FAGIOLI, LO PSICHIATRA CHE DISSE “FREUD È UN SADICO IMBECILLE”. Morto a 85 anni. Adorato dai seguaci, cacciato dalla Società Psicoanalitica Mentore del regista Bellocchio, fu accusato di averlo plagiato
di Michela Tamburrino, lastampa.it, 14 febbraio 2017
«Ciao Massimo. Con te perdiamo il nostro più grande interlocutore». È l’addio della rivista Left al suo collaboratore Massimo Fagioli, neuropsichiatra, scrittore, intellettuale, morto a 85 anni ieri mattina nella sua casa romana. Nato a Monte Giberto, in provincia di Ascoli Piceno, il 19 maggio del ’31, un passato da partigiano che indirizzò la sua vita, fu una figura controversa, molto amata e molto avversata, anche per aver fondato una scuola psicoanalitica basata sulla lettura dei sogni e sul ritorno all’esperienza della nascita. E proprio a questa ricerca e alle origini sul pensiero dell’uomo dedicò la sua vita di studi. Laureato a pieni voti nel ’56 in Medicina, dopo la specializzazione in neuropsichiatria fece le prime esperienze nei manicomi di Venezia e di Padova, dove riuscì a portare i pazienti fuori da quelle mura per poi passare alla guida di una comunità terapeutica in Svizzera. Quindi l’ingresso nella Società Psicoanalitica Italiana e la clamorosa espulsione, quando sostenne che le teorie di Freud erano «fregnacce» e che lo stesso era «un vecchio sadico imbecille». Dopo una lunga analisi personale durata dieci anni, Fagioli scrive, nel 1970, il suo capolavoro teorico, Istinto di morte e conoscenza, diffuso in migliaia di copie e tradotto in molte lingue, libro che racchiude le scoperte fondamentali della teoria della nascita con le quali lo psichiatra ha rivoluzionato la conoscenza della mente umana a partire dalla scoperta dell’origine biologica del non cosciente, secondo la quale il pensiero umano inizia alla nascita con la reazione alla luce. Teorie approfondite nei libri La marionetta e il burattino e Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2017/02/14/cultura/fagioli-lo-psichiatra-che-disse-freud-un-sadico-imbecille-9vMZAzBOGEfUPREKI8rIeM/pagina.html
«Ciao Massimo. Con te perdiamo il nostro più grande interlocutore». È l’addio della rivista Left al suo collaboratore Massimo Fagioli, neuropsichiatra, scrittore, intellettuale, morto a 85 anni ieri mattina nella sua casa romana. Nato a Monte Giberto, in provincia di Ascoli Piceno, il 19 maggio del ’31, un passato da partigiano che indirizzò la sua vita, fu una figura controversa, molto amata e molto avversata, anche per aver fondato una scuola psicoanalitica basata sulla lettura dei sogni e sul ritorno all’esperienza della nascita. E proprio a questa ricerca e alle origini sul pensiero dell’uomo dedicò la sua vita di studi. Laureato a pieni voti nel ’56 in Medicina, dopo la specializzazione in neuropsichiatria fece le prime esperienze nei manicomi di Venezia e di Padova, dove riuscì a portare i pazienti fuori da quelle mura per poi passare alla guida di una comunità terapeutica in Svizzera. Quindi l’ingresso nella Società Psicoanalitica Italiana e la clamorosa espulsione, quando sostenne che le teorie di Freud erano «fregnacce» e che lo stesso era «un vecchio sadico imbecille». Dopo una lunga analisi personale durata dieci anni, Fagioli scrive, nel 1970, il suo capolavoro teorico, Istinto di morte e conoscenza, diffuso in migliaia di copie e tradotto in molte lingue, libro che racchiude le scoperte fondamentali della teoria della nascita con le quali lo psichiatra ha rivoluzionato la conoscenza della mente umana a partire dalla scoperta dell’origine biologica del non cosciente, secondo la quale il pensiero umano inizia alla nascita con la reazione alla luce. Teorie approfondite nei libri La marionetta e il burattino e Psicoanalisi della nascita e castrazione umana.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2017/02/14/cultura/fagioli-lo-psichiatra-che-disse-freud-un-sadico-imbecille-9vMZAzBOGEfUPREKI8rIeM/pagina.html
ADDIO A FAGIOLI, LO PSICANALISTA ROSSO CHE SI PERMISE DI FARE LE PULCI A FREUD. Lutto nel mondo della scienza, morto il professor Massimo Fagioli. Aveva 85 anni, negli ultimi tempi si era avvicinato a Bertinotti
di Stefano Zecchi, ilgiornale.it, 14 febbraio 2017
C’è chi anticipa i propri temi, chi rimane indietro e chi è figlio del suo tempo, come lo psichiatra Massimo Fagioli, morto ieri a 85 anni. Il suo tempo è quello della grande illusione sessantottina, del ribellismo a tutto e a tutti, che Fagioli interpreta sia per ciò che riguarda la psicoanalisi, sia la politica. Le sue due frasi celebri, che dicono molto più di tanti discorsi chi fosse davvero Fagioli, sono queste: «Le teorie freudiane sono tutte fregnacce» e «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra».
La prima frase ha comportato l’ovvia espulsione dalla Società di psicoanalisi, la seconda lo ha collocato a pieno merito sul piedistallo della tipica arroganza della sinistra culturale, per cui esiste lei e tutto il resto è schifo; ma non solo, per Fagioli chi non aveva la fortuna di ricevere in dote il suo orientamento politico, era malato. Lui, ovviamente, non si prendeva cura di quegli irrecuperabili malati di mente non di sinistra, infatti la sua attenzione era tutta rivolta ai propri compagni di strada. Una folta schiera di nomi famosi: è la guida spirituale di Fausto Bertinotti, di Pietro Ingrao, di Giuliano Pisapia, di Sandro Curzi e, più o meno, di tutta la galassia di estrema sinistra. Ma il suo magistero non si fermava ai capi, aveva istituito le celebri analisi di gruppo, molto in voga nei primi anni Settanta, a cui partecipavano veri e propri adepti: i fagiolini. Alcuni lo hanno perfino criticato di aver fondato una setta, plagiando i discepoli.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/psicanalista-dei-sessantottini-1363799.html
C’è chi anticipa i propri temi, chi rimane indietro e chi è figlio del suo tempo, come lo psichiatra Massimo Fagioli, morto ieri a 85 anni. Il suo tempo è quello della grande illusione sessantottina, del ribellismo a tutto e a tutti, che Fagioli interpreta sia per ciò che riguarda la psicoanalisi, sia la politica. Le sue due frasi celebri, che dicono molto più di tanti discorsi chi fosse davvero Fagioli, sono queste: «Le teorie freudiane sono tutte fregnacce» e «Una persona sana di mente non può non essere di sinistra».
La prima frase ha comportato l’ovvia espulsione dalla Società di psicoanalisi, la seconda lo ha collocato a pieno merito sul piedistallo della tipica arroganza della sinistra culturale, per cui esiste lei e tutto il resto è schifo; ma non solo, per Fagioli chi non aveva la fortuna di ricevere in dote il suo orientamento politico, era malato. Lui, ovviamente, non si prendeva cura di quegli irrecuperabili malati di mente non di sinistra, infatti la sua attenzione era tutta rivolta ai propri compagni di strada. Una folta schiera di nomi famosi: è la guida spirituale di Fausto Bertinotti, di Pietro Ingrao, di Giuliano Pisapia, di Sandro Curzi e, più o meno, di tutta la galassia di estrema sinistra. Ma il suo magistero non si fermava ai capi, aveva istituito le celebri analisi di gruppo, molto in voga nei primi anni Settanta, a cui partecipavano veri e propri adepti: i fagiolini. Alcuni lo hanno perfino criticato di aver fondato una setta, plagiando i discepoli.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/psicanalista-dei-sessantottini-1363799.html
È MORTO MASSIMO FAGIOLI, PSICANALISTA CONTROVERSO
di Raffaella De Santis, repubblica.it, 13 febbraio 2017
I suoi seguaci si chiamavano “fagiolini”, che un po’ ricorda i “sorcini” fan di Renato Zero. Lui, Massimo Fagioli, era il guru, lo psichiatra che aveva rifiutato Freud dicendo che le sue teorie erano “fregnacce”, quello che flirtava con Fausto Bertinotti e che parlava di rivoluzione mettendo insieme la sinistra e le malattie mentali, la rivoluzione e l’interpretazione dei sogni. Parlava lentamente, ipnoticamente, colorando il linguaggio specialistico e sofisticato con termini a volte grevi. Personaggio e studioso controverso, fondatore di una scuola di psicoanalisi antifreudiana si era duramente scontrato con la Società italiana di psicoanalisi. Irrituale anche nel look: camicie e bretelle colorate, capelli candidi arruffati, barba incolta da saggio socratico. Le sue sedute di analisi collettiva nello studio trasteverino erano frequentatissime. L’ingresso era libero e arrivavano fiumi di persone, tra cui molti semplici curiosi. In realtà Fagioli aveva alle spalle un curriculum serio prima di diventare un santone pop “consigliere” di politici e intellettuali.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2017/02/13/news/morto_massimo_fagioli-158222109/
I suoi seguaci si chiamavano “fagiolini”, che un po’ ricorda i “sorcini” fan di Renato Zero. Lui, Massimo Fagioli, era il guru, lo psichiatra che aveva rifiutato Freud dicendo che le sue teorie erano “fregnacce”, quello che flirtava con Fausto Bertinotti e che parlava di rivoluzione mettendo insieme la sinistra e le malattie mentali, la rivoluzione e l’interpretazione dei sogni. Parlava lentamente, ipnoticamente, colorando il linguaggio specialistico e sofisticato con termini a volte grevi. Personaggio e studioso controverso, fondatore di una scuola di psicoanalisi antifreudiana si era duramente scontrato con la Società italiana di psicoanalisi. Irrituale anche nel look: camicie e bretelle colorate, capelli candidi arruffati, barba incolta da saggio socratico. Le sue sedute di analisi collettiva nello studio trasteverino erano frequentatissime. L’ingresso era libero e arrivavano fiumi di persone, tra cui molti semplici curiosi. In realtà Fagioli aveva alle spalle un curriculum serio prima di diventare un santone pop “consigliere” di politici e intellettuali.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2017/02/13/news/morto_massimo_fagioli-158222109/
MORTO MASSIMO FAGIOLI, PSICHIATRA DELL’ANALISI COLLETTIVA. IL RICORDO DI BELLOCCHIO: «MI HA SALVATO LA VITA». Il regista: «Quello che ha pensato, ha scritto, ha fatto prima o poi si imporranno, anche se questo riconoscimento varrà per i sopravvissuti e per le generazioni future». Quel rapporto con Bertinotti che si chiuse bruscamente nel 2009
di Paolo Conti, corriere.it, 13 febbraio 2017
Il telefono squilla, il regista Marco Bellocchio risponde subito. Ha appena saputo della scomparsa di Massimo Fagioli, neuropsichiatra, personaggio complesso e controverso, teorico dell’analisi collettiva e a lungo amico del regista. Bellocchio ha appena preparato una riflessione in cui ammette che lo psicoanalista scomparso gli ha «salvato la vita».
