Il film Joker si muove tra sogno e realtà, tra delirio e disperazione, tra tragedia e commedia. Il regista Phillips compie infatti una scelta coraggiosa, ovvero quella di parlare di cosa può portare un uomo verso la discesa negli inferi del disagio psichico. La trasformazione da Arthur a Joker ne indica la strada.
Arthur non ha mai saputo se esistesse veramente oppure no.
E noi non sappiamo se stiamo osservando una visione delirante oppure una realtà. Come se si ponesse un dilemma amletico tra esistere o non esistere, ma anche ridere o piangere. La maschera da clown può cambiare espressione a seconda se si incurvino le labbra verso l’alto o verso il basso. Può esprimere alternativamente gioia o tristezza.
Arthur si disegna sul volto un sorriso da pagliaccio, davanti ad uno specchio in camerino, prima di entrare in scena. Ma dietro la maschera da clown si nasconde tanta sofferenza e rabbia. Si trova in una condizione di solitudine e disperazione, eppure tenta di fare ridere raccontando barzellette.
C’è il dilemma tra l’essere e l’apparire dove la natura delle cose è ambigua. Racamier dice che l’ambiguità è ciò che riunisce due qualità opposte e che partecipa contemporaneamente di due nature differenti. (Racamier, 1993).
Arthur nella sua solitudine fa i conti con una sofferenza intollerabile, che non riesce più a gestire e che in qualche modo viene rigurgitata in una risata su cui non ha più controllo. L’attore Joaquin Phoenix riesce a rappresentarla con un’efficacia tale che allo spettatore arriva l’inesorabilità dello sprofondare nella follia.
L’originalità del film sta nel riuscire ad entrare dentro, a mostrare i meccanismi profondamente tragici di una mente che diviene psicopatica. Quella del divenire psicopatico infatti è un percorso che dura una vita, comincia dalle relazioni più importanti. Joker vive da solo con una madre malata (nel corpo e nell’anima) presupponendo un padre inesistente . Arthur viene svalutato e svilito lungo la sua storia e cerca le lusinghe e il riconoscimento dal comico Murray Franklin (Robert De Niro) da lui idealizzato e idolatrato (ideale sostituzione di un padre assente?) ma anche da lui riceve solo svalutazione.
Cresce il vissuto di solitudine e abbandono, mentre sogna il successo nel mondo dello spettacolo e ciò che non può essere raggiunto diventa allucinazione. C’è un doppio livello,tra delirio e realtà; come se fosse una rappresentazione teatrale della vita. Una finzione per illudersi di poter sfuggire all’angoscia.
Dice Arthur“Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto e le persone cominciano a notarlo” e per questo diviene Joker. Il Joker dell’attore Phoenix è nel trucco da pagliaccio che naturalmente si insinua nelle rughe del bel viso espressivo dell’attore, creando un effetto ancor più disperato e perfido insieme.
Il clown, infatti, contrariamente ad Arthur, è esplosivo, maligno, e uccide, per dimostrare di esserlo. Il sollievo gli deriva non tanto dall’essersi liberato della persona uccisa, quanto nel cercare di sbarazzarsi dello stato mentale intollerabile che lo governa perché fonte di sofferenza.
Da Arthur a Joker, quindi. In una trasformazione che porta dall’essere uccisi dalla sofferenza, all’uccidere per senso di liberazione onnipotente. Dall’essere oggetto di derisione passivo, al divenire più forte di tutto e a quel senso di onnipotenza che ben si lega al divenire assassino, ovvero essere il padrone della vita altrui.
La trasformazione avviene in una città brutta e sporca come la Gotham del film, terreno fertile per il fiorire della violenza e della follia. Metafora estremizzata del senso di deprivazione in una società che ci vuole sempre efficaci e sorridenti, creando un livello di sofferenza che diviene sempre più nascosto e potenzialmente esplosivo.
“Siamo tutti clown”compare scritto su un cartello in una scena del film, particolare che ci indica come sia un’esposizione che riguarda tutti, dove se non si è“il più”, forse è meglio divenire “il peggio”. E tutti divengono i clown che si identificano in quello divenuto oramai leader perché visto come il più forte, quello su cui poggiarsi per sentirsi illusoriamente più forti e protetti. E poco importa se quella tra peggiore e migliore diviene una pericolosa similitudine.
In strada si susseguono tante maschere e pochi volti. Si diffonde un’atmosfera di odio e violenza. Ci sono tanti clown assassini che si trasformano in lupi mannari. Arthur diventa Joker, idolo delle masse, signore del male.
