L’argomento è controverso, come si può immaginare, perché non tutti possono essere d’accordo nell’applicare alla psicoanalisi – e, per estensione, alle psicoterapie, almeno alle psicoterapie dinamiche – il concetto di fallimento che, immediatamente, evoca quello di successo. E, infatti, fin dalle prime pagine ci si chiede non solo come, ma anche chi dovrebbe stimare il successo della terapia, cioè l’aver raggiunto il suo scopo: inoltre, lo stesso scopo può essere configurato in modo assai diverso dal punto di vista del paziente, dell’analista, dei familiari del paziente stesso e/o del suo entourage. Siamo, dunque, nel campo della valutazione degli esiti del trattamento psichico, un campo che negli ultimi venti anni, cioè dalla comparsa di questo libro in avanti, è andato ampliando i confini e ha visto il contributo di un gran numero di studiosi e professionisti.
Il testo si snoda in tredici capitoli oltre alla già citata introduzione, e si chiude con gli indici dei nomi e degli argomenti; testo difficilmente sintetizzabile perché ogni autore ha dato un taglio molto personale alla materia. Sono così riportati numerosissimi casi clinici e vignette cliniche, ed ogni singolo autore ha elaborato la propria esperienza professionale sulla base del riferimento alla letteratura maggiormente consistente con il proprio orientamento teorico. Nel complesso emerge un testo di non semplice lettura (anche per il diverso stile espressivo nell’uso della lingua inglese da parte dei tredici autori) ma estremamente ricco e stimolante, oltre al fatto che rappresenta un punto di partenza per altre esplorazioni, sia verso il futuro, ma anche verso il passato – basti ricordare il bel contributo di Clarence P. Oberndorf “Failures with Psychoanalytic Therapy” (in: Failures in Psychiatric Treatment, a cura di Paul Hoch. Grune & Stratton, New York, 1948).
Si tratta di un libro che offre spazio a voci di diversa impostazione, richiamando fin dall’inizio e in modo globale il differente significato attribuito al concetto di successo (successo terapeutico, naturalmente) dalla Psicologia dell’Io, dai kleiniani, dalle scuole relazionali, da Kohut e così via, fino ad arrivare a quello attribuito dallo stesso Freud – senza dimenticare, si può subito aggiungere, che tali concetti richiamano l’antica questione della cura e se e quanto la psicoanalisi (e le tipologie di psicoterapie derivate) possano collocarsi nel contesto della terapia e non (anche, o soprattutto) in quello della conoscenza. Ma al di là degli echi del modello medico il libro affronta questioni centrali – centrali ieri ed oggi: dalla reazione terapeutica negativa, all’alleanza terapeutica; dal sentimento di fallimento del terapeuta collocato nella relazione transferale, agli enactment, e al sempre sorprendente (inquietante?) drop-out; dagli improvvisi peggioramenti del paziente nel corso della terapia, alle difficoltà che le rigidità tecniche impongono talvolta al terapeuta; dall’influenza di variabili esterne al trattamento ai tentativi-rimedi da ultima spiaggia (citando il rivolgersi al Prozac).
Alcune osservazioni si snodano poi al di sopra delle spalle del singolo analista; tra queste, le riflessioni di Ann-Luise S. Silver che tratta dei fallimenti al mitico Chestnut Lodge, richiamando gli insegnamenti di Frieda Fromm-Reichmann e di Harold Searles, dopo aver trascorso oltre venticinque anni presso the Lodge. Altri autori trattano il tema delle analisi seriali, cioè del paziente che si ripresenta diverse volte allo studio del terapeuta, ma anche delle varianti, ad esempio del paziente che svolge numerose tranche di analisi con diversi terapeuti; ed emerge, in questi casi (ma non solo) il tema del termine dell’analisi, del quando e del come chiudere il percorso terapeutico e, naturalmente, del processo decisionale che conduce a concludere.
Sullo sfondo di queste pagine riecheggiano, malinconicamente ma realisticamente, gli eventi in cui entrambi i membri della coppia terapeutica escono, in certo senso, sconfitti, avendo coscienza del mancato raggiungimento degli scopi minimi del trattamento; eppure, considerare questi e molti altri eventi che si verificano e potranno verificarsi significa evitare l’evitamento di coloro che non vogliono vedere ma, anche, evitare i molto facili atteggiamenti denigratori generalizzati.
Credo che sia da dare atto agli psicoanalisti, collocati sia dentro sia fuori le società e gli istituti di psicoanalisi, di essere stati fin dall’inizio interessati al tema dell’efficacia della cura analitica, a iniziare dal notissimo contributo freudiano sulla interminabilità dell’analisi, ma non solo. Ci si è posta la domanda in termini assai diversi e, non a caso, alcuni autori del testo curato da Reppen e Schulman richiamano alla memoria ciò che è definito il periodo adolescenziale della psicoanalisi, cioè quel periodo contraddistinto dall’idealizzazione, tradotta nell’idea che l’analisi potesse essere, e diventare, la cura per ogni sofferenza mentale. In questo quadro ricordo che un certo scalpore fece la comparsa del testo a cura di Benjamin B. Wolman Successi ed insuccessi in psicoanalisi e psicoterapia, uscito nel 1974 in una collana a suo tempo amata da diversi professionisti – la Piccola Biblioteca di Neurologia e Psichiatria – diretta da Raffaello Vizioli per l’editore Il Pensiero Scientifico. Tempi ormai lontani in cui le tante dimensioni della psicoterapia dovevano ancora fare compiutamente la loro comparsa in Italia; tempi in cui era, forse, più semplice e schietto il confronto tra esponenti di scuole diverse e l’onesta ammissione dei tanti problemi che chiunque eserciti questo mestiere non può non incontrare nel corso della sua attività.
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