Chiede che le sue parole vengano riportate così come le ha scritte. Eccole: «La morte di Massimo Fagioli non è una tragedia umana perché tutti dobbiamo morire (a meno che si consideri ogni morte una tragedia e non un evento naturale soprattutto quando non è traumatica).È un po’ una beffa perché la cultura dominante ostinatamente ha tentato di soffocare, negare, frammentare la sua teoria e la sua straordinaria capacità di curare la malattia mentale (cura individuale prima, e poi collettiva). Mi ha salvato la vita nonostante i contrasti degli ultimi anni. Quello che ha pensato, ha scritto, ha fatto prima o poi si imporranno, anche se questo riconoscimento varrà per i sopravvissuti e per le generazioni future poiché Massimo Fagioli non credeva nell’aldilà e perciò non ne avrà alcuna gratificazione personale».
Segue qui:
http://www.corriere.it/cultura/17_febbraio_13/morto-massimo-fagioli-ricordo-regista-bellocchio-bc42677c-f20b-11e6-976e-993da0ec45b6.shtml
Il telefono squilla, il regista Marco Bellocchio risponde subito. Ha appena saputo della scomparsa di Massimo Fagioli, neuropsichiatra, personaggio complesso e controverso, teorico dell’analisi collettiva e a lungo amico del regista. Bellocchio ha appena preparato una riflessione in cui ammette che lo psicoanalista scomparso gli ha «salvato la vita».
Chiede che le sue parole vengano riportate così come le ha scritte. Eccole: «La morte di Massimo Fagioli non è una tragedia umana perché tutti dobbiamo morire (a meno che si consideri ogni morte una tragedia e non un evento naturale soprattutto quando non è traumatica).È un po’ una beffa perché la cultura dominante ostinatamente ha tentato di soffocare, negare, frammentare la sua teoria e la sua straordinaria capacità di curare la malattia mentale (cura individuale prima, e poi collettiva). Mi ha salvato la vita nonostante i contrasti degli ultimi anni. Quello che ha pensato, ha scritto, ha fatto prima o poi si imporranno, anche se questo riconoscimento varrà per i sopravvissuti e per le generazioni future poiché Massimo Fagioli non credeva nell’aldilà e perciò non ne avrà alcuna gratificazione personale».
Segue qui:
http://www.corriere.it/cultura/17_febbraio_13/morto-massimo-fagioli-ricordo-regista-bellocchio-bc42677c-f20b-11e6-976e-993da0ec45b6.shtml
È MORTO LO PSICHIATRA E PSICOANALISTA MASSIMO FAGIOLI, COLLABORATORE DELLA RIVISTA “LEFT”
di Redazione, ilpost.it, 13 febbraio 2017
È morto lo psichiatra e psicoanalista Massimo Fagioli: era un medico specializzato in neuropsichiatria che aveva fondato una scuola di psicoanalisi antifreudiana. Fagioli era considerato vicino agli ambienti di sinistra e per qualche anno il suo nome venne associato a quello di Fausto Bertinotti, ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista ed ex presidente della Camera dei deputati (a lungo, più in generale, Fagioli era stato raccontato dalla stampa come “consigliere” e “guru” di persone legate in qualche modo alla sinistra). Nonostante il loro successo, le teorie psicoanalitiche di Fagioli e in particolare le sue posizioni sull’omosessualità sono state molto contestate dagli altri psicoanalisti, al punto da portare a uno scontro con la Società italiana di Psicoanalisi e alla successiva radiazione. Fagioli era anche uno dei fondatori della casa editrice L’asino d’oro e della rivista settimanale Left, per cui scriveva la rubrica Trasformazione. Aveva 85 anni.
http://www.ilpost.it/2017/02/13/morto-massimo-fagioli/
È morto lo psichiatra e psicoanalista Massimo Fagioli: era un medico specializzato in neuropsichiatria che aveva fondato una scuola di psicoanalisi antifreudiana. Fagioli era considerato vicino agli ambienti di sinistra e per qualche anno il suo nome venne associato a quello di Fausto Bertinotti, ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista ed ex presidente della Camera dei deputati (a lungo, più in generale, Fagioli era stato raccontato dalla stampa come “consigliere” e “guru” di persone legate in qualche modo alla sinistra). Nonostante il loro successo, le teorie psicoanalitiche di Fagioli e in particolare le sue posizioni sull’omosessualità sono state molto contestate dagli altri psicoanalisti, al punto da portare a uno scontro con la Società italiana di Psicoanalisi e alla successiva radiazione. Fagioli era anche uno dei fondatori della casa editrice L’asino d’oro e della rivista settimanale Left, per cui scriveva la rubrica Trasformazione. Aveva 85 anni.
http://www.ilpost.it/2017/02/13/morto-massimo-fagioli/
LO PSICHIATRA DA ANALISI, VITA SENZA FRENI DI LACAN. In macchina non rallentava mai, camminava sotto il solleone. Nuotava nudo, anche al gelo
di Barbieri, ilgiornale.it, 14 febbraio 2017
Pierre Goldman, esponente dell’estrema sinistra francese e rapinatore famoso negli anni Settanta, «aveva in animo di ricattare Lacan». Poi però cambiò idea. «Era rimasto disarmato alla vista dell’uomo dai capelli bianchi che scendeva le scale del numero 5 di rue de Lille, tutto assorto nella sua riflessione». Risultato: «L’austera maestà del pensatore fermò il suo gesto». A raccontare l’episodio è Catherine Millot, una signora francese che oggi ha l’età che aveva Lacan quando era il suo professore all’università; età a cui poi divenne il suo psicanalista, il suo mentore e il suo amante, fino alla morte (nel 1981). Jacques Lacan era nato nel 1901 e, all’epoca in cui Millot lo incontrò e poi lo frequentò, cioè dal 1971 in avanti, era ormai da tempo il guru della psicanalisi di Francia. Insomma un mito, austerità e capelli bianchi, riflessione e clientela vip. Intesi come pazienti, con i quali aveva il suo metodo: per esempio li analizzava in pubblico, davanti ai suoi studenti. Non lasciava illusioni: «Dopo che il malato era uscito, non esitava ad affermare che esso era fottuto. D’altronde, capitava anche che lo dicesse al paziente stesso, il che aveva l’effetto sorprendente di sollevarlo».
Pare comunque che le sedute funzionassero, almeno per l’innamorata e giovane Millot, la quale dopo otto anni arrivò alla «grande svolta terapeutica»: «Il fondo d’ansia che mi abitava da sempre fu come spazzato via». C’è solo il dettaglio che la guarigione comportò la separazione dallo stesso Lacan, perché Catherine capì di volere un figlio: «Per me fu una lacerazione, per lui un terremoto». Continuò ad andarlo a trovare ogni giorno, per gli ultimi «due anni dolorosi», ma non dormì più da lui. Sarà anche per questa serenità, per questa «crudeltà» (parole sue) da lei stessa compiuta, e non subita, che Catherine Millot racconta la sua Vita con Lacan, novantasette pagine di ricordi e aneddoti, molti divertentissimi (appena pubblicato da Raffaello Cortina editore), «come un appuntamento da onorare, un modo di ritrovarlo».
