E in questa sala d'attesa mi domandavo: "e lui sarà nella stessa barca, avrà attraversato mari simili ai miei le stesse tempeste. Avrà visto quello che io ho visto avrà sentito quello che io ho sentito. Come farà a comprendere veramente come farà a curarmi. Cosa saprà lui più di me dove sarà arrivato?"
Quel giorno feci un incontro con il poeta che definii "il poeta della zattera" quello che per me rappresenta l'incontro con l'altro vero o con la verità .
Chandra Livia Candiani per me la poetessa della zattera è una donna minuscola ma con un cuore numeroso. Nata a Milano nel 1952 di origini russe .
In libreria settore poesie vidi questo libricino bianco della collana Einaudi e sulla copertina le parole scolpite di una poesia che risuono' così tanto che dovetti consegnarla immediatamente nelle mani del mio dottore.
Il libro porta il titolo "La bambina pugile ovvero la precisione dell'amore".
Un libro di rottura di incontro-scontro con il sintomo una guerra un conflitto un "che farsene ".
Un libro di una precisione emotiva straordinaria dove si percepisce la logica del sentire.
Un viaggio nella possibilità dell'incontro, un suggerimento a noi dottori prezioso sull'altro, sui bisogni e le paure che ci tengono sulla stessa zattera in momenti alternati .
Un libro sulla relazione analitica. Il silenzio è la voce che restituisce noi all'altro.
La poesia e' tratta dal primo dei tre capitoli che compongono questa opera ovvero La bambina pugile.
Di chi è la voce
che mi chiede di essere
asciutta risonanza
bucato steso al sole
umilmente in attesa
di laboriose mani.
Di chi è la voce
che mi spinge le spalle
al neutro disastro della notte
e senza culla alcuna
mi invita a un sonno di persona
abbracciata alla sua memoria
e non di bambino costretto
al nulla.
Di chi è la voce
che tace insieme
quando cado
e poi cado ancora
e nemmeno precipito
ma senza fare centro
resto sepolta
sotto terriccio muto
del dentro di me.
Di chi è la voce
che non fa cronaca
del presente
e non condanna
i guai ma conosce
Il bruciore netto
delle guance.
Di chi è la voce
che attende
teneramente persa
nel bosco di parole
di chi parla
senza desiderio dell'altro.
Fate luce.
“Nello spazio di carità tra
“Nello spazio di carità tra te e l’altro”, dice la poetessa Chandra Livia Candiani, si estende la Sorge, la sollecitudine, ben diversa dalla Kur, che è la terapia medica. Va ripresa la nozione di agape, che il vescovo protestante di Lund Nygers contrapponeva a eros. L’agape è l’amore spontaneo e immotivato, ben diverso dall’eros, che platonicamente è finalizzato alla elevazione di sé. Si chiama sublimazione ma è narcisismo puro, con una connotazione collettiva. Certo, poi Giovanni dice che Dio è agape, ma secondo me si può fare l’esperienza clinica dell’agape anche senza Dio. Il punto debole dell’agape è di non avere codici deontologici, quindi di essere potenzialmente fuori legge, follia per i gentili, scandalo per i giudei. Come la psicanalisi nel gioco non pianificato di transfert e controtransfert.
Mi piacciono le due poesie,
Mi piacciono le due poesie, mi piace la dolce sensibilità delle parole della poetessa. Mi piacciono tutti i commenti attenti e comunicativi. Non mi piace dove la poetessa dice:
Di chi è la voce
che non fa cronaca
del presente
e non condanna
i guai ma conosce
Il bruciore netto
delle guance.
Creando così una sorta di dissociazione fra cronaca del presente e i guai che l’attraversano, che poi sono i territori della sofferenza di tutti, e il bruciore delle guance, come espressione dello spazio emozionale. Ecco io credo che compito della poesia e delle attività di cura per altri versi, sia proprio quello di alzare l’attenzione sul mondo in cui si stendono le relazioni umane e si produce la sofferenza, per rendere completo l’ascolto dell’altro e per suscitarlo, nel caso della poesia. Altrimenti la poesia è condannata all’insignificanza sociale e l’ascolto diviene parziale, selettivo, subordinato alle esigenze delle tecniche e dei mercati. Rendendo sterili, anche con le migliori intenzioni, le attività di cura psicologiche, psicoanalitiche, psichiatriche.
“Di chi è la voce
che mi
“Di chi è la voce
che mi chiede di essere
asciutta risonanza
bucato steso al sole
umilmente in attesa
di laboriose mani.”
quale meraviglia! grazie per avermi fatto leggere questa poesia … e non bastano nemmeno decenni d’analisi, non basta essere poeta, cantare, cucinare, fabbricare sapone, e chi più ne ha, più ne metta, non si può smettere neanche dopo, si continuano a tessere merletti, strati di vernice, sulla superficie che tende in ogni caso a vacillare, anche per lui, quello che ci aspetta per la seduta.
l’immagine del poeta della
l’immagine del poeta della zattera è molto forte.
Come quella delle parole che curano. Soltanto se si incarnano. E se si incarnano nel quotidiano della carne vile, straziata. Della carne comune. della carne nostra. La parola che discende dalla teoria rimane parola. La parola che si eleva alla teoria rimane parola. La parola che risuona nell’altro si fa ormeggio, cima.