Coesistono in lui stati mentali inconsci compresenti, alcuni dei quali tendono alla separatezza, altri all’assimilazione con l’altro. Come l’esistenza di un doppio binario per cui in ogni momento possiamo sentirci sia separati sia immersi in un mondo indifferenziato familiare. Come se il funzionamento dell’inconscio oscillasse tra diverse dimensioni della mente, caratterizzate da movimenti di individuazione e identificazioni di massa (Ruggiero, 2014).
Sappiamo che il cinema crea connessioni dirette con l’inconscio e, come nelle fiabe e nei cartoni animati, i protagonisti hanno la funzione di esplicitare in modo catartico le ansie, le paure dei bambini, cosi l’attore, eroe mitico, ha quella di rappresentare l’ideale ma anche le fragilità dell’adulto che in lui si identifica e che fornisce l’illusione del poter evitare l’inevitabilità dell’errore e del senso di colpa.
Il film o le sequenza cinematografiche divengono "oggetti di mediazione" per lo spettatore e permettono di sollecitare le emozioni che il film attiva nel rapporto che costruiamo con i personaggi durante la visione del film. La forza del cinema è la possibilità di creare uno spazio potenziale della mente, un’area di gioco winnicottiana e offre la possibilità di creare tanti mondi quanti ne offre la nostra immaginazione. Christian Metz (Metz, 1993) fa riferimento alla teoria dello specchio di Lacan, dice Rossella Valdrè (Valdrè, 2015) ,“come in uno specchio, analogamente a quanto accade nel bambino durante lo sviluppo, lo schermo cinematografico fa da specchio proiettivo delle nostre rappresentazioni. Esso ci crea dunque a “un’impressione di realtà” (Metz, 1993). Ma, diversamente dallo specchio di Lacan, lo schermo del cinema permette allo spettatore di identificarsi in qualcosa di diverso, si identifica cioè, nella macchina da presa stessa (Metz,1993).
Così percependo tutto guardando nello schermo, noi stessi diventiamo la macchina da presa e ci identifichiamo con l’apparecchio di produzione. Attraverso la panoramica siamo in grado di vedere tutto intorno senza girare la testa, difatti grazie all’uso di angolazione diffuse e movimenti siamo improvvisamente scaraventati nella realizzazione della nostra stessa presenza-assenza all’interno dell’immagine filmica.
Scrive Valdrè citando Pedoni (2012), il cinema rappresenta “Il luogo di riposo dove l’individuo non è impegnato nel compito di distinguere tra fatto e realtà … Nel caso del male può consentire di sognare metabolizzare benignamente contenuti e i messaggi violenti che la scena contiene. Ci consente la rappresentazione. La sua azione benefica, che non chiamerei educativa ma piuttosto terapeutica in quanto trasformative, consiste nella possibilità di rappresentare pulsioni aggressive o sessuali anziché agirle. Di attribuire dei personaggi consentendoci gradi limitati e personali di identificazione, di entrarne e uscirne nello spazio circoscritto del film, Protetti dalla consapevolezza che si tratta di una finzione, per quanto avvincente e verosimile, a volte nel rituale cinematografico stesso che, con il suo corredo di buio, silenzio, anonimato, contribuisce a una sana e temporanea regressione”. Cosi anche in Joker lo spettatore può identificarsi nelle parti fragili prima della trasformazione e in quelle onnipotenti e vendicative dopo.
“Per arrivare alla pensabilità certe emozioni ricorrono all’iconico come tappo verso la simbolizzazione, che attiva una forma nuova di contenitore contenuto per fronteggiare un’emozione impensabile, mettendola in figura“. (Ferruta, 2005).
I bambini hanno bisogno di un aiuto per arrivare ai loro stati emotivi, non parlano delle loro emozioni e il cinema ha la funzione di mediazione. E’ fatto di immagini e di metafore, proprio come quello delle fiabe. Fondamentale è ideare un personaggio con il quale il bambino possa identificarsi, compiendo in questo modo lo stesso viaggio del protagonista, patendo delle sue sconfitte e angosciandosi delle sue eventuali prove da superare, ma mantenendo anche lo stesso suo coraggio per andare avanti (Bettelheim, 1976).
Per questo “prendendo in prestito” motivi e personaggi fiabeschi e/o costruendone di nuovi si può entrare in sintonia con le trame interiori del bambino. Per favorire l’identificazione è necessario creare un personaggio con le stesse paure e tensioni emotive del bambino.
Come dice Melanie Klein “….gli oggetti reali e le immagini di fantasia , interne ed esterne, sono legati gli uni alle altre …. accanto ai rapporti con oggetti reali, benché per così dire su un altro piano, sussistono rapporti con imago irreali- figure straordinariamente buone e straordinariamente cattive- e i due tipi di rapporti oggettuali si frammischiano e si influenzano reciprocamente” (Klein, 1935, 321).