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/psichiatra-analisi-vita-senza-freni-lacan-1363840.html
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/rulliamo-lacan-vita-senza-freni-jacques-lacan-guru-141458.htm
Pierre Goldman, esponente dell’estrema sinistra francese e rapinatore famoso negli anni Settanta, «aveva in animo di ricattare Lacan». Poi però cambiò idea. «Era rimasto disarmato alla vista dell’uomo dai capelli bianchi che scendeva le scale del numero 5 di rue de Lille, tutto assorto nella sua riflessione». Risultato: «L’austera maestà del pensatore fermò il suo gesto». A raccontare l’episodio è Catherine Millot, una signora francese che oggi ha l’età che aveva Lacan quando era il suo professore all’università; età a cui poi divenne il suo psicanalista, il suo mentore e il suo amante, fino alla morte (nel 1981). Jacques Lacan era nato nel 1901 e, all’epoca in cui Millot lo incontrò e poi lo frequentò, cioè dal 1971 in avanti, era ormai da tempo il guru della psicanalisi di Francia. Insomma un mito, austerità e capelli bianchi, riflessione e clientela vip. Intesi come pazienti, con i quali aveva il suo metodo: per esempio li analizzava in pubblico, davanti ai suoi studenti. Non lasciava illusioni: «Dopo che il malato era uscito, non esitava ad affermare che esso era fottuto. D’altronde, capitava anche che lo dicesse al paziente stesso, il che aveva l’effetto sorprendente di sollevarlo».
Pare comunque che le sedute funzionassero, almeno per l’innamorata e giovane Millot, la quale dopo otto anni arrivò alla «grande svolta terapeutica»: «Il fondo d’ansia che mi abitava da sempre fu come spazzato via». C’è solo il dettaglio che la guarigione comportò la separazione dallo stesso Lacan, perché Catherine capì di volere un figlio: «Per me fu una lacerazione, per lui un terremoto». Continuò ad andarlo a trovare ogni giorno, per gli ultimi «due anni dolorosi», ma non dormì più da lui. Sarà anche per questa serenità, per questa «crudeltà» (parole sue) da lei stessa compiuta, e non subita, che Catherine Millot racconta la sua Vita con Lacan, novantasette pagine di ricordi e aneddoti, molti divertentissimi (appena pubblicato da Raffaello Cortina editore), «come un appuntamento da onorare, un modo di ritrovarlo».
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/psichiatra-analisi-vita-senza-freni-lacan-1363840.html
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/rulliamo-lacan-vita-senza-freni-jacques-lacan-guru-141458.htm
IL SINTOMO DI LACAN
di Federico Leoni, leparoleelecose.it, 14 febbraio 2017
Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato di buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e fascinose. E c’è il suo insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica servo-padrone all’algida eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto a piccolo. Infine c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice, di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore in amore. Quei concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella loro tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri, accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e silenzioso, il tragitto di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E anche per resistere a ogni moda.
Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti. Il soggetto, il desiderio, l’inconscio strutturato come un linguaggio. Dalla più alta e complessa versione di questa lettura, quella di Massimo Recalcati, alla più corriva semplificazione di questa stessa lettura, si tratta di un paradigma che per forza intrinseca, chiarezza esemplare, capacità di dialogare con le inquietudini di un’epoca, si è imposto come uno standard, capace di formare un’intera generazione di lettori di Lacan, che hanno anzitutto conosciuto Lacan in questa prospettiva oggi condivisa e prossima a diventare una koinè. Mentre il libro di Pagliardini è fuori moda, o almeno è fuori da questa moda, è fuori da questa koinè. È il documento di un lacanismo austero, incurante delle seduzioni dell’attualità culturale, testardamente incentrato su un chiodo fisso che è quello indicato dal titolo e soprattutto dal sottotitolo del volume: Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il Reale. Qui la batteria di concetti chiave è tutt’altra: il godimento, il significante, il Reale, appunto.
I lacaniani in genere lo scrivono con la maiuscola, il Reale. Lo fanno per distinguere il Reale dalla realtà, che in fondo è qualcosa di convenuto e intersoggettivamente valido, e cioè di validato attraverso i discorsi e le immagini ed eventualmente le misurazioni o le sperimentazioni che svolgiamo intorno a qualcosa che catturiamo con quelle strategie, e insieme perdiamo proprio a causa di quelle strategie. Non che ce ne siano altre. Il Reale è tutto quanto non trova posto nelle immagini che ce ne facciamo e nei discorsi che ci costruiamo intorno. Il Reale è uno dei famosi tre registri di cui parla Lacan, insieme all’immaginario e al simbolico. Ma è facile vedere che i registri dell’immaginario e del simbolico sono appunto strumenti di cattura, registrazione, stabilizzazione, trasmissione del Reale. E che quindi il Reale non è affatto un registro, non è un dispositivo di cattura o di trasmissione, ma è ciò su cui ogni dispositivo di cattura e di trasmissione fa presa. È ciò su cui fa presa, e insieme ciò che resta imprendibile. È ciò che resta integralmente catturato e tradotto nel sistema delle immagini e nel sistema della lingua, e insieme è ciò che resta integralmente intraducibile in quei sistemi e che proprio per questo è disponibile a più traduzioni, a più registrazioni. Ancora. È ciò che non trova posto nell’immaginario o nel simbolico, ciò che resta senza immagine e senza nome, ciò che sperimentiamo senza poterlo catturare e registrare, ciò che subiamo come una potenza estranea e indefinibile, vicinissima e però consegnata a una distanza siderale. Ed è ciò che incontriamo come una promessa indecifrabile, come l’indizio disturbante di una felicità inaggirabile, come il luogo in cui stare.
http://www.leparoleelecose.it/?p=26229
Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato di buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e fascinose. E c’è il suo insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica servo-padrone all’algida eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto a piccolo. Infine c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice, di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore in amore. Quei concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella loro tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri, accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e silenzioso, il tragitto di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E anche per resistere a ogni moda.
Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti. Il soggetto, il desiderio, l’inconscio strutturato come un linguaggio. Dalla più alta e complessa versione di questa lettura, quella di Massimo Recalcati, alla più corriva semplificazione di questa stessa lettura, si tratta di un paradigma che per forza intrinseca, chiarezza esemplare, capacità di dialogare con le inquietudini di un’epoca, si è imposto come uno standard, capace di formare un’intera generazione di lettori di Lacan, che hanno anzitutto conosciuto Lacan in questa prospettiva oggi condivisa e prossima a diventare una koinè. Mentre il libro di Pagliardini è fuori moda, o almeno è fuori da questa moda, è fuori da questa koinè. È il documento di un lacanismo austero, incurante delle seduzioni dell’attualità culturale, testardamente incentrato su un chiodo fisso che è quello indicato dal titolo e soprattutto dal sottotitolo del volume: Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il Reale. Qui la batteria di concetti chiave è tutt’altra: il godimento, il significante, il Reale, appunto.
I lacaniani in genere lo scrivono con la maiuscola, il Reale. Lo fanno per distinguere il Reale dalla realtà, che in fondo è qualcosa di convenuto e intersoggettivamente valido, e cioè di validato attraverso i discorsi e le immagini ed eventualmente le misurazioni o le sperimentazioni che svolgiamo intorno a qualcosa che catturiamo con quelle strategie, e insieme perdiamo proprio a causa di quelle strategie. Non che ce ne siano altre. Il Reale è tutto quanto non trova posto nelle immagini che ce ne facciamo e nei discorsi che ci costruiamo intorno. Il Reale è uno dei famosi tre registri di cui parla Lacan, insieme all’immaginario e al simbolico. Ma è facile vedere che i registri dell’immaginario e del simbolico sono appunto strumenti di cattura, registrazione, stabilizzazione, trasmissione del Reale. E che quindi il Reale non è affatto un registro, non è un dispositivo di cattura o di trasmissione, ma è ciò su cui ogni dispositivo di cattura e di trasmissione fa presa. È ciò su cui fa presa, e insieme ciò che resta imprendibile. È ciò che resta integralmente catturato e tradotto nel sistema delle immagini e nel sistema della lingua, e insieme è ciò che resta integralmente intraducibile in quei sistemi e che proprio per questo è disponibile a più traduzioni, a più registrazioni. Ancora. È ciò che non trova posto nell’immaginario o nel simbolico, ciò che resta senza immagine e senza nome, ciò che sperimentiamo senza poterlo catturare e registrare, ciò che subiamo come una potenza estranea e indefinibile, vicinissima e però consegnata a una distanza siderale. Ed è ciò che incontriamo come una promessa indecifrabile, come l’indizio disturbante di una felicità inaggirabile, come il luogo in cui stare.
http://www.leparoleelecose.it/?p=26229
TELEMACO? MA NON SCHERZIAMO. NOTE SU UNA FIGURA ANALITICA CONTRADDETTA DAI FATTI
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 14 febbraio 2017
Continuare ad osservare l’attuale scenario politico italiano attraverso la lente analitico-edipica del mancato passaggio padri-figli, ingenera dei fraintendimenti, primo tra i quali quello di intendere il fenomeno chiamato ‘renzismo’ come un elemento davvero nuovo. Sana interpunzione vitale in un sistema obsoleto, incapace di generare eredi, preda di pulsioni cannibalesche da parte dei padri intenti a fagocitare i pargoli. Suona bene, va riconsciuto, ma non regge alla prova dei fatti. E manco al vaglio teorico, a ben guardare.
