 27-4; P.F. Peloso, Io, il forestiero. L'individuo infranto in F.M. Dostoëvskij, Il reo e il folle, 2002-03, pp. 75-90; P.F. Peloso, Vendicarsi per necessità, vendicarsi per gioco: considerazioni in tema di fisiologia e patologia della vendetta, in: Psicopatologia e clinica dell’aggressività: la vendetta (a cura di A. Berti e C. Maberino), Firenze, Ely Lilly, 2004, pp. 75-95; P.F. Peloso, L’inconscio prima di Freud: aspetti medici e letterari, Atti dell’Accademia ligure di Scienze e lettere, serie VI, VII, 2004, pp. 245-284; P.F. Peloso, Finché rimane un gioco… Considerazioni sul gioco d’azzardo patologico, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 2, 2005, pp. 83-103.
[iv] D. Nedeljkovic, La funzione della narrazione in prima persona in Dostoëvskij. Riflessioni su “La mite”, in: Dostoëvskij e la crisi dell’uomo (a cura di S. Graciotti, V. Strada), Firenze, Vallecchi, 1991, pp. 217-228.
[v] F. Dostoëvskij, La mite. Racconto fantastico, in: Racconti e romanzi brevi, vol.III, Firenze, Sansoni, 1962, pp. 655-702.
[vi] F. Dostoëvskij, Diario di uno scrittore, Firenze, Sansoni, 1963, p. 606.
[vii] Cfr ad esempio il prezioso: B. Basile, La finestra e l’icona, in: La finestra socchiusa. Ricerche tematiche su Dostoëvskij, Kafka, Moravia e Pavese, Roma, Salerno ed., 2003, pp. 17-59. Per un inquadramento invece del racconto nel problema generale dei 22 suicidi che appaiono nell’opera di Dostoëvskij rinvio a: R. Garaventa, Il suicidio in Dostoëvskij, in: Il suicidio nell’età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoëvskiij, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 175-263.
[viii] D. Nedeljkovic, La funzione della narrazione… cit., p. 227.
[ix] M. Mizzau, Silence à deux voix, Langages, XXI, n. 85, 1987, pp. 41-53 (p. 44).
[x] A.M. Ferro, P.F. Peloso, L. Ferrannini, Alcune vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’omicidio, Psicoterapia e scienze umane, XLI, 2,2007, pp. 171-190.
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