L’identificazione coi personaggi e la partecipazione emotiva al racconto sono possibili perché le fiabe parlano il linguaggio della fantasia, che è lo stesso del bambino.
Per Marion Milner (1987) le immagini “Sono il solo mezzo con il quale il bambino può rappresentare se stesso e i processi psichici che hanno luogo dentro di lui”.
Il regista, nel caso del film Joker, parte da un personaggio legato a Batman, quindi dei cartoni animati, per arrivare a parlare, anzi a rappresentare, la malattia psichiatrica. C’è un netto contrasto, quindi, un forte iato tra quello che dovrebbe rappresentare un mondo da proteggere come quello infantile, a quello che ha bisogno di protezione e cure, cioè quello psichiatrico.
Joker, in questa ultima versione, sembra vittima di una storia iperbolica in cui si condensano tutti i possibili e più temibili traumi della vita di un bambino, un’infanzia deprivata, l’adozione e per di più da parte di una donna schizofrenica, bisognosa di costanti cure, violenze fisiche atroci e bizzarre da parte del compagno della madre, di chi dovrebbe rappresentarsi come terzo, l’esperienza in manicomio ad opera dei servizi sociali, per non “separarlo” dalla madre. E’ la narrazione più sublime dell’impossibilità di separazione nella psicosi, dell’incesto simbolico perpetrato.
“Put on a happy face” è la scritta sullo specchio del camerino di Arthur, maltrattato anche dal capo a lavoro.
Perché accade questo, la violenza nella coazione a ripetere chiama altra violenza, le vittime di abusi vengono abusate, anche da altri, ancora ed ancora. La violenza genera altra violenza. Come ci fa notare Rossi Monti c’è una vasta gamma di manifestazioni psicopatologiche (Rossi Monti e Stanghellini, 1999). La depersonalizzazione può essere considerata come il primo fondamentale momento in cui s’instaura la perdita della realtà e l’ingresso in un mondo alieno, caratterizzato dall’estraneità. La dissociazione va intesa come spinta verso un mondo estraneo ed alieno, ma può anche aprire a nuove potenzialità (Correale, 2006). La possibilità di entrare in mondi altri ci consente di scoprire i vari livelli del nostro mondo interno. Il soggetto è un entità plurale, si dispiega in varie dimensioni. Ci sono vari aspetti del Sé che possono ritrovarsi anche in altri.
Possiamo pensare a Gengè, il protagonista di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, il quale ad un certo punto dice: mi accadde di sorprendermi in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto … non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. (Pirandello, 1926). Il mondo interno è abitato da tanti personaggi interiorizzati e fantasmizzati.
La reazione del fruitore, o per meglio dire le tante possibili reazioni, indipendentemente da chi ha apprezzato o criticato il film, possiamo pensarle come “viscerali” nel senso che coinvolgono stati emotivi interni molto intensi e largamente differenti da quelli cognitivi. Tante reazioni quante quelle che il regista deposita in chi lo osserva attraverso l’“esplosione” della mente del protagonista nella magnifica interpretazione di Joaquin Phoenix. Il sorriso plastico di Joker, il riso nervoso di Arthur scatenano un senso di irritazione negli altri personaggi della storia e nell’osservatore, per identificazione proiettiva nel senso bioniano. “Tutte le funzioni …. subiscono attacchi sadici di scissione che le riducono in pezzi che vengono poi evacuati dalla personalità e si incistano negli oggetti reali oppure li inglobano… Esse continuano a esercitare le loro funzioni come se il terribile trattamento subito fosse servito esclusivamente ad aumentarne il numero e a provocare la loro ostilità nei confronti della psiche che le ha espulse” (da “Riflettendoci meglio” di Micati Zecca). La reazione da parte dei più potrebbe essere di rabbia, nei confronti della follia, ma anche verso un sistema che non aiuta chi ha bisogno. Totalmente diversa da parte di chi ha lavorato nei servizi, ed ha sperimentato, sulla propria pelle, il senso di impotenza legato all’impossibilità di fornire aiuto perchè non si hanno le risorse necessarie per far fronte a situazioni grandemente disagiate, laddove non c’è alcun appiglio sociale a cui appoggiarsi per far rete intorno al malato e fornirgli quell’holding che non ha avuto nella sua storia. Come è successo al nostro personaggio, Arthur, che non avrebbe mai potuto sapere di diventare Joker, cioè l’esempio di una delle tante sofferenze (inconsce) senza uno spazio di elaborazione e di accoglienza.
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