Se non fossero bastati i recenti sviluppi referendari per chiarire questo malinteso, che almeno le ultime mosse, e un poco di storia, possano chiarire che insistere in questa lettura è una forzatura estrema. Vi narrano del Telemaco, colui il quale salta il fossato dei padri immobili e avvinghiati al potere, per segnare una strada nuova. Un ‘innovatore, un Céline del legame sociale, un Platini alla corte del catenacciaro Trapattoni. Una storia, questa, nella quale si favoleggia di una generazione arcigna che ha pensato di fermare il futuro (quello che prima o poi torna), così che ‘muoia Sansone con tutti i Filistei’, messa alla striglia da chi, in modo legittimo e cristallino, reclama il suo spazio e la sua eredità. Giustamente irrequieto per quel malloppo che papà non vuole mollare. Insomma, un giusto investito dalla missione di portare ‘il bene’.
E mentre questa narrazione va in onda, sottotraccia si scorge un agire perverso che, fregandosene delle regole alle quali tutti siamo chiamati a rispondere, tentando di forzarle in ogni modo, saltabecca mediaticamante da un luogo all’altro, garantendosi uno stato di perenne intoccabilità. Telemaco evita e non risponde. Piu’ un SilverSurfer della politica che non l’erede designato. Non se la sente mica troppo di pagare il fio del tubo rotto davanti alla riunione condominiale.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/2017/02/14/telemaco-ma-non-scherziamo-note-su-una-figura-analitica-contraddetta-dai-fatti/4563/
Continuare ad osservare l’attuale scenario politico italiano attraverso la lente analitico-edipica del mancato passaggio padri-figli, ingenera dei fraintendimenti, primo tra i quali quello di intendere il fenomeno chiamato ‘renzismo’ come un elemento davvero nuovo. Sana interpunzione vitale in un sistema obsoleto, incapace di generare eredi, preda di pulsioni cannibalesche da parte dei padri intenti a fagocitare i pargoli. Suona bene, va riconsciuto, ma non regge alla prova dei fatti. E manco al vaglio teorico, a ben guardare.
Se non fossero bastati i recenti sviluppi referendari per chiarire questo malinteso, che almeno le ultime mosse, e un poco di storia, possano chiarire che insistere in questa lettura è una forzatura estrema. Vi narrano del Telemaco, colui il quale salta il fossato dei padri immobili e avvinghiati al potere, per segnare una strada nuova. Un ‘innovatore, un Céline del legame sociale, un Platini alla corte del catenacciaro Trapattoni. Una storia, questa, nella quale si favoleggia di una generazione arcigna che ha pensato di fermare il futuro (quello che prima o poi torna), così che ‘muoia Sansone con tutti i Filistei’, messa alla striglia da chi, in modo legittimo e cristallino, reclama il suo spazio e la sua eredità. Giustamente irrequieto per quel malloppo che papà non vuole mollare. Insomma, un giusto investito dalla missione di portare ‘il bene’.
E mentre questa narrazione va in onda, sottotraccia si scorge un agire perverso che, fregandosene delle regole alle quali tutti siamo chiamati a rispondere, tentando di forzarle in ogni modo, saltabecca mediaticamante da un luogo all’altro, garantendosi uno stato di perenne intoccabilità. Telemaco evita e non risponde. Piu’ un SilverSurfer della politica che non l’erede designato. Non se la sente mica troppo di pagare il fio del tubo rotto davanti alla riunione condominiale.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/2017/02/14/telemaco-ma-non-scherziamo-note-su-una-figura-analitica-contraddetta-dai-fatti/4563/
ADDIO, DOTTOR FREUD. LA PSICANALISI DEL FUTURO SI FA VIA MESSAGGIO. “Ho cominciato ad avere questa idea al college, in un periodo di ansia” dice Mohamed al Kadi, 24 anni, startupper saudita a San Francisco. Il suo progetto, Sibly, ha già ricevuto interesse e capitali da vari fondi di investimento
di Michele Masneri, ilfoglio.it, 16 febbraio 2017
Scordiamoci il divano e il dottor Freud. La psicanalisi si fa al telefono, per messaggio, e senza psicanalisti. “Ho cominciato ad avere questa idea al college quando stavo attraversando un periodo di ansia” dice al Foglio Mohamed al Kadi, 24 anni, raro esemplare di startupper saudita di stanza a San Francisco. Ci accoglie una mattina in un grande co-working incubatore in cui alligna la sua startup e app, che si chiama Sibly e propone, già in funzione, una terapia tramite chatbot cioè via messaggio. “In Arabia Saudita nessuno parla di terapia, counseling, salute mentale” dice Mohamed detto Moe. “Qui ho cominciato a capire quanto è importante. Allo stesso tempo però mi sono reso conto che la maggior parte delle persone non vi ha accesso perché costosa, richiede una struttura, c’è lo stigma sociale, bisogna ammettere che si ha un problema, bisogna chiedere agli amici se conoscono qualcuno bravo”.
Così l’idea, aprire la terapia a tutti. E al telefono. “In totale siamo tre persone, io, la mia cofounder Paula, che è psicologa, ed era direttrice di un progetto contro le dipendenze in un grande istituto di sanità pubblica. Poi c’è Omar, che è il Cto, chief technology officer. Poi ci sono una ventina di coach, di terapeuti che non sono terapeuti”. Come li trovate? “Prima tra i nostri amici e contatti. Persone con una certa sensibilità, che abbiano fatto magari volontariato. Ma non sono psicologi”. Come non sono psicologi? “No, non ce n’è bisogno, noi li formiamo per dare la migliore esperienza di counseling possibile. Inoltre formare degli psicologi è più difficile che non delle persone senza esperienza specifica”. Sibly ha già ricevuto interesse e capitali da parte di vari fondi di investimento.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/tech-and-the-city/2017/02/16/news/addio-caro-dottor-freud-la-psicanalisi-del-futuro-si-fa-tramite-chatbot-cioe-via-messaggio-120763/
Scordiamoci il divano e il dottor Freud. La psicanalisi si fa al telefono, per messaggio, e senza psicanalisti. “Ho cominciato ad avere questa idea al college quando stavo attraversando un periodo di ansia” dice al Foglio Mohamed al Kadi, 24 anni, raro esemplare di startupper saudita di stanza a San Francisco. Ci accoglie una mattina in un grande co-working incubatore in cui alligna la sua startup e app, che si chiama Sibly e propone, già in funzione, una terapia tramite chatbot cioè via messaggio. “In Arabia Saudita nessuno parla di terapia, counseling, salute mentale” dice Mohamed detto Moe. “Qui ho cominciato a capire quanto è importante. Allo stesso tempo però mi sono reso conto che la maggior parte delle persone non vi ha accesso perché costosa, richiede una struttura, c’è lo stigma sociale, bisogna ammettere che si ha un problema, bisogna chiedere agli amici se conoscono qualcuno bravo”.
Così l’idea, aprire la terapia a tutti. E al telefono. “In totale siamo tre persone, io, la mia cofounder Paula, che è psicologa, ed era direttrice di un progetto contro le dipendenze in un grande istituto di sanità pubblica. Poi c’è Omar, che è il Cto, chief technology officer. Poi ci sono una ventina di coach, di terapeuti che non sono terapeuti”. Come li trovate? “Prima tra i nostri amici e contatti. Persone con una certa sensibilità, che abbiano fatto magari volontariato. Ma non sono psicologi”. Come non sono psicologi? “No, non ce n’è bisogno, noi li formiamo per dare la migliore esperienza di counseling possibile. Inoltre formare degli psicologi è più difficile che non delle persone senza esperienza specifica”. Sibly ha già ricevuto interesse e capitali da parte di vari fondi di investimento.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/tech-and-the-city/2017/02/16/news/addio-caro-dottor-freud-la-psicanalisi-del-futuro-si-fa-tramite-chatbot-cioe-via-messaggio-120763/
RIFLESSIONI DOPO LAVAGNA: L’EVAPORAZIONE DEL PADRE. Oggi anche la società è in preda a un’inquietante deriva. Se un tempo le istanze sociali imponevano di fare i conti con la realtà oggi il rapporto con gli altri è in secondo piano
di Franco Brevini, brescia.corriere.it, 17 febbraio 2017
Fra le tante cose dette in margine alla tremenda storia della madre di Lavagna e del figlio suicida, una mi pare meriti particolare attenzione, perché credo colga il nodo del problema: tutto nascerebbe da una carenza del ruolo paterno. Già alla fine degli anni Sessanta lo psicanalista francese Jacques Lacan aveva denunciato il «declino sociale dell’imago paterna». La deriva dell’io sarebbe la conseguenza dell’«evaporazione del padre», cioè dell’indebolimento progressivo e poi dell’eclisse dell’autorità paterna, che è stata tradizionalmente disciplinare, conflittuale, promotrice del principio di realtà. Il risultato di queste dimissioni dalla paternità e del conseguente incrinarsi del meccanismo edipico sarebbe una crescente fragilità dell’identità dei figli e una tendenziale «neotenia psichica».
Segue qui:
http://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/17_febbraio_18/riflessioni-lavagna-evaporazione-padre-492ecf12-f5b9-11e6-a891-35892eecc6d0.shtml
Fra le tante cose dette in margine alla tremenda storia della madre di Lavagna e del figlio suicida, una mi pare meriti particolare attenzione, perché credo colga il nodo del problema: tutto nascerebbe da una carenza del ruolo paterno. Già alla fine degli anni Sessanta lo psicanalista francese Jacques Lacan aveva denunciato il «declino sociale dell’imago paterna». La deriva dell’io sarebbe la conseguenza dell’«evaporazione del padre», cioè dell’indebolimento progressivo e poi dell’eclisse dell’autorità paterna, che è stata tradizionalmente disciplinare, conflittuale, promotrice del principio di realtà. Il risultato di queste dimissioni dalla paternità e del conseguente incrinarsi del meccanismo edipico sarebbe una crescente fragilità dell’identità dei figli e una tendenziale «neotenia psichica».
Segue qui:
http://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/17_febbraio_18/riflessioni-lavagna-evaporazione-padre-492ecf12-f5b9-11e6-a891-35892eecc6d0.shtml
RISÈ: LA MADRE DEL RAGAZZO NON HA SBAGLIATO. I SOCIAL? NON UCCIDONO, LA DROGA SÌ
di Paolo Vites, ilsussidiario.net, 17 febbraio 2017
“Facciamo gruppo: guardi, io a casa non parlo dei fatti miei, ma con gli amici mi sento bene, a loro confido tutto, sono loro la mia famiglia”. E’ uno dei tanti commenti raccolti fra gli amici e i compagni di scuola del ragazzo di Lavagna suicidatosi perché scoperto con dell’hascish. “Io con i miei mangio e dormo, poi arrivederci a domani” dice un altro. Che si crei un muro tra genitori e figli quando questi toccano l’età dell’adolescenza è un fatto naturale, anche positivo: è il momento in cui ci si dovrebbe staccare per sempre dal cordone ombelicale genitoriale. Il genitore che non capisce questo rischia di crescere personalità psicologicamente handicappate. Oggi però c’è qualcosa di cattivo, di subdolo, che si è infilato in questo normale corso della vita: la droga, ci dice il professor Claudio Risè, psicologo di fama, “di cui nessuno, ragazzi e genitori, sanno il reale contenuto nocivo. E quando non c’è conoscenza è difficile che si trovi un terreno comune di dialogo tra giovani e adulti”. Professore, la mancanza di dialogo in famiglia non è una novità, è sempre esistita, una volta era addirittura normale che un padre non giocasse con i propri figli. Oggi però si assiste a una situazione che conduce a drammi impensabili, come mai secondo lei?
Il problema della mancanza di dialogo esiste da entrambi i lati, quello dei ragazzi e quello dei genitori. I ragazzi non si raccontano in casa, ma anche i genitori fanno una grande fatica a impegnarsi con loro, a scambiare esperienze, a trovare modi di stare con loro.
Perché secondo lei? Che ruolo gioca l’uso delle droghe cosiddette leggere? E’ un muro in più che divide?
L’uso della cannabis è una delle grandi zone in cui i ragazzi fanno fatica a raccontarsi, ma anche gli adulti. C’è una mancanza di informazione impressionante da parte di tutti, che rende impossibile qualunque forma di dialogo.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/2/17/SUICIDIO-DI-LAVAGNA-Rise-la-madre-del-ragazzo-non-ha-sbagliato-I-social-Non-uccidono-la-droga-si/749051/
“Facciamo gruppo: guardi, io a casa non parlo dei fatti miei, ma con gli amici mi sento bene, a loro confido tutto, sono loro la mia famiglia”. E’ uno dei tanti commenti raccolti fra gli amici e i compagni di scuola del ragazzo di Lavagna suicidatosi perché scoperto con dell’hascish. “Io con i miei mangio e dormo, poi arrivederci a domani” dice un altro. Che si crei un muro tra genitori e figli quando questi toccano l’età dell’adolescenza è un fatto naturale, anche positivo: è il momento in cui ci si dovrebbe staccare per sempre dal cordone ombelicale genitoriale. Il genitore che non capisce questo rischia di crescere personalità psicologicamente handicappate. Oggi però c’è qualcosa di cattivo, di subdolo, che si è infilato in questo normale corso della vita: la droga, ci dice il professor Claudio Risè, psicologo di fama, “di cui nessuno, ragazzi e genitori, sanno il reale contenuto nocivo. E quando non c’è conoscenza è difficile che si trovi un terreno comune di dialogo tra giovani e adulti”. Professore, la mancanza di dialogo in famiglia non è una novità, è sempre esistita, una volta era addirittura normale che un padre non giocasse con i propri figli. Oggi però si assiste a una situazione che conduce a drammi impensabili, come mai secondo lei?
Il problema della mancanza di dialogo esiste da entrambi i lati, quello dei ragazzi e quello dei genitori. I ragazzi non si raccontano in casa, ma anche i genitori fanno una grande fatica a impegnarsi con loro, a scambiare esperienze, a trovare modi di stare con loro.
Perché secondo lei? Che ruolo gioca l’uso delle droghe cosiddette leggere? E’ un muro in più che divide?
L’uso della cannabis è una delle grandi zone in cui i ragazzi fanno fatica a raccontarsi, ma anche gli adulti. C’è una mancanza di informazione impressionante da parte di tutti, che rende impossibile qualunque forma di dialogo.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/2/17/SUICIDIO-DI-LAVAGNA-Rise-la-madre-del-ragazzo-non-ha-sbagliato-I-social-Non-uccidono-la-droga-si/749051/
IL CEMENTO DENTRO DI NOI
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 18 febbraio 2017
Mentre Susanna Camusso denunciava la crescente diseguaglianza in cui sprofondiamo, è diventata palese la posta in gioco a Roma: la colata di cemento che sta per abbattersi sulla sua periferia. Gli speculatori parlano di politica industriale. Sostenuti dal fatto che per i nostri governanti non è affatto chiaro il rapporto tra industria e speculazione edilizia (a Roma come a Messina). L’industria ha, storicamente, una natura ambigua, svolgendo contemporaneamente due funzioni opposte: produrre oggetti d’uso; riprodurre se stessa come sistema di profitto e di potere. La produzione di oggetti d’uso per la soddisfazione di bisogni (eliminare tensioni psicofisiche sgradevoli) e di desideri (appagare esigenze culturali e estetiche, espressione dell’eros per la vita) è tanto più appropriata quanto più è in accordo con il principio di uguaglianza. L’uso degli oggetti richiede il rispetto per chi li ha prodotti e per coloro con cui ci mettono in relazione quando li usiamo. Richiede, inoltre, la cura degli oggetti, un’attenzione curiosa e sensibile verso le loro caratteristiche e le loro potenzialità d’uso, come pure la cura nei confronti di se stessi attraverso la personalizzazione del rapporto con essi. Non si può prendere cura di sé senza un’attenzione nei confronti delle cose usate e non si riesce a coltivare questa attenzione senza curare le proprie relazioni con gli altri.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6650
Mentre Susanna Camusso denunciava la crescente diseguaglianza in cui sprofondiamo, è diventata palese la posta in gioco a Roma: la colata di cemento che sta per abbattersi sulla sua periferia. Gli speculatori parlano di politica industriale. Sostenuti dal fatto che per i nostri governanti non è affatto chiaro il rapporto tra industria e speculazione edilizia (a Roma come a Messina). L’industria ha, storicamente, una natura ambigua, svolgendo contemporaneamente due funzioni opposte: produrre oggetti d’uso; riprodurre se stessa come sistema di profitto e di potere. La produzione di oggetti d’uso per la soddisfazione di bisogni (eliminare tensioni psicofisiche sgradevoli) e di desideri (appagare esigenze culturali e estetiche, espressione dell’eros per la vita) è tanto più appropriata quanto più è in accordo con il principio di uguaglianza. L’uso degli oggetti richiede il rispetto per chi li ha prodotti e per coloro con cui ci mettono in relazione quando li usiamo. Richiede, inoltre, la cura degli oggetti, un’attenzione curiosa e sensibile verso le loro caratteristiche e le loro potenzialità d’uso, come pure la cura nei confronti di se stessi attraverso la personalizzazione del rapporto con essi. Non si può prendere cura di sé senza un’attenzione nei confronti delle cose usate e non si riesce a coltivare questa attenzione senza curare le proprie relazioni con gli altri.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6650
L CORPO DEI NATIVI DIGITALI. Nell’era digitale il corpo non è solo un involucro, ma è l’aspetto esterno dell’«Io»
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 19 febbraio 2017
I nuovi giovani, quelli digitali, in rete si cercano, si trovano, si incantano. O meglio si mostrano con mille volti o per lo meno con quegli Avatar che si possono impersonare. Il corpo è diventato un’immagine da postare, un’icona da mostrare che soddisfa il diffuso narcisismo dei tempi. Purtroppo gli adolescenti non si raccontano più. La narrazione di se stessi agli altri non appartiene alla tecnologia avanzata della comunicazione, dove più che parlarsi si «cinguetta». Twittare è diventato un verbo che ha avuto grande successo ma ha ridotto la comunicazione a 140 caratteri. Troppo pochi per raccontare di sé e delle proprie emozioni e tentare di interrompere la sofferenza e la paura, l’apatia e la timidezza che in adolescenza sono di casa.
