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Teoria dell’attaccamento: commento all’articolo pubblicato su Science “EARLY LIFE EXPERIENCE DRIVES STRUCTURAL VARIATION OF NEURAL GENOMES IN MICE”

29 Mag 18

Di mariazaccagnino
In letteratura è ormai nota l’importanza che ricoprono le cure materne, ricevute dal bambino nei primi mesi di vita, in riferimento allo sviluppo di alcune aree cerebrali e di determinati comportamenti nel corso della crescita (Weaver, Meaney, & Szyf, 2006; Weaver et. al., 2004). Proprio in questo filone di studi si inserisce la scoperta di Tracy Bedrosian e collaboratori, pubblicata recentemente sulla rivista Science, che ha dimostrato come i comportamenti di accudimento, messi in atto dal caregiver, possano addirittura modificare la struttura del DNA dei figli. Nello specifico, gli autori hanno selezionato una popolazione di topi e hanno monitorato i comportamenti della madri nei confronti dei piccoli durante le prime due settimane di vita; al termine del periodo di osservazione, il campione è stato suddiviso in due gruppi: il gruppo denominato con “alte cure materne” e quello con “basse cure materne”, in base a quanto la madre mostrasse atteggiamenti di assistenza (nursing) e di cura (grooming) al neonato, subito dopo il parto.
Servendosi poi della metodologia PCR (Polymerase Chain Reaction)1, Bedrosian e colleghi hanno riscontrato che nei topi, trascurati dopo la nascita, vi era un maggior numero di retrotrasposoni L1 rispetto ai cuccioli ben accuditi; per retrotrasposoni si intendono gli elementi mobili della sequenza del DNA che possono cambiare posizione all’interno del genoma, muovendosi tramite un filamento di RNA: è possibile ipotizzare quindi che lo stress, indotto dalla mancanza di cure materne adeguate, abbia portato questi geni a replicarsi maggiormente e a formare un maggior numero di sequenze ripetute all’interno del genoma dei topi trascurati.


Oltre a mostrare tali cambiamenti nel DNA, un altro dato interessante fornito dalla ricerca è che le sequenze ripetute sono state rilevate nell’ippocampo, regione cerebrale sensibile agli stimoli ambientali (Baillie et. al., 2011) e che, al contrario delle altre aree del cervello, continua la differenziazione e la divisione cellulare anche nella prima settimana di vita (Bayer, 1980). Alla luce di tale evidenza, l’accumulo dei retrotrasposoni L1 nell’ippocampo dei topi che non hanno ricevuto cure materne adeguate, potrebbe contribuire a spiegare il comportamento ansioso sviluppato in età adulta da quei bambini che sono cresciuti con genitori trascuranti e poco sensibili.

