Si apre con questo scritto un blog sul Disturbo di Personalità Borderline, che noi tutti consideriamo un po’ il padre di tutti i disturbi di personalità.
Il perché di questa scelta, come sempre, risiede in parte in ragioni soggettive in parte in condizioni oggettive.
Alle prime appartiene il mio impegno professionale, in particolare quello degli ultimi anni, che mi vede coordinare il progetto regionale dell’Emilia Romagna sul trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità.
Quelle oggettive, certamente più importanti, sono rappresentate dal crescente impegno che i servizi di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche devolvono nel curare le persone con Disturbo Borderline di personalità, che spesso collochiamo nello spazio dei cosiddetti pazienti difficili. Questa definizione appartiene, come altre, al linguaggio gergale che si sostituisce a quello tecnico rivelando aspetti della realtà operativa che altrimenti rimarrebbero inespressi.
E’ un modo esplicito, ma ancora sufficientemente corretto, perché invero ne ho sentiti di ben più grossolani, per dire che sono pazienti scomodi (per noi) e che non soddisfano le esigenze di sicurezza (le nostre).
Certo la domanda di cura che i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità pongono è qualitativamente non omogenea al tradizionale impianto dei servizi di salute mentale, ed è comprensibile che vi siano difficoltà nell’accettare nuovi percorsi di accesso, di ingaggio e di trattamento.
Non diciamo presa in carico, perché il termine, anche questo da sottoporre ad attenta revisione, suggerisce un approccio paternalistico, laddove il presupposto di ogni intervento possibile, ancorché efficace, come sottolineano le Linee Guida internazionali, è basato sul rispetto dell’autonomia e della capacità di scelta del paziente borderline. Inoltre, anche se volessimo girare la testa dall’altra parte fingendo che questi pazienti non esistano o rappresentino solo inevitabili fastidi tutto sommato marginali alla psicopatologia, dobbiamo fare i conti con i numeri: le ricerche nazionali, senza scomodare la letteratura internazionale che fornisce dati ancora più significativi, ci dicono che almeno il 10% dei pazienti dei CSM e il 30% dei pazienti Ser.T hanno una diagnosi di DBP.
Una ragione pragmatica, quindi, si aggiunge senza esautorarle a quelle etiche, i pazienti Borderline sono a tutti gli effetti utenti dei nostri servizi e rifiutarli non solo non serve, ma addirittura peggiora le cose, facendoli diventare più gravi, o se preferiamo più difficili. Sì perché le esperienze di rifiuto sono patogene, non è certo un caso che le Linee Guida del National Collaborating Centre for Mental Health del 2009 abbiano messo in primo piano la raccomandazione di servizi non giudicanti: nessuno deve essere escluso da u trattamento appropriato a causa del suo comportamento.
Ormai diversi anni fa ho scritto un editoriale per la compianta rivista Psichiatria di Comunità il cui titolo era: “Pazienti senza compliance, o servizi senza compliance?”.
Ed è da lì che vorrei ripartire, questa volta aprendo un confronto reale, continuo, e spero proficuo con gli utenti di Psychiatry on Line che mi offre, grazie a Francesco Bollorino che lo ha sollecitato, questo spazio di comunicazione così importante. Cosa possono fare i nostri servizi per questi pazienti? Qual’è il punto di vista originale delle istituzioni della psichiatria italiana pubblica sui disturbi di personalità?
Le maggiori conoscenze che oggi abbiano provengono da servizi di salute mentale con organizzazioni molto diverse dalle nostre, in particolare gli Stati Uniti. Mentre nel Regno Unito, paese con il quale abbiamo maggiore possibilità di confronto, da un parte vi sono ricerche che affermano che i programmi residenziali di lungo termine sono iatrogeni, ma dall’altra i centri specialistici, anzi super specialistici sono di carattere residenziale e in certi casi anche custodialistico.
Non abbiamo ancora dimenticato l’ipotesi del ricovero preventivo obbligatorio disposto dall’autorità giudiziaria per i Severe Personality Disorders ritenuti a rischio di commettere reati. Il sistema di servizi di comunità di Salute Mentale italiano ha davanti a sé una nuova sfida: superare il paternalismo strisciante del modello riabilitativo assistenziale che ancora ne costituisce lo zoccolo duro, e aggiornare il patrimonio culturale e organizzativo inserendo pratiche basate sul riconoscimento dell’autonomia e della capacità di scelta dei pazienti.
I borderline, che non possono essere curati diversamente, importano anche perché sono una straordinaria occasione di riforma dell’intero sistema curante.
Il perché di questa scelta, come sempre, risiede in parte in ragioni soggettive in parte in condizioni oggettive.