Un tempo c’erano le lettere che ti aiutavano a esprimere un cumulo di sentimenti soffocati che nascevano nel corpo e che non sapevi dire. Scriverne poteva permettere di parlarne e alleggerirsi e qualche volta addolcirne il sapore acre con la penna.
Segue qui:
https://www.ladigetto.it/permalink/62621.html
I nuovi giovani, quelli digitali, in rete si cercano, si trovano, si incantano. O meglio si mostrano con mille volti o per lo meno con quegli Avatar che si possono impersonare. Il corpo è diventato un’immagine da postare, un’icona da mostrare che soddisfa il diffuso narcisismo dei tempi. Purtroppo gli adolescenti non si raccontano più. La narrazione di se stessi agli altri non appartiene alla tecnologia avanzata della comunicazione, dove più che parlarsi si «cinguetta». Twittare è diventato un verbo che ha avuto grande successo ma ha ridotto la comunicazione a 140 caratteri. Troppo pochi per raccontare di sé e delle proprie emozioni e tentare di interrompere la sofferenza e la paura, l’apatia e la timidezza che in adolescenza sono di casa.
Un tempo c’erano le lettere che ti aiutavano a esprimere un cumulo di sentimenti soffocati che nascevano nel corpo e che non sapevi dire. Scriverne poteva permettere di parlarne e alleggerirsi e qualche volta addolcirne il sapore acre con la penna.
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https://www.ladigetto.it/permalink/62621.html
Miracoli e scissioni
Basta con questa storia di stare insieme per la patria, quando ci si odia è meglio il divorzio
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 22 febbraio 2017
Premessa. Ci sono i cosiddetti gay, uno diverso dall’altro, sicchè Socrate non è Nureyev, e ci sono gli omosex, quelli che pensano di essere tutti uguali – omos – l’uno con l’altro, tutti figli dello stesso partito, e vorrebbero stare uniti, solo con qualche sfumatura di grigio o di rosso o di papavero. E invece no, è impossibile. Ciascuno differisce dall’altro, e fin da se stesso. D’Alema non è Renzi, mettetiamocelo bene in testa, e non è questione di giusto o ingiusto o bontà e cattiveria, D’Alema non è Renzi perché neppure Renzi è Renzi, tutto incessantemente trasmutando. Dio ci ha fatti diversi nei secoli e nei giorni, teniamone conto.
Tempo fa, forte della mia magia blu, invece di compiangere il povero Renzi ne decretai la vittoria, quale intravidi chiaramente nella sua sconfitta, che altro non era che il modo machiavellico di stanare i traditori per poi darli in pasto ai cani. Quel tempo è arrivavo, finalmente, e si spera che questa scissione si avveri che se no davvero è una gran rottura, ma di coglioni. Evviva il divorzio quando non se ne può fare a meno, quando l’odio ha superato ogni confine, perché non si tratta di ideologie eccetera, ma semplicemente di tirarsi un cazzotto, di spaccarsi il cranio, magari come nel film di Scorsese quando il grande Joe Pesci spappola la testa del suo sbeffeggiatore, con gran sollazzo dei cittadini spettatori, che questo altro non siamo, e vogliamo godercelo almeno questo, visto che paghiamo il biglietto, il bigliettone. La si smetta con questa storia di stare insieme a favore della patria, come lo si stesse a favore dei figli, qui non c’è nessun favore ma solo pestaggio allo stato puro.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/02/22/news/scisisone-pd-rossi-emiliano-speranza-meglio-dividersi-121651/
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 22 febbraio 2017
Premessa. Ci sono i cosiddetti gay, uno diverso dall’altro, sicchè Socrate non è Nureyev, e ci sono gli omosex, quelli che pensano di essere tutti uguali – omos – l’uno con l’altro, tutti figli dello stesso partito, e vorrebbero stare uniti, solo con qualche sfumatura di grigio o di rosso o di papavero. E invece no, è impossibile. Ciascuno differisce dall’altro, e fin da se stesso. D’Alema non è Renzi, mettetiamocelo bene in testa, e non è questione di giusto o ingiusto o bontà e cattiveria, D’Alema non è Renzi perché neppure Renzi è Renzi, tutto incessantemente trasmutando. Dio ci ha fatti diversi nei secoli e nei giorni, teniamone conto.
Tempo fa, forte della mia magia blu, invece di compiangere il povero Renzi ne decretai la vittoria, quale intravidi chiaramente nella sua sconfitta, che altro non era che il modo machiavellico di stanare i traditori per poi darli in pasto ai cani. Quel tempo è arrivavo, finalmente, e si spera che questa scissione si avveri che se no davvero è una gran rottura, ma di coglioni. Evviva il divorzio quando non se ne può fare a meno, quando l’odio ha superato ogni confine, perché non si tratta di ideologie eccetera, ma semplicemente di tirarsi un cazzotto, di spaccarsi il cranio, magari come nel film di Scorsese quando il grande Joe Pesci spappola la testa del suo sbeffeggiatore, con gran sollazzo dei cittadini spettatori, che questo altro non siamo, e vogliamo godercelo almeno questo, visto che paghiamo il biglietto, il bigliettone. La si smetta con questa storia di stare insieme a favore della patria, come lo si stesse a favore dei figli, qui non c’è nessun favore ma solo pestaggio allo stato puro.
Segue qui:
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SCISSIONE PD, QUEI DEM SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA. Ciò che sta avvenendo non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto quello di un lento logoramento non trattato nei tempi giusti. Laddove l’opera di mediazione incontra un limite invalicabile, cosa resta da fare?
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 22 febbraio 2017
Nelle letture politiche della scissione in corso nel Pd il coro sembra essere giustamente unanime: la scissione è il frutto di una irresponsabilità che coinvolge entrambi i contendenti. Con una penale per chi — Matteo Renzi — avrebbe avuto più mezzi per provare ad arrestarne il decorso. È indubbio che chi col cuore e con la ragione guarda a sinistra non può che sentirsi angosciato e smarrito. Gli psicoanalisti nel loro lavoro quotidiano si occupano continuamente di separazioni e, dunque, conoscono bene il dramma che le accompagna. Scompaginamento, incertezza per il futuro, trauma della perdita, vacillamento della propria identità, rottura col proprio passato. Ma la scissione del Pd non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto, come spesso accade nelle separazioni della vita individuale e di quella collettiva, quello di un lento logoramento che non è stato trattato nei tempi giusti.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/politica/2017/02/22/news/scissione_pd_quei_dem_sul_lettino_dello_psicanalista-158890834/
Nelle letture politiche della scissione in corso nel Pd il coro sembra essere giustamente unanime: la scissione è il frutto di una irresponsabilità che coinvolge entrambi i contendenti. Con una penale per chi — Matteo Renzi — avrebbe avuto più mezzi per provare ad arrestarne il decorso. È indubbio che chi col cuore e con la ragione guarda a sinistra non può che sentirsi angosciato e smarrito. Gli psicoanalisti nel loro lavoro quotidiano si occupano continuamente di separazioni e, dunque, conoscono bene il dramma che le accompagna. Scompaginamento, incertezza per il futuro, trauma della perdita, vacillamento della propria identità, rottura col proprio passato. Ma la scissione del Pd non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto, come spesso accade nelle separazioni della vita individuale e di quella collettiva, quello di un lento logoramento che non è stato trattato nei tempi giusti.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/politica/2017/02/22/news/scissione_pd_quei_dem_sul_lettino_dello_psicanalista-158890834/
IL SUICIDIO DI LAVAGNA: UN RAGAZZO MUORE NEL VUOTO
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto, 25 febbraio 2017
Un ragazzo si è gettato nel vuoto a Lavagna durante una perquisizione dei finanzieri nella sua casa. La perquisizione era stata ideata dalla madre, nella speranza di indurlo a desistere dall’uso di hashish. A distanza di due settimane, sedimentate le emozioni del momento, si può provare a contrastare il fatalismo che come un avvoltoio si è già impadronito della preda.
L’adolescenza è di per sé vulnerabile. Il più delle volte il suicidio arriva inaspettato, per la combinazione di una fragilità psichica (permanente o temporanea) e di un evento pressante. Può agire come detonatore una forte delusione che aggrava una pregressa ferita narcisistica, rendendola incontenibile. Spesso sono presenti un conflitto complicato con i genitori e una forte aggressività nei loro confronti che si introverte catastroficamente. La rabbia trova uno sbocco autolesionista nell’intenzione ambivalente di assolverli e di punirli al tempo stesso. Più in profondità cova la convinzione di poter esistere per gli altri solo per assenza, attraverso il senso di mancanza e di dolore prodotto in loro.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6654
Un ragazzo si è gettato nel vuoto a Lavagna durante una perquisizione dei finanzieri nella sua casa. La perquisizione era stata ideata dalla madre, nella speranza di indurlo a desistere dall’uso di hashish. A distanza di due settimane, sedimentate le emozioni del momento, si può provare a contrastare il fatalismo che come un avvoltoio si è già impadronito della preda.