Questo recente studio permette, dunque, di avere una “nuova conferma di come una parte del codice genetico sia molto più sensibile alle influenze ambientali di quanto si credesse", come ha dichiarato il genetista Giuseppe Novelli su ANSA; allo stesso tempo, però, offre anche un importante spunto di riflessione su quanto le cure materne possano influire profondamente su diversi aspetti dello sviluppo del bambino, assunto già teorizzato da John Bowlby negli anni 50 del secolo scorso.
A questo punto è lecito domandarsi quali possano essere i fattori che portano un genitore ad essere più o meno disponibile e responsivo rispetto alle richieste che il bambino manifesta fin dai primi giorni di vita. In questo senso diversi studi (Grieneberger, Kelly, & Slade, 2005; Trapolini, Ungerer, & McMahon, 2008) hanno individuato, come elemento fondamentale per un adeguato comportamento di accudimento, la presenza della cosiddetta Funzione Riflessiva (Fonagy et al., 1991) e cioè la capacità del caregiver di contenere nella mente una rappresentazione del bambino come persona dotata di sentimenti, desideri ed intenzioni. Attraverso tale funzione, il genitore è in grado non solo di contenere e regolare gli stati mentali del figlio ma anche di rifletterli così che, attraverso di lui, il bambino impari a riconoscere ed entrare in contatto con le proprie esperienze interne (Slade, 2005). Sulla base di quanto affermato, la capacità della figura di riferimento di accogliere e contenere l’esperienza del bambino ricopre, quindi, un ruolo cruciale nel facilitare lo sviluppo di un legame di attaccamento sicuro e l’emergere di abilità sociali, cognitive ed emotive adeguate. Se, infatti, la funzione riflessiva è assente o distorta, il bambino ha una maggiore probabilità di sviluppare diverse forme di psicopatologia (Zaccagnino, Cussino, Preziosa, Veglia & Carassa, 2015), dovute all’incapacità del genitore di vedere e gestire le emozioni del piccolo oppure di fraintenderle, rispondendo in modo inadeguato. Tale incapacità, però, è legata a quanto il caregiver stesso sia stato visto e riconosciuto come possessore di sentimenti e bisogni da parte proprie figure di riferimento, durante l’infanzia.
In quest’ottica, quindi, il legame di attaccamento stabilito con le proprie figure di riferimento e le esperienze passate vissute dal genitore, specialmente se di natura traumatica, possono riattivarsi nel momento in cui si prende cura del figlio: in questi casi si parla di trasmissione intergenerazionale del trauma infantile. Nello specifico, se la figura di riferimento è ancora impegnata nel processo di rielaborazione degli eventi difficili, vissuti durante l’infanzia, ne trasmetterà le tracce ogni volta che si prenderà cura del bambino. Pertanto le strategie di accudimento, messe in atto dal genitore, contengono parte delle sue esperienze traumatiche, portando il figlio a provare emozioni soverchianti e disregolate nel momento in cui richiederà cura e protezione (Zaccagnino & Cussino, 2013). I ricordi traumatici irrisolti, infatti, tendono ad affiorare alla mente del genitore proprio mentre è intento a rispondere alle richieste di attaccamento del figlio e questo lo porta a reagire con paura (in modo spaventato) o con rabbia (in modo spaventate) ogni volta che il bambino manifesta le sue esigenze. Alla luce di ciò, le interazioni disfunzionali con la figura di riferimento, definite “precoci traumi relazionali” (Schore, 2001), hanno conseguenze non solo sullo sviluppo cerebrale del piccolo ma anche sull’emergere di capacità relazioni ed emotive adeguate. Il bambino, crescendo, non sarà in grado né di riflettere sul suo stato interiore né di gestire le emozioni intense (Fonagy e Target, 2000), sviluppando così quel tipico disorientamento che caratterizza il pattern dell’attaccamento disorganizzato e che lo predispone all’insorgenza del PTSD o di disturbi dissociativi durante la crescita.
Sulla base di queste considerazioni, appare chiaro quanto l’ambiente ricopra, quindi, un ruolo fondamentale nella crescita dell’individuo, assunto dimostrato anche da Bedrosian e colleghi nell’articolo sopra esposto; ma se è possibile affermare che cure genitoriali inadeguate possono esporre il bambino allo sviluppo di comportamenti disorganizzati e poco adattivi, è anche vero che esperienze emotive correttive, figure di riferimento alternative e fattori protettivi possono intervenire per tutelare tali bambini disorganizzati dall’insorgenza di qualsiasi psicopatologia. Lo stesso genitore, iniziando un percorso di psicoterapia, può divenire in grado di elaborare i propri vissuti traumatici così da offrire, nel corso degli anni, un’esperienza di attaccamento più sensibile e sicura al proprio bambino. In ottica della presa in carico del caregiver, l’utilizzo della metodologia EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) può rivelarsi uno strumento prezioso per il clinico al fine di identificare ed elaborare quelli che sono stati i ricordi difficili legati alla sua storia di attaccamento che influenzano il suo stile di accudimento odierno. In questo modo il caregiver potrà riflettere su di sé e sulle esperienze difficili della sua infanzia, superandole e diventando così in grado di rispondere in modo adeguato ai bisogni ed alle richieste del proprio bambino.
 
1 Metodologia utilizzata per ottenere quantità che ammontano a μg di copie di segmenti specifici di DNA o di RNA, partendo da quantità minime (anche una sola molecola) presenti in una preparazione di acidi nucleici. Fonte: www.treccani.it/enciclopedia
 

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