Ti ringrazio, Maria, di avermi fatto conoscere questa poetessa che incarna le parole che agganciano, le parole che nascono da una ferita e che vanno ad una ferita.
Ti chiedi, giustamente, se il terapeuta che ti ha ascolta ha sofferto mai il tuo dolore. Non c’è training che possa vicariare un dolore che non si è vissuto.
Le nostre pratiche si sono allontanate dalla poesia, attratte da paradigmi tecnici. la poesia non può essere insegnata, solo sentita. Non può essere estrapolata, solo creata. Molto di quello che i nostri pazienti hanno da dirci o tentano di dirci può essere solo poeticamente colto.
Il mondo Psy non si è rivelato essere all’altezza e alla profondità della sofferenza che avrebbe dovuto contenere e comprendere. La strada della poesia, quella che tu indichi, e’ una delle poche ancora percorribili.
Grazie.
Condivido ciò che Gilberto ha
Condivido ciò che Gilberto ha scritto e consiglio seguendo il link di ascoltare la Candiani la poesia si va voce sottile ma pure si incarna profondamente: https://www.facebook.com/PoesiaFestival/videos/1148984251798101
Eh si! Siamo proprio tutti
Eh si! Siamo proprio tutti sulla stessa barca o, come usiamo dire qui in Sicilia, “semu tutti sutt’a stu celu!”. Sotto questo cielo. Non sopra. L’immagine iniziale dell’attesa in sala d’aspetto rende bene l’idea di quanto possa essere difficile iniziare certi percorsi, andare a certi incontri. Quante domande affollano e confondono la mente ed il cuore, già confusi ed affollati da dubbi, incertezze, insicurezze (più o meno ontologiche).
Sono d’accordo con Freud il quale auspicava che l’analista fosse stato almeno in odore di malattia (anche se trovo il termine improprio).
Dall’incontro autentico con l’altro, il terapeuta-poeta della zattera, scaturisce la verità. Che non appartiene a nessuno ma è frutto della relazione che si fa poesia. E la poesia, si sa, non accetta sinonimi.. non accetta imprecisioni, arrotondamenti, approssimazioni. D’altronde, siamo invasi da norme costrittive del parlare stereotipate e prive di affetto. “Al punto che alcuni psicoterapeuti cedono alla disperazione, cercando di evitare completamente di parlare, come se soltanto il silenzio interno e il comportamento non verbale fossero potenzialmente sani. Ma l’opposto del verbalizzare nevrotico è il linguaggio creativo e vario; non è né la semantica scientifica né il silenzio; è la poesia”. Ma non esiste poesia senza fatica. “Questa ossessione amorosa per la parola dell’altro (cosa il paziente vuole dire, cosa sta vivendo) e per la propria parola (quali parole sono capaci di raggiungere le sue ferite, per farne sprigionare la forza curativa) richiama la fatica del poeta. Terapeuta e poeta amano la parola. Ma dal poeta il terapeuta si distanzia perché è chiamato a giocarsi nel fuoco di una relazione in cui le parole vanno e vengono, da una sponda all’altra, per narrare e costruire la trama di due anime tese a vivere, nella pienezza dell’affidarsi e del prendersi cura, il mistero dell’incontro: un evento collocato sulla frontiera dell’indicibile e che, pur restando tale, deve paradossalmente divenire parola.
Leggendo la poesia mi è
Leggendo la poesia mi è venuto di pensare del poeta in ognuno di noi di cui parla Winnicott. Della poetessa come una di noi. Non nelle parole che usa, né nell’attitudine di dare loro un elegante destino. Ma nel momento in cui, toccata dalla grazia, non del suo talento poetico, è in prossimità intima di un senso personale di ciò che sta vivendo, tanto personale da poter essere veramente condiviso.
Nelle sue mani, la penna tra le dita, il non poter dire della propria esperienza analitica estende la sua ampiezza e la sua profondità, senza essere detto.
In ogni esperienza analitica è proprio ciò che non potendo essere detto allude a garantire che l’esperienza è stata vissuta, vive.
Sarantis Thanopulos
L’Universo non ha un
L’Universo non ha un centro
ma per abbracciarsi si fa così.
Ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente.
Poi, allargando le braccia, si mostra il disarmo delle ali
e infine se svanisce insieme
nello spazio di carità fra te e l’altro.
NUOVO GRUPPO collegato
NUOVO GRUPPO collegato all’omonima Rubrica di Psychiatry on line Italia iscrivetevi https://www.facebook.com/groups/1499266780119834
FATE UNA LIBERA DONAZIONE
FATE UNA LIBERA DONAZIONE ALLA RIVISTA e lo potete fare tramite BONIFICO all’IBAN IT23A0335901600100000121875 Intestato, presso BANCA PROSSIMA, a ASSOCIAZIONE PSYCHIATRY ON LINE ITALIA – Via Provana di Leynì 13 Genova, oppure potete usare il nostro account PayPal connesso all’email boll001@pol-it.org
Grazie per ciò che farete, grazie dell’attenzione.