L’adolescenza è di per sé vulnerabile. Il più delle volte il suicidio arriva inaspettato, per la combinazione di una fragilità psichica (permanente o temporanea) e di un evento pressante. Può agire come detonatore una forte delusione che aggrava una pregressa ferita narcisistica, rendendola incontenibile. Spesso sono presenti un conflitto complicato con i genitori e una forte aggressività nei loro confronti che si introverte catastroficamente. La rabbia trova uno sbocco autolesionista nell’intenzione ambivalente di assolverli e di punirli al tempo stesso. Più in profondità cova la convinzione di poter esistere per gli altri solo per assenza, attraverso il senso di mancanza e di dolore prodotto in loro.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6654
CROLLO A SINISTRA. MANCA IL LEADER “GRANDE PADRE”
di Karen Rubin, ilgiornale.it, 25 febbraio 2017
Per Massimo Recalcati, psicoanalista ed editorialista su la Repubblica, la scissione che si sta consumando all’interno del Pd, angosciando gli elettori che, come lui, con il cuore e la ragione guardano a sinistra, non ha il carattere improvviso del trauma, ma è un processo logorante che ha origini lontane. Cacciari riconduce i motivi della scissione all’inconciliabilità tra le due anime interne al partito, quella cattolica-sociale e quella socialista-comunista, troppo eterogenee perché stiano insieme. Questo escluderebbe una responsabilità diretta di Renzi che, sempre secondo lo psicoanalista, sarebbe inviso ai suoi detrattori perché rappresenterebbe la forza del cambiamento, fenomeno temuto dai comuni mortali e massima ispirazione per gli esperti della mente. Ogni terapeuta auspica per il suo paziente la capacità di reinventarsi in una situazione di vita migliore. Negli ultimi vent’anni, sostiene Recalcati, la sinistra, che oggi si oppone a Renzi non ha realizzato nulla, e il no alla riforma costituzionale, ambita dall’ex premier, sarebbe l’esempio lampante di una resistenza al cambiamento agognato. In politica però il mutamento spesso non è cosa buona, perché genera incertezza e instabilità.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/qui-e-ora-1368500.html
Per Massimo Recalcati, psicoanalista ed editorialista su la Repubblica, la scissione che si sta consumando all’interno del Pd, angosciando gli elettori che, come lui, con il cuore e la ragione guardano a sinistra, non ha il carattere improvviso del trauma, ma è un processo logorante che ha origini lontane. Cacciari riconduce i motivi della scissione all’inconciliabilità tra le due anime interne al partito, quella cattolica-sociale e quella socialista-comunista, troppo eterogenee perché stiano insieme. Questo escluderebbe una responsabilità diretta di Renzi che, sempre secondo lo psicoanalista, sarebbe inviso ai suoi detrattori perché rappresenterebbe la forza del cambiamento, fenomeno temuto dai comuni mortali e massima ispirazione per gli esperti della mente. Ogni terapeuta auspica per il suo paziente la capacità di reinventarsi in una situazione di vita migliore. Negli ultimi vent’anni, sostiene Recalcati, la sinistra, che oggi si oppone a Renzi non ha realizzato nulla, e il no alla riforma costituzionale, ambita dall’ex premier, sarebbe l’esempio lampante di una resistenza al cambiamento agognato. In politica però il mutamento spesso non è cosa buona, perché genera incertezza e instabilità.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/qui-e-ora-1368500.html
LA POLITICA AI TEMPI DEL ‘SOFFRO ERGO SUM'
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 25 febbraio 2017
Il sogno del masochista è quello di liberarsi della sua libertà. Essere uno straccio nelle mani dell’altro ci libera dal peso di ogni responsabilità. È quello che Erich Fromm in uno storico testo titolato “Fuga dalla libertà” (1943) dedicato all’analisi psicoanalitica delle figure di Lutero e di Hitler, mostra come il paradossale guadagno psichico della sottomissione. Ne parlano, a loro modo, anche tre bei libri più recenti come quello di Jessica Benjamin (“Legami d’amore”, Raffaello Cortina, 2015), di Marisa Fiumanò (Masochismi ordinari, Mimesis, 2016) e, a suo modo, Thomas H. Ogden ( Vite non vissute, Raffaello Cortina 2017). La condizione paradossale del masochista consiste nel realizzare ciò che il sadico può solo inseguire affannosamente: sottomettersi all’altro rinunciando adì ogni forma di soggettività, realizza il progetto masochista di una forma di vita finalmente riparata dall’angoscia. È evidente che si tratta di una illusione perversa, la quale però è sempre in agguato, soprattutto quando invoca il bastone severo del padrone, il suo muso duro, feroce, pronto a colpire e a colpirci spietatamente assicurandoci che l’abolizione della nostra libertà sia la forma più alta della libertà. È un segno del nostro tempo: consegnarsi nelle mani ruvide di un potere forte salva dall’insicurezza che cresce.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/02/25/la-politica-ai-tempi-del-soffro-ergo-sum55.html?ref=search
Il sogno del masochista è quello di liberarsi della sua libertà. Essere uno straccio nelle mani dell’altro ci libera dal peso di ogni responsabilità. È quello che Erich Fromm in uno storico testo titolato “Fuga dalla libertà” (1943) dedicato all’analisi psicoanalitica delle figure di Lutero e di Hitler, mostra come il paradossale guadagno psichico della sottomissione. Ne parlano, a loro modo, anche tre bei libri più recenti come quello di Jessica Benjamin (“Legami d’amore”, Raffaello Cortina, 2015), di Marisa Fiumanò (Masochismi ordinari, Mimesis, 2016) e, a suo modo, Thomas H. Ogden ( Vite non vissute, Raffaello Cortina 2017). La condizione paradossale del masochista consiste nel realizzare ciò che il sadico può solo inseguire affannosamente: sottomettersi all’altro rinunciando adì ogni forma di soggettività, realizza il progetto masochista di una forma di vita finalmente riparata dall’angoscia. È evidente che si tratta di una illusione perversa, la quale però è sempre in agguato, soprattutto quando invoca il bastone severo del padrone, il suo muso duro, feroce, pronto a colpire e a colpirci spietatamente assicurandoci che l’abolizione della nostra libertà sia la forma più alta della libertà. È un segno del nostro tempo: consegnarsi nelle mani ruvide di un potere forte salva dall’insicurezza che cresce.
Segue qui:
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AL DI LÀ DEL PRINCIPIO DI PRESTAZIONE
di Moreno Montanari, doppiozero.com, 26 febbraio 2017
La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).
Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie – il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento – ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”.
Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro – con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente – rivendica “l’andare in analisi (…) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (…) lo psicologo (…) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/al-di-la-del-principio-di-prestazione
La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).
Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie – il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento – ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”.
Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro – con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente – rivendica “l’andare in analisi (…) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (…) lo psicologo (…) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.
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http://www.doppiozero.com/materiali/al-di-la-del-principio-di-prestazione
L’ILLUSIONE DELLA RAGIONE
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 26 febbraio 2017
“Mi sentivo bloccata, paralizzata dallo sguardo fisso di quel paziente schizofrenico così insistente e invadente al punto da dover interrompere il colloquio” mi racconta una collega nel corso di una supervisione. Nel successivo svolgersi della conversazione diviene chiaro che la paura della collega ha a che fare non solo con la pregressa aggressività del paziente in questione ma anche con le esperienze e i vissuti di abbandono e impotenza sperimentati dalla stessa collega nel proprio passato. Con un po’ di esperienza, è facile individuare le difficoltà, i limiti, gli errori degli altri. Ma quando porto io in supervisione/intervisione un mio caso non è tutto così facile. Sono io che non riesco a vedere dove sta il problema che impedisce un’evoluzione del decorso o comunque un passo avanti. Eppure il problema mi sta davanti al naso, agli occhi. Perché li apro solo dopo?
Me lo domandavo leggendo un bellissimo articolo di Elizabeth Kolbert recentemente apparso sul New Yorker. La giornalista, vincitrice di un premio Pulitzer, affronta proprio il tema della nostra difficoltà ad imparare dai fatti prendendo le doverose distanze dalle nostre scorrette e pregiudizievoli opinioni. Per farlo illustra il risultato di molte ricerche psicologiche e riassume brillantemente le conclusioni di tre libri di recente pubblicazione su questo ed analoghi argomenti.
Il primo è “The Enigma of Reason” (Harvard), frutto del lavoro comune di due cognitivisti Hugo Mercier and Dan Sperber. La tesi, semplificata, è che il vantaggio principale di noi umani nei confronti delle altri specie sia la cooperazione, capacità tutt’altro che facile da instaurare e ancor più da mantenere. La ragione, di cui tanto andiamo fieri, non si sarebbe sviluppata con lo scopo di risolvere problemi logici, astratti, di trarre conclusioni originali da nuovi dati ma piuttosto con l’obiettivo di risolvere i problemi posti dalla vita di cooperazione e collaborazione in gruppo.