Alle prime appartiene il mio impegno professionale, in particolare quello degli ultimi anni, che mi vede coordinare il progetto regionale dell’Emilia Romagna sul trattamento dei Disturbi Gravi di Personalità.
Quelle oggettive, certamente più importanti, sono rappresentate dal crescente impegno che i servizi di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche devolvono nel curare le persone con Disturbo Borderline di personalità, che spesso collochiamo nello spazio dei cosiddetti pazienti difficili. Questa definizione appartiene, come altre, al linguaggio gergale che si sostituisce a quello tecnico rivelando aspetti della realtà operativa che altrimenti rimarrebbero inespressi.
E’ un modo esplicito, ma ancora sufficientemente corretto, perché invero ne ho sentiti di ben più grossolani, per dire che sono pazienti scomodi (per noi) e che non soddisfano le esigenze di sicurezza (le nostre).
Certo la domanda di cura che i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità pongono è qualitativamente non omogenea al tradizionale impianto dei servizi di salute mentale, ed è comprensibile che vi siano difficoltà nell’accettare nuovi percorsi di accesso, di ingaggio e di trattamento.
Non diciamo presa in carico, perché il termine, anche questo da sottoporre ad attenta revisione, suggerisce un approccio paternalistico, laddove il presupposto di ogni intervento possibile, ancorché efficace, come sottolineano le Linee Guida internazionali, è basato sul rispetto dell’autonomia e della capacità di scelta del paziente borderline. Inoltre, anche se volessimo girare la testa dall’altra parte fingendo che questi pazienti non esistano o rappresentino solo inevitabili fastidi tutto sommato marginali alla psicopatologia, dobbiamo fare i conti con i numeri: le ricerche nazionali, senza scomodare la letteratura internazionale che fornisce dati ancora più significativi, ci dicono che almeno il 10% dei pazienti dei CSM e il 30% dei pazienti Ser.T hanno una diagnosi di DBP.
Una ragione pragmatica, quindi, si aggiunge senza esautorarle a quelle etiche, i pazienti Borderline sono a tutti gli effetti utenti dei nostri servizi e rifiutarli non solo non serve, ma addirittura peggiora le cose, facendoli diventare più gravi, o se preferiamo più difficili. Sì perché le esperienze di rifiuto sono patogene, non è certo un caso che le Linee Guida del National Collaborating Centre for Mental Health del 2009 abbiano messo in primo piano la raccomandazione di servizi non giudicanti: nessuno deve essere escluso da u trattamento appropriato a causa del suo comportamento.
Ormai diversi anni fa ho scritto un editoriale per la compianta rivista Psichiatria di Comunità il cui titolo era: “Pazienti senza compliance, o servizi senza compliance?”.
Ed è da lì che vorrei ripartire, questa volta aprendo un confronto reale, continuo, e spero proficuo con gli utenti di Psychiatry on Line che mi offre, grazie a Francesco Bollorino che lo ha sollecitato, questo spazio di comunicazione così importante. Cosa possono fare i nostri servizi per questi pazienti? Qual’è il punto di vista originale delle istituzioni della psichiatria italiana pubblica sui disturbi di personalità?
Le maggiori conoscenze che oggi abbiano provengono da servizi di salute mentale con organizzazioni molto diverse dalle nostre, in particolare gli Stati Uniti. Mentre nel Regno Unito, paese con il quale abbiamo maggiore possibilità di confronto, da un parte vi sono ricerche che affermano che i programmi residenziali di lungo termine sono iatrogeni, ma dall’altra i centri specialistici, anzi super specialistici sono di carattere residenziale e in certi casi anche custodialistico.
Non abbiamo ancora dimenticato l’ipotesi del ricovero preventivo obbligatorio disposto dall’autorità giudiziaria per i Severe Personality Disorders ritenuti a rischio di commettere reati. Il sistema di servizi di comunità di Salute Mentale italiano ha davanti a sé una nuova sfida: superare il paternalismo strisciante del modello riabilitativo assistenziale che ancora ne costituisce lo zoccolo duro, e aggiornare il patrimonio culturale e organizzativo inserendo pratiche basate sul riconoscimento dell’autonomia e della capacità di scelta dei pazienti.
I borderline, che non possono essere curati diversamente, importano anche perché sono una straordinaria occasione di riforma dell’intero sistema curante.
Quale Editor della Rivista dò
Quale Editor della Rivista dò il benvenuto al Collega Michele Sanza e alla sua nuova Rubrica.
E’ un tema molto attuale quello da lui scelto e spero che questo spazio divenga un luogo non solo di lettura ma pure di dibattito tra gli operatori della Salute Mentale e con l’Autore che garantisce la sua disponibilità al dialogo.
Rammento che per scrivere commenti sulla Rivista e in calce ai contributo occorre essere UTENTI REGISTRATI di Psychiatry on line Italia