“Reason is an adaptation to the hypersocial niche humans have evolved for themselves,” scrivono Mercier and Sperber. I “confirmation bias” sarebbero dunque secondo gli autori non degli errori incidentali ma l’ espressione della nostra tendenza evoluzionistica a confermare le nostre opinioni e a rigettare invece quelle che potrebbero metterle in discussione, mettendoci in una posizione di svantaggio nel gruppo. Proprio per questo gli autori preferiscono brillantemente parlare di “myside bias”. Non siamo infatti affatto creduloni in generale, limiti e difetti altrui li individuiamo rapidamente, siamo però selettivamente ciechi nei confronti dei nostri.
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2017/02/26/lillusione-della-ragione/
“Mi sentivo bloccata, paralizzata dallo sguardo fisso di quel paziente schizofrenico così insistente e invadente al punto da dover interrompere il colloquio” mi racconta una collega nel corso di una supervisione. Nel successivo svolgersi della conversazione diviene chiaro che la paura della collega ha a che fare non solo con la pregressa aggressività del paziente in questione ma anche con le esperienze e i vissuti di abbandono e impotenza sperimentati dalla stessa collega nel proprio passato. Con un po’ di esperienza, è facile individuare le difficoltà, i limiti, gli errori degli altri. Ma quando porto io in supervisione/intervisione un mio caso non è tutto così facile. Sono io che non riesco a vedere dove sta il problema che impedisce un’evoluzione del decorso o comunque un passo avanti. Eppure il problema mi sta davanti al naso, agli occhi. Perché li apro solo dopo?
Me lo domandavo leggendo un bellissimo articolo di Elizabeth Kolbert recentemente apparso sul New Yorker. La giornalista, vincitrice di un premio Pulitzer, affronta proprio il tema della nostra difficoltà ad imparare dai fatti prendendo le doverose distanze dalle nostre scorrette e pregiudizievoli opinioni. Per farlo illustra il risultato di molte ricerche psicologiche e riassume brillantemente le conclusioni di tre libri di recente pubblicazione su questo ed analoghi argomenti.
Il primo è “The Enigma of Reason” (Harvard), frutto del lavoro comune di due cognitivisti Hugo Mercier and Dan Sperber. La tesi, semplificata, è che il vantaggio principale di noi umani nei confronti delle altri specie sia la cooperazione, capacità tutt’altro che facile da instaurare e ancor più da mantenere. La ragione, di cui tanto andiamo fieri, non si sarebbe sviluppata con lo scopo di risolvere problemi logici, astratti, di trarre conclusioni originali da nuovi dati ma piuttosto con l’obiettivo di risolvere i problemi posti dalla vita di cooperazione e collaborazione in gruppo.
“Reason is an adaptation to the hypersocial niche humans have evolved for themselves,” scrivono Mercier and Sperber. I “confirmation bias” sarebbero dunque secondo gli autori non degli errori incidentali ma l’ espressione della nostra tendenza evoluzionistica a confermare le nostre opinioni e a rigettare invece quelle che potrebbero metterle in discussione, mettendoci in una posizione di svantaggio nel gruppo. Proprio per questo gli autori preferiscono brillantemente parlare di “myside bias”. Non siamo infatti affatto creduloni in generale, limiti e difetti altrui li individuiamo rapidamente, siamo però selettivamente ciechi nei confronti dei nostri.
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http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2017/02/26/lillusione-della-ragione/
LASCIARE PRIMA: PERCHÉ È COSÌ RARO?
di Daniela Monti, 27esimaora.corriere.it, 28 febbraio 2017
In India, per catturare una scimmia, si usa la trappola della noce di cocco: si scava un foro e si fa scivolare all’interno del riso; la scimmia infila la zampa per prenderlo e resta incastrata, tradita dal pugno chiuso che stringe il riso. Piero Ferrucci, psicoterapeuta, filosofo e scrittore, chiude il racconto dicendo che «anche noi siamo un po’ scimmie con il riso: non riusciamo ad aprire il pugno e mollare i nostri ruoli sociali, le nostre cariche, le nostre idee e così finiamo in gabbia». Perché passare la mano — quando è ancora una libera scelta, non una necessità dovuta, per esempio, ai limiti di età — è difficile. Così difficile che il caso di Enzo Bianchi, ex priore della comunità monastica di Bose, ha fatto notizia: a 73 anni, senza che nessuno glielo chiedesse, ha passato ad un confratello più giovane il testimone (e il potere di comando).
Non è l’unico, certo, ma nella maggior parte dei casi le cose vanno in modo diverso: l’ultimo report dell’Aidaf — Associazione italiana delle aziende familiari — mostra come dal 2007 al 2014 il numero dei «leader aziendali» di oltre 70 anni è cresciuto dal 14,7% al 22,6 nonostante sia dimostrato che, nella media, hanno performance inferiori rispetto ai leader aziendali più giovani. «Mantenere la posizione è una forma di attaccamento alla vita, di resistenza alla paura di ciò che potrà avvenire nel momento in cui si lascia l’azienda. In più c’è il fattore potere: se lascio, non posso più decidere quello che voglio. È dura arrendersi al fatto che saranno i figli, o qualcun altro, ad avere l’ultima parola», dice Guido Corbetta, professore di Strategia delle imprese famigliari in Bocconi.
I progressi della medicina, a parità di età, hanno consentito di aumentare il livello di prestazioni, fisiche e cognitive, rispetto al passato, spostando in avanti negli anni la necessità di un passaggio di testimone. Se restare attivi, agganciati al presente e ai propri interessi, è l’atteggiamento giusto con cui affrontare la vecchiaia — come dimostrano le tante storie di 80/90enni raccolte dallo psicanalista Massimo Ammaniti ne «La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età» (Mondadori) — comunque la domanda resta: qual è il momento giusto per lasciare? «Va fatta una distinzione fra il desiderio di continuare ad essere attivi, dare il proprio contributo, trasmettere quanto accumulato nel tempo, e il voler rimanere, pervicacemente, ancorati ad un posto di potere o a un ruolo sociale. Sono due percorsi diversissimi — dice Ammaniti —. Il primo caso è coerente con una persona che continua la propria ricerca personale, fiduciosa di poter dare un senso a se stessa anche senza la “stampella” esterna; il secondo nasconde invece la paura di scomparire: senza il riconoscimento sociale che mi sono guadagnato, non sono più niente».
Segue qui:
http://27esimaora.corriere.it/17_febbraio_28/lasciare-prima-perche-cosi-raro-bfff9d5a-fddf-11e6-8934-cbc72457550a.shtml
In India, per catturare una scimmia, si usa la trappola della noce di cocco: si scava un foro e si fa scivolare all’interno del riso; la scimmia infila la zampa per prenderlo e resta incastrata, tradita dal pugno chiuso che stringe il riso. Piero Ferrucci, psicoterapeuta, filosofo e scrittore, chiude il racconto dicendo che «anche noi siamo un po’ scimmie con il riso: non riusciamo ad aprire il pugno e mollare i nostri ruoli sociali, le nostre cariche, le nostre idee e così finiamo in gabbia». Perché passare la mano — quando è ancora una libera scelta, non una necessità dovuta, per esempio, ai limiti di età — è difficile. Così difficile che il caso di Enzo Bianchi, ex priore della comunità monastica di Bose, ha fatto notizia: a 73 anni, senza che nessuno glielo chiedesse, ha passato ad un confratello più giovane il testimone (e il potere di comando).
Non è l’unico, certo, ma nella maggior parte dei casi le cose vanno in modo diverso: l’ultimo report dell’Aidaf — Associazione italiana delle aziende familiari — mostra come dal 2007 al 2014 il numero dei «leader aziendali» di oltre 70 anni è cresciuto dal 14,7% al 22,6 nonostante sia dimostrato che, nella media, hanno performance inferiori rispetto ai leader aziendali più giovani. «Mantenere la posizione è una forma di attaccamento alla vita, di resistenza alla paura di ciò che potrà avvenire nel momento in cui si lascia l’azienda. In più c’è il fattore potere: se lascio, non posso più decidere quello che voglio. È dura arrendersi al fatto che saranno i figli, o qualcun altro, ad avere l’ultima parola», dice Guido Corbetta, professore di Strategia delle imprese famigliari in Bocconi.
I progressi della medicina, a parità di età, hanno consentito di aumentare il livello di prestazioni, fisiche e cognitive, rispetto al passato, spostando in avanti negli anni la necessità di un passaggio di testimone. Se restare attivi, agganciati al presente e ai propri interessi, è l’atteggiamento giusto con cui affrontare la vecchiaia — come dimostrano le tante storie di 80/90enni raccolte dallo psicanalista Massimo Ammaniti ne «La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età» (Mondadori) — comunque la domanda resta: qual è il momento giusto per lasciare? «Va fatta una distinzione fra il desiderio di continuare ad essere attivi, dare il proprio contributo, trasmettere quanto accumulato nel tempo, e il voler rimanere, pervicacemente, ancorati ad un posto di potere o a un ruolo sociale. Sono due percorsi diversissimi — dice Ammaniti —. Il primo caso è coerente con una persona che continua la propria ricerca personale, fiduciosa di poter dare un senso a se stessa anche senza la “stampella” esterna; il secondo nasconde invece la paura di scomparire: senza il riconoscimento sociale che mi sono guadagnato, non sono più niente».
Segue qui:
http://27esimaora.corriere.it/17_febbraio_28/lasciare-prima-perche-cosi-raro-bfff9d5a-fddf-11e6-8934-cbc72457550a.